Jobs Act – tutele crescenti e reintegra – l’insussistenza del fatto contestato
Licenziamento – articolo 18 legge 300/1970 come modificato dall’articolo 1, comma 42 della legge n.92 del 2012.
Insussistenza del fatto contestato – comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità – in tal caso si applica la sanzione della reintegrazione.
Lo afferma una recente sentenza della Corte di Cassazione che di seguito viene trascritta e che ha confermato analoga pronuncia concernente rapporto di lavoro disciplinato dal Jobs Act.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-11-2019, n. 28926
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4540-2018 proposto da:
OBI ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;
– ricorrente –
contro
F.O.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 522/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 27/11/2017 R.G.N. 387/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato LORENZO BOMBACCI.
1. Con sentenza n. 522/2017, pubblicata il 27 novembre 2017, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato, in data 24 febbraio 2016, a F.O. da OBI Italia S.r.l. in relazione a plurimi addebiti allo stesso contestati con lettere del 13 gennaio e del 15 febbraio 2016, con la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria determinata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
2. La Corte di appello ha ritenuto a sostegno della propria decisione: – quanto al fatto che il lavoratore, all’epoca gerente del punto vendita di (OMISSIS), avesse consigliato di ripianare un ammanco di cassa mediante versamenti personali dei dipendenti e omesso di informare la direzione aziendale dell’accaduto, che la relativa contestazione era stata tardivamente formulata, posto che l’ammanco si era verificato nell'(OMISSIS); – quanto al fatto di aver consentito che alcuni dipendenti fossero segnalati ai clienti come installatori accreditati dal punto vendita, che tale condotta, comunque limitata a pochi ed eccezionali casi di urgenza, fosse tollerata in virtù di una prassi aziendale consolidata e risalente nel tempo; – quanto alla vendita a prezzo ridotto di taluni quantitativi di pellet, che non era emerso dall’istruttoria che la merce fosse integra e senza difetti, risultando, in ogni caso, tra le facoltà del gestore del punto vendita, anche quella di operare sconti in caso di deterioramento; – quanto al fatto, oggetto di una precedente contestazione disciplinare, di essersi espresso in modo inurbano durante un colloquio telefonico con un rappresentante sindacale, che il relativo procedimento era stato archiviato, con conseguente operatività del divieto di bis in idem; – quanto al fatto di avere impedito di effettuare rimborsi ai clienti e di avere obbligato i dipendenti a convincere gli stessi ad aderire a cambi merci, che non si trattava di costrizione ma di persuasione, come emerso in sede istruttoria, integrando la condotta così addebitata, pur parzialmente inosservante delle direttive aziendali, una mancanza soggetta a sanzione disciplinare conservativa e non espulsiva, come anche il dimostrato uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, anch’esso oggetto di contestazione; – che infine fosse insufficiente la prova del fatto di avere spinto una lavoratrice madre a dimettersi o a chiedere la riduzione di orario e, quanto al fatto di avere rivolto un’accusa di tossicodipendenza ad una dipendente, che tale addebito, alla stregua delle risultanze istruttorie, dovesse essere ridimensionato.
3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società, affidandosi a cinque motivi, assistiti da memoria.
4. Il lavoratore è rimasto intimato.
1. Con il primo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e agli artt. 1175 e 1375 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, senza considerare che la valutazione del principio di immediatezza deve essere condotta in base al criterio di relatività, e cioè avendo riguardo alle circostanze di natura oggettiva (come la complessità e l’articolazione dell’impresa sul territorio) che possono ritardare la percezione o l’accertamento dei fatti, ed inoltre senza considerare che ciò che rileva, ai fini dell’indagine circa la tempestività della contestazione, non è il momento dell’astratta conoscibilità dell’infrazione commessa ma quello in cui il datore di lavoro ne acquisisca una reale e piena conoscenza.
2. Con il secondo viene dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, per avere la Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, ritenuto che dovesse applicarsi la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro, sebbene in caso di tardività della contestazione, come nell’ipotesi di fatto sussistente ma privo di illiceità, la tutela da riconoscersi a favore del lavoratore potesse essere soltanto quella risarcitoria.
3. Con il terzo e con il quarto viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, fatto consistito (3) nella difficoltà incontrata dalla società nell’accertamento dei fatti a causa della condotta degli altri dipendenti del punto vendita, fra cui in particolare il comportamento connivente dell’area manager; (4) in una delle condotte contestate, avente ad oggetto il ripetuto impiego di modi ineducati nei confronti di taluni dipendenti.
4. Con il quinto viene dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c. e degli artt. 220 e 229 c.c.n.l. Commercio per avere la Corte di appello, con l’affermazione che l’unico fatto di rilievo disciplinare dimostrato in giudizio era costituito dall’uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, offerto una valutazione assolutamente riduttiva dei fatti di causa e del tutto contraria alle risultanze istruttorie.
