Orario di lavoro libertà o rigidità – il problema dei quadri e delle alte professionalità
Un intervento del Ministro del Lavoro Poletti apparentemente non collegato a tematiche indifferibili, ha suscitato numerose polemiche sul fronte sindacale. Esso lascia ampi interrogativi anche per gli addetti alla materia i quali, lungi da posizioni preconcette, cercano di collocare l’intervento in un quadro logico. Da un lato si tocca il delicato tema dell’orario di lavoro, dall’altro si ipotizza una diversa struttura della prestazione e quindi del contratto e della retribuzione.
Per tale motivo, l’intervento ha suscitato qualche interesse, qualche polemica, ma al di là di questo potrebbe anticipare qualche cambiamento anche a lungo termine nell’ambito del lavoro.
Le dichiarazioni del ministro se lette attentamente paiono anticipare l’introduzione di forme di lavoro definite subordinate o a cui si applica la normativa del lavoro subordinato, ma che si differenziano dal lavoro tradizionale per il contenuto di autonomia da cui sono caratterizzate.
Mi riferisco alle recenti riforme del lavoro concretizzatesi nel jobs act che trovano attuazione nel DLGS 81/2015 nel cui ambito prestazioni professionali al limite della subordinazione, ma che non sempre sono destinate a dissimulare la stessa, saranno trasformate in rapporti di lavoro subordinato o comunque disciplinate dalla normativa del lavoro.
Il forte contenuto di autonomia di alcune prestazioni potrebbe far venir meno la stretta correlazione ore di lavoro e retribuzione, a favore di quella retribuzione e qualità o retribuzione e prodotto.
Già per quanto riguarda dirigenti e quadri, l’orario di lavoro appare una variabile non sempre correlata alla retribuzione.
Sappiamo che per queste categorie non valgono i limiti di legge all’orario di lavoro, e non dovrebbero valere, anche se ciò non accade i corrispettivi obblighi di orario.
Torniamo per il momento alle opinioni espresse dal Ministro per valutarle ormai “a freddo” dopo un certo lasso di tempo e dopo l’intervento di un ulteriore riforma del lavoro. .
1.L’opinione espressa dal ministro.
Il 27 novembre il Ministro Poletti, intervenendo all’Università LUISS, ha dichiarato che sarebbe necessario immaginare un contratto che non abbia come unico riferimento l’ora-lavoro, ma la misurazione dell’apporto dell’opera. La misurazione ora-lavoro è un attrezzo vecchio, aggiunge il ministro, e frena rispetto ad elementi di innovazione. La reazione, soprattutto da parte dei sindacati, è stata immediata: in particolare, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha obiettato che molte persone svolgono dei lavori faticosi, per cui l’orario di lavoro è una garanzia fondamentale per la salvaguardia della loro salute.
l 2 dicembre il Ministro Poletti è tornato sulla questione, affermando che la riflessione su un’eventuale modifica dell’orario di lavoro non è meramente personale o di livello nazionale, ma si tratta invece di un argomento allo studio affrontato sia a livello europeo che mondiale. Il Ministro ha proseguito dicendo che forme e modalità di un’eventuale riforma devono essere studiate e discusse; ha successivamente negato di aver fatto riferimento al cottimo, sottolineando invece il suo riferimento ad una partecipazione attiva e responsabile del lavoratore alla propria attività di lavoro.(Fonte: http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/poletti-e-le-polemiche-sull-orario-di-lavoro-mai-pensato-di-tornare-al-cottimo/220648/219847 ). Partiremo dall’attuale disciplina dell’orario di lavoro che già è stata in tempi non lontani, oggetto di interventi legislativi comunitari e nazionali.
Non vi è dubbio che allo stato, l’elemento di misurazione della prestazione subordinata è ancora il tempo. Aggiungo che ciò appare naturale dal momento che è insito nel concetto di subordinazione, mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie capacità psicofisiche.
Ne risulta che, la misurazione della prestazione in un ambito temporaneo appare quella contrattualmente più coerente. Da un lato, il lavoratore non potrebbe mettere a disposizione forze ed energie per un tempo indefinito, se non violando i canoni della nostra Costituzione, dall’altro, la direzione dell’attività che compete al datore di lavoro pone a carico di quest’ultimo l’organizzazione dei tempi di prestazione, così come pure del luogo.
La normativa comunitaria pone regole abbastanza precise in tema di orario di lavoro e di distribuzione della prestazione nell’ambito temporale. La Direttiva 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, all’articolo 2 prevede che per “orario di lavoro” si intende: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.
L’articolo 6 dispone che, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali.
Tuttavia, a ben osservare, essa in diversi punti in qualche modo contiene il germe per il superamento del rigido computo dell’orario giornaliero come base della prestazione.
La direttiva CE infatti, come pure la legge nazionale che fa seguito con il DLGS 66/2003 introduce un computo multi periodale dell’orario di lavoro in base alla durata media dello stesso.
In sostanza, la legge pone dei limiti di durata dei tempi di lavoro che si traducono in 48 ore settimanali, e in 11 ore di sosta tra una prestazione giornaliera e l’altra.
Ne permette però, tramite la contrattazione collettiva, il superamento qualora in un periodo massimo di tempo che può arrivare sino a 12 mesi, tramite una sorta di media, i limiti possano dirsi rispettati.
Vi è un ulteriore aspetto del rapporto di lavoro, laddove la rigida bilateralità orario e retribuzione, viene almeno in parte meno.
Mi riferisco all’orario dei dirigenti, dei quadri e del personale direttivo. Già l’articolo 3 del RD n.1955 del 1923 all’articolo 3 escludeva i dirigenti ed il personale direttivo tutto dall’applicazione della normativa in tema di limitazione all’orario di lavoro.
Di seguito, la legge 22.2.1934 n.370 escludeva i preposti dalla normativa in tema di riposo settimanale.
Quindi era emanato il DLGS 66/2003 cui abbiamo accennato ed esso è la normativa attualmente in vigore in materia di orario di lavoro.
Leggiamo quindi all’articolo 17 comma 5 del DLGS che le disposizioni in materia di limitazione dell’orario di lavoro non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro , a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e in particolare quando si tratta: a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo.
Leggendo il dato testuale, sarei portato a concludere che l’elemento necessario e sufficiente per l’applicazione della deroga sia la possibilità per il lavoratore di poter determinare il proprio orario di lavoro. Nella pratica quotidiana, ciò non accade spesso e quindi, a differenza che per il dirigente, soprattutto di livello elevato, il quadro o il direttivo finisce per avere un orario rigido o quasi e a non vedersi retribuito lo straordinario.
E’ interessante richiamare una non lontana sentenza della Corte di Cassazione (Sezione Lavoro 13.6.2008 n.16041) la quale intervenendo in materia, chiamata a decidere in merito all’orario di lavoro di un quadro dipendente da una casa automobilistica che regolarmente partecipava a fiere nonostante ciò non rientrasse nei suoi compiti, come per tali prestazioni allo stesso spettassero gli straordinari.
La Corte nel riconoscergli il diritto allo straordinario, testualmente così afferma: Non gli applica perciò la norma del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, art. 23, convertito in L. 17 aprile 1925, n. 473 , secondo cui la normativa sui limiti dell’orario normale di lavoro non si applica al personale direttivo delle aziende.Nè gli si applica la L. 22 febbraio 1934, n. 370, art. 1, n. 4, che menziona, tra le singole ipotesi di esenzione dal riposo settimanale, il “personale preposto alla direzione tecnica od amministrativa di una azienda ed avente diretta responsabilità nell’andamento dei servizi”: il signor E. non era preposto alla direzione dell’azienda, e non aveva responsabilità diretta nell’andamento dei servizi, considerati nella loro globalità.
Dunque una pronuncia non eccessivamente datata non successivamente emendata da altre decisioni dello stesso livello pone rilevanti limiti all’eccezione per i quadri dall’applicazione della normativa in tema di orario massimo di lavoro.
Il rapporto stretto ore di lavoro e retribuzione non trova neppure applicazione in un’altra fattispecie che potremmo definire a subordinazione attenuata come nel caso del lavoro a domicilio.
Dunque dove vengono meno i riferimenti di luogo e di tempo della prestazione, è quanto mai difficile ancorarvi l’assetto retributivo. Da qui il sorgere di numerose problematiche cui solo la contrattazione collettiva dedicata a specifiche professionalità potrà porre rimedio.
Con l’emergere della possibilità di superare il binomio orario – retribuzione,, si salda in qualche modo un progetto di legge destinato a diventare legge tra breve tempo.
Trattasi del disegno di legge 2233 del 2016 che oltre ad introdurre una disciplina innovativa per quanto attiene al lavoro autonomo e parasubordinato, tocca anche l’ambito del lavoro dipendente, con una fattispecie di prestazione (lavoro agile) caratterizzata da connotati di ampia autonomia soprattutto sotto l’aspetto del tempo e del luogo della prestazione.
Ci riferiamo al cosiddetto lavoro agile del quale indicheremo alcuni tratti. La disciplina del lavoro agile – secondo quanto si legge nella relativa proposta di legge , ha lo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il progetto di legge identifica le caratteristiche del c.d. “lavoro agile”, la prestazione che deve essere svolta in parte all’interno dei locali aziendali e con i soliti vincoli di massima che derivano dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Ciò significa in pratica che, una volta uscito dall’ambiente di lavoro, il lavoratore non è tenuto a rispettare non solo l’orario, ma neppure l’organizzazione dei tempi di lavoro per cui in qualche modo, egli si vincola, almeno in parte e principalmente al risultato della prestazione. Di norma, si tratterà di lavori svolti per il tramite di postazioni tecnologiche e ad ampia autonomia.
Di massima si intendono prestazioni dovute da personale con inquadramento medio alto.
E’ questa una tipologia di lavoro che può ampiamente interessare l’area dei quadri.
La disciplina di legge appare forse volutamente generica a favore probabilmente di una definizione contrattuale in sede collettiva, ma in parte anche collettivo – aziendale e pure individuale.
Il tutto potrebbe trovare risposta in un contratto collettivo nazionale o aziendale ideato per le alte professionalità.
Le parti sarebbero così indotte se non costrette a ricercare altri indici misuratori della prestazione, così valorizzando la professionalità richiesta e le caratteristiche della prestazione.
In tale ambito potrebbe trovare una concreta definizione anche il tema dell’orario di lavoro delle categorie direttive e ad elevata professionalità. Trattasi infatti di una disciplina che facilmente si presta ad interpretazioni del tutto equivoche che da un lato finiscono per imporre comunque un rigido orario di lavoro anche ai capi e d’altro canto non garantisce loro lo straordinario.
Una simile situazione potrebbe trovare definizione contrattuale nei casi di prestazioni ad ampia autonomia dove la contrattazione potrebbe definire delle fattispecie più o meno avanzate di lavoro agile e nel contempo stabilire una disciplina dell’orario e della sua retribuzione per il restante personale direttive cui risulta difficile l’applicazione di un contratto di lavoro anche in parte legato al risultato.
Fabio Petracci.