La difficoltà di cambiare noi stessi

La vera resistenza al cambiamento è la sicurezza della nostra comfort zone. Vi riporto alcune storie che aiutano a capire le dinamiche che ci portano ad accettare di rimanere in situazioni che proprio non ci piacciono. Una volta raggiunta la consapevolezza e deciso di cambiare, inizia la parte più difficile: il ciclo emotivo del cambiamento.

(una riflessione a cura di Tiziana PANSA)

Le nostre abitudini sono state stravolte quasi quotidianamente, un’escalation che ha portato al blocco di quasi tutte le attività e all’obbligo di rimanere a casa: ciascuno avrà potuto verificare quanto sia tenace la resistenza al cambiamento anche solo delle nostre abitudini quotidiane, figuriamoci su noi stessi (“Ah, il mondo non è più quello di una volta…”. “Eh, i giovani d’oggi non sanno…”. Quante volte abbiamo sentito persone intorno a noi rimpiangere il passato, senza rendersi conto che il mondo cambia di continuo?).

 Il contesto intorno a noi evolve. Le persone, una volta raggiunto un certo equilibrio, tendono a voler rimanere ferme nella propria area di comfort, a costo di alienarsi dagli altri e dalle situazioni nuove che si vengono a creare. Però dovremmo ricordare la lezione di Charles Darwin, teorico della selezione naturale nell’evoluzione delle specie, il quale ci ha insegnato che in natura non è il più forte a sopravvivere, bensì colui che meglio si adatta al cambiamento. Invece noi, poco per volta, ci adattiamo alle situazioni che non ci piacciono. Non ci prendiamo la responsabilità di cambiare ciò che non va bene per noi.

Il filosofo americano Noam Chomsky utilizzava la metafora della rana bollita per spiegare come ogni cambiamento, se sufficientemente graduale, ci vede incapaci di reagire. Secondo la storiella, gettando una rana nell’acqua bollente, lei salterà fuori immediatamente, salvandosi la vita. Se, invece, la mettiamo in acqua fredda e poi iniziamo a scaldarla molto lentamente, lei si adatterà man mano alla temperatura e quando alla fine l’acqua diventerà troppo calda, non avrà più la forza di saltare fuori e morirà  bollita.

Secondo la psicologia comportamentale, l’area di comfort da cui è così difficile uscire è quella condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio. Noi siamo bloccati da paure di vario genere: si tratta delle nostre conversazioni interiori (ci diciamo, ad esempio, che non saremo capaci, che ormai siamo troppo vecchi per certe cose, che “non sta bene” esprimere la nostra rabbia) ovvero opinioni che potrebbero essere sostituite in qualsiasi momento con altre più utili, ma nella nostra mente sono equiparate a verità assolute, influenzano il modo in cui ci percepiamo e hanno il potere di paralizzare la nostra azione.

La più subdola fra tutte le conversazioni è quella che ci fa dire che le cose stanno così e non possiamo fare nulla per cambiarle, perché non dipendono da noi. Ovvero ci posizioniamo come vittima, innocente e impotente: stiamo male, ma stiamo comodi, non dobbiamo affrontare le nostre paure né fare la fatica di cambiare. In tal caso abbiamo tutto sotto il nostro controllo e ciò è molto rassicurante: il prezzo di una scelta di questo tipo è, però, altissimo, scegliendo la zona di confort ci adattiamo a vivere in una situazione sì tranquilla, ma via via sempre meno soddisfacente (come la rana che finisce bollita). Adattamento dopo adattamento, compromesso dopo compromesso, in pratica…scegliamo di non vivere.

La via di uscita? Come fa la rana, stordita dal calore, a saltare fuori dalla pentola?

Un coaching ontologico ci insegnerà che la parola chiave è responsabilità, intesa come abilità a rispondere. Ovvero, noi abbiamo il potere di cambiare noi stessi e le nostre conversazioni interiori: Invece di dirci che non possiamo fare nulla, perché la colpa è di qualcun altro, possiamo iniziare a chiederci cosa possiamo fare noi, per cambiare le cose.

Prendere coscienza di quello che non ci piace e decidere di cambiare è solo l’inizio. Secondo i ricercatori americani Don Kelley e Daryl Conner, da quel punto può iniziare la corsa su un ottovolante emotivo: se non siamo pronti, rischiamo di arenarci senza combinare nulla. Durante il ciclo emotivo del cambiamento, attraversiamo cinque fasi, a partire da un ottimismo ingiustificato (appena deciso, veniamo colti da un’euforia irrealistica, che si sgretola alle prime inevitabili difficoltà) che si trasforma nel suo opposto, cioè un pessimismo giustificato, ostacolo contro il quale si arena il 95% dei propositi di cambiamento.

Un classico sono i buoni propositi per il nuovo anno. Pensiamo di voler tornare in forma, ci iscriviamo in palestra (abbonamento annuale), compriamo tutta l’attrezzatura, ci immaginiamo già muscolosi e dimagriti in costume da bagno al mare…ed ecco che dopo la prima lezione, stanchi e indolenziti, iniziamo a rimpiangere la zona di comfort e ci chiediamo chi ce lo ha fatto fare, mettendo in dubbio la necessità di proseguire, cadendo in una “valle di disperazione” da cui è difficile uscire.

Per superare questa fase è utile scomporre l’obiettivo finale in una serie di sotto-obiettivi (prendendosi un impegno con se stessi, esplicitandolo davanti a testimoni). Tali stratagemmi ci aiutano a risalire dall’abisso verso un realismo incoraggiante, fase durante la quale facciamo fatica ma sappiamo di potercela fare. Compilare una lista dei piccoli successi quotidiani, da celebrare con soddisfazione, ci porta verso un ottimismo giustificato e infine verso il cambiamento riuscito.

 Non solo la vita delle persone viene spesso limitata dalla resistenza al cambiamento (dalla difficoltà di cambiare e di adattarsi a condizioni economiche e di mercato in continuo movimento): anche per le aziende succede. Lo abbiamo visto nell’emergenza legata al coronavirus, che ha costretto allo stop moltissime aziende: alla fine ad uscirne rinforzate saranno  ad esempio quelle che hanno avuto l’idea di convertire i propri impianti per la produzione di mascherine e disinfettanti per le mani, riuscendo così non solo a non fermare la produzione, ma a lavorare e produrre utili a pieno ritmo, oppure che son riuscite, comunque,  a riproporre/re-inventare il loro modo di produrre e vender prodotti.

Il cambiamento è per sua natura difficile da realizzare.  La nostra resistenza al cambiamento provoca difficoltà ad uscire dalla nostra area di comfort, altre volte, invece, abbiamo difficoltà ad accettare eventi esterni che viviamo come ingiusti (tipico è stata epidemia di Covid-19, che ha sconvolto le vite di milioni di persone): in un attimo ci siamo ritrovati chiusi in casa, senza poter lavorare, né frequentare luoghi pubblici, uscire a cena o anche solo invitare gli amici per un aperitivo.

Se ci guardiamo intorno, possiamo aver osservato diversi modi di reagire a questo imprevisto:  chi si è lasciato prendere dal panico, chi chiude tutto e aspetta che passi la tempesta, chi fa il minimo per sopravvivere, chi cerca di approfittare della situazione… e c’è chi reagisce, osservando ciò che accade, e cercando di capire come evolvere insieme alla situazione.

A questo proposito il racconto “Chi ha spostato il mio formaggio?” (di Spencer Johnson), divenuto ormai un classico, spiega molto bene e metaforicamente la situazione trascorsa.

 I protagonisti della storia sono quattro: due topolini mediamente intelligenti, ma con un olfatto favoloso (Nasofino e Trottolino) e due gnomi (Tentenna e Ridolino).

All’inizio le vite dei quattro personaggi sono molto simili: vivono in un labirinto e ogni giorno indossano la tuta e scarpe da ginnastica, escono di casa e vanno a cercare il formaggio per il loro sostentamento. Tutto cambia quando i quattro trovano un immenso deposito di formaggio, rifornito ogni giorno con nuove quantità. Gli gnomi, ben presto si stabiliscono a vivere direttamente nel deposito e iniziano a pensare di aver sempre vissuto lì.

 Ma, un brutto giorno, però, il formaggio scompare senza spiegazioni. Topolini e gnomi si trovano di fronte a un cambiamento imprevisto. I topolini sono i primi a reagire, si rimettono in moto e ben presto trovano del nuovo formaggio. I due gnomi, invece, rimangono completamente spiazzati (col tempo, infatti, si erano convinti di avere diritto al formaggio e vivono la situazione con un senso di profonda ingiustizia): Tentenna rimane rigidamente fermo sulla sua decisione aspettare che gli restituiscano ciò che gli è stato tolto mentre Ridolino si rende gradualmente conto che i segnali di un cambiamento c’erano stati (formaggio più secco, non rifornito quotidianamente), accetta la sua parte di responsabilità nell’accaduto e presto si mette di nuovo in cerca di altro formaggio.

Il formaggio è una metafora di quello che vorremmo avere nella nostra vita: un buon lavoro, ricchezza, salute, felicità… Il labirinto rappresenta il luogo in cui cerchiamo ciò che desideriamo: famiglia, azienda, associazione di volontariato, ecc. Il racconto ci insegna che il cambiamento è inevitabile: ci sarà sempre qualcuno che sposterà il “nostro” formaggio.

 Ridolino, con fatica e sofferenza impara che è meglio essere attento a ciò che succede intorno a lui, per cogliere i segnali di cambiamento e non essere impreparato quando la situazione evolve. Se avesse annusato più spesso il formaggio si sarebbe reso conto che diventava secco e che non veniva più rifornito ogni giorno. Da lì avrebbe potuto iniziare a cercare del nuovo formaggio prima di rimanerne completamente privo.

Al momento dell’entrata in vigore delle misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, le scuole e le aziende che avevano investito tempo e risorse per implementare nuove forme di lavoro smart o nuove tecnologie di comunicazione digitale, hanno potuto continuare a lavorare con un impatto economico decisamente minore rispetto ad altre.

Allo stesso modo alcune aziende, invece di accusare il colpo della chiusura degli impianti produttivi, hanno cercato una soluzione che fosse al tempo stesso utile alla collettività per far fronte alla crisi e all’azienda, per continuare a lavorare e garantire un reddito ai propri dipendenti, nel rispetto di condizioni di lavoro igienicamente sicure. 

Ciascuna realtà ha compreso che, comunque evolva la situazione, nulla tornerà ad essere come prima. Si aprono scenari di ampio respiro, che guardano ben oltre la fine della pandemia. La crisi sanitaria, umana ed economica è destinata a mutare profondamente il nostro modo di vivere e lavorare: quanto prima sappiamo cogliere la sfida di questo cambiamento ed escogitare nuove soluzioni per nuovi problemi, tanto più facilmente riusciremo costruire un nuovo equilibrio.

Ciò che noi possiamo fare, in periodi così difficili e dalle conseguenze imprevedibili è trarre qualche insegnamento utile per il nostro futuro.

Per caso siamo stati noi, proprio come gli gnomi del racconto, a non guardare i segnali che avevamo davanti agli occhi? A non ascoltare le voci di scienziati ed esperti che da tempo ci mettevano in guardia dalla pericolosità dei cambiamenti climatici e ambientali che il nostro stile di vita irresponsabile stava generando?

 Bill Gates già nel 2015 ci metteva in guardia dicendo che la minaccia più grande per l’umanità non era la guerra nucleare, bensì una pandemia. Suggeriva anche di iniziare a mettere in pratica ogni buona idea, dalla pianificazione degli scenari, alla ricerca sui vaccini, alla formazione degli operatori .

Inoltre, pur nella drammaticità degli eventi, non saranno sfuggiti fattori positivi (la solidarietà tra le persone e la responsabilità, anche sociale, delle imprese): la nostra sfida, alla fine della “tempesta”, sarà quella di raccogliere tutto il buono che è emerso (capacità di riconvertire impianti, politiche di sostegno alle imprese e alle famiglie, solidarietà verso le fasce più deboli, ecc.) e utilizzarlo per ricostruire una società e un tessuto economico più attento e consapevole, in grado di prevedere ed evitare simili disastri.

TP