5. Il primo motivo è infondato.
6. Il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile (Cass. n. 13167/2009, fra altre numerose conformi).
7. Come pure è stato ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, il criterio dell’immediatezza deve essere inteso in senso relativo, poichè si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per il compimento delle indagini dirette ad accertare i fatti e la complessità dell’organizzazione aziendale: la valutazione in proposito compiuta dal giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 281/2016).
8. Nella specie, la Corte di appello, con una congrua e corretta motivazione, comunque non oggetto di (ammissibile) censura, ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, in relazione agli addebiti concernenti il ripianamento dell’ammanco di cassa e la svendita di pellet, osservando come, essendo stato informato di entrambi i fatti l’area manager, e cioè la figura apicale dell’azienda nel punto vendita, secondo quanto l’istruttoria aveva consentito di accertare, era da ritenere che la datrice di lavoro ne avesse avuto piena e immediata conoscenza e ciò anche sul rilievo – conforme a consolidato principio di diritto (Cass. n. 15467/2004; n. 9894/1993) – che il ritardo nella contestazione dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in essere dal dipendente.
9. Il secondo motivo è parimenti infondato.
10. La Corte territoriale ha invero accertato, in relazione a taluni addebiti, la materiale insussistenza del fatto, così come contestato (con riferimento all’uso di un linguaggio scurrile e irrispettoso delle prerogative sindacali, l’intervenuta consumazione del potere disciplinare per lo stesso fatto storico e violazione del principio di ne bis in idem, essendo stato archiviato un precedente procedimento disciplinare); ha poi accertato, in relazione ad altri addebiti, elementi idonei ad escludere la illiceità della condotta: come l’esistenza di una prassi consolidata e risalente nel tempo, tollerata dall’azienda, per l’addebito avente ad oggetto il consenso prestato all’attività di installazione da parte di dipendenti del punto vendita, la cui prova, peraltro, ha osservato la Corte non essere stata neppure raggiunta con certezza; e come il fatto che nelle facoltà del gestore del punto vendita fosse compresa anche quella di praticare sconti, specie in caso di merce deteriorata, per l’addebito relativo alla contestata “svendita” di bancali di pellet.
11. Ne consegue che la Corte ha correttamente richiamato e applicato il principio, per il quale l’insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (Cass. n. 20540/2015; conformi, fra le molte: Cass. n. 18418/2016; n. 11322/2018).
12. Il terzo e il quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, risultano inammissibili per effetto della preclusione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., (c.d. “doppia conforme), a fronte di giudizio di secondo grado introdotto con reclamo depositato il 25 agosto 2017 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della norma.
13. Nè la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).
14. Egualmente inammissibile risulta il quinto motivo di ricorso.
15. Al riguardo si deve innanzitutto ribadire che “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5): Cass. n. 13395/2018.
16. In realtà la ricorrente, sotto il velo della denuncia del vizio di cui all’art. 360, n. 3, lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo dell’affermazione o della negazione dell’esistenza della norma in contestazione, ovvero dal dedurre una falsa applicazione determinata da un errore di sussunzione, ha inteso rimettere in discussione l’accertamento di fatto posto in essere dal giudice del merito con riferimento alla gravità dei fatti contestati e alla loro idoneità a integrare la fattispecie della giusta causa, anche tenuto conto delle previsioni della contrattazione collettiva in materia di licenziamento in tronco.
17. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
18. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese del giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.
La Corte respinge il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019.
Nota.
Nel caso di specie, si procedeva al licenziamento di un dipendenti per fatti non solo contestati tardivamente ma la cui materialità non lasciava trasparire alcuna valenza disciplinare. Il rapporto di lavoro risulterebbe sorto anteriormente al regime delle tutele crescenti introdotto con il Jobs Act DLGS 23/2015.
Prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e quindi limitatamente ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la reintegra nel caso di licenziamento privo di giusta causa avveniva allorquando fosse stata accertata l’insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
Successivamente all’entrata in vigore delle cosiddette “Tutele Crescenti”la reintegra opera esclusivamente come testualmente stabilito dalla legge di fronte all’insussistenza materiale del fatto contestato al lavoratore.
Già in precedenza ed in tema di interpretazione del concetto di “fatto materiale” di cui al DLGS 23/2015 , la Cassazione – Sezione Lavoro n.12174/2019 . La Suprema Corte ha voluto così assolutamente identificare l’insussistenza del fatto materiale di cui al DLGS 23/2015 all’insussistenza del fatto contestato di cui all’articolo 18, comma 4 della legge 300/70, con un ragionamento che viene di seguito testualmente riprodotto:
“Il medesimo criterio razionale che ha già portato questa Corte a ritenere che “quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione” (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2.”
Giova ricordare che il DLGS 23/2015 è già stato in parte dichiarato incostituzionale con la pronuncia della Consulta n.194/2018 in merito alla predeterminazione delle forme di risarcimento.
Sono inoltre state emesse n.2 ordinanze; una del Tribunale di Milano in data 5.8.2019 che rinvia alla Corte di Giustizia le differenze di trattamento tra lavoratