La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

Sanzione disciplinare della retrocessione – Autoferrotranvieri – Questione di incostituzionalità rimessione alla Corte Costituzionale – Cassazione Ordinanza n. 13525/19 del 20 maggio 2019.

L’inquadramento professionale e la professionalità in genere assumono tutela costituzionale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza sopra indicata è investita di un tema a lungo non affrontato.

Esso è individuato nella speciale sanzione della retrocessione professionale prevista esclusivamente per gli autoferrotranvieri dal regio decreto n.148/1931.

Un lavoratore colpito da tale sanzione e dequalificato in base a sanzione disciplinare, si rivolge al Tribunale di Bergamo , ammettendo i fatti contestati, ma contestando invece la legittimità della norma che consente nello specifico caso dei lavoratori autoferrotranvieri la sanzione della dequalificazione.

Il Tribunale di Brescia respinge la domanda ed il lavoratore si rivolge alla locale Corte d’Appello che conferma la decisione del Tribunale.

Si rivolge quindi alla Corte di Cassazione che, ritenendo fondata l’eccezione di incostituzionalità della norma che prevede la sanzione della retrocessione, investe della questione la Corte Costituzionale che, a questo punto, dovrà pronunciarsi.

L’ordinanza affronta il problema della retrocessione per la prima volta.

Altri interventi giurisprudenziali avevano invece smantellato gran parte dell’impianto disciplinare del settore degli autoferrotranvieri  anche relativamente al punto che prevedeva la giurisdizione del giudice amministrativo, laddove ormai ampi settori del lavoro pubblico erano stati devoluti alla giurisdizione ordinaria.

Al di fuori dello specifico settoriale interesse, la pronuncia riconosce il valore costituzionale del lavoro non solo negli elementi della prestazione e della retribuzione con i connessi diritti, ma eleva la professionalità ed il ruolo anche morale che ne consegue come autonomo diritto esplicazione dell’articolo 35 della Costituzione che non consente provvedimenti umilianti e degradanti.

Un passo importante nel riconoscimento del valore sia morale che contrattuale del bene professionalità e della tutela che merita.

Leggiamo e non possiamo che condividere il punto affrontato dalla difesa del ricorrente  “violazione diritto al lavoro” , laddove afferma che esso non si attua solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro , tra i quali senz’altro il diritto alla qualifica che è definita come bene legato alla persona del lavoratore come livello di esperienze personalmente maturate e conferite nel rapporto di lavoro.

Segue il testo dell’ordinanza.

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 19/02/2019) 20-05-2019, n. 13525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 3038/2015 proposto da:

P.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO DELLA VITE;

– ricorrente –

contro

A.T.B. SERVIZI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MATTEO GOLFERINI, MARGHERITA CAGGESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 327/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/07/2014 R.G.N. 60/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SERGIO GANDI per delega verbale Avvocato MARGHERITA CAGGESE.

Svolgimento del processo

Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 37, all. A, nonchè la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso provvedimento.

Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l’erroneità della decisione.

La società convenuta resisteva all’interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità.

La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio.

La Corte territoriale osservava che, come correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano.

La Corte d’Appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931, non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento stipendiale.

Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di concessione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonchè le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti.

Alla luce della specialità del rapporto, era dunque condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria.

Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non era invocabile proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse.

Secondo la Corte territoriale, era altresì manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente.

Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici.

La Corte di merito condivideva anche l’affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c., prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4. Nè poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni.

Infine, la Corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori discussione.

Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonchè tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018.

All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931,art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poichè esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro.

La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari.

Poichè la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, nè tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando – anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua – addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente.

Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni.

Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost..

D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina.

La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioè della sua capacità tecnicocon il progredire delle esperienze del lavoratore.

Disparità di trattamento.

Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti mansioni.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia.

D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacchè l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost..

Nè potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo.

Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benchè chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorchè la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano.

Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, nè come fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.

Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri, “problematica” da considerarsi fatto controverso e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti.

Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perchè la stessa dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro.

In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt. 37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l’art. 3 Cost..

Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), nè per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991.

In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall’armamentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori.

Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 Cost., non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7.

Il D.Lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicchè aveva opinato nel senso che non vi fossero più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970.

Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purchè sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poichè il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale.

Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti” – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, poichè soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell’art. 3 Cost.. Non era stato esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di motivazione.

Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui è processo.

Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 c.p.c., da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un approfondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931, ma altresì irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso.

Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613 del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22/04 – 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58″, in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti collettivi”. “La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato – già con il primo dei decreti delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonchè alla giurisdizione del giudice ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”.

In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100– 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego – salvo specifiche eccezioni – nell’area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa “devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, – attuativo della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali – il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina.

In proposito, non può non convenirsi con quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius “contrattualizzazione”) dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operatività dell’art. 58. Ed infatti – come già si è rilevato più sopra – il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell'”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del 1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5.

Tale norma – destinata, peraltro ad operare “a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui all’art. 72” (art. 68, comma 4) – è stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego).

Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perchè l’indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo, trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poichè la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è ormai venuta del tutto meno. E’ pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che – concepita in epoca precostituzionale – non può più essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare più possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma….”). Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento – ad es. sanzione disciplinare della retrocessione – la giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore – che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile.

V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio, più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione – peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perchè proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla giurisdizione amministrativa – era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni, giacchè le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata.

Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice amministrativo, anzichè a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria).

D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50(Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies – misure sul trasporto pubblico locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto, stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies è abrogato”.

Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.

L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria.

Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente.

Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorità competenti a giudicare delle mancanze relative.

Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo.

In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato).

Nè può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all’art. 36 Cost..

La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: “…Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce nè un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, nè un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost., comma 1) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)….” (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte – VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio – 10 aprile 2019: “La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una alternativa al licenziamento….”).

P.Q.M.

TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: – dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”, artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione) dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nei sensi meglio indicati nella motivazione che precede;

– dispone la sospensione di questo giudizio;

– ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle Parti di questo giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri;

– ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

– dispone, infine, l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.

Manda alla Cancelleria per gli anzidetti adempimenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della IV Sezione Civile – Lavoro di questa Corte, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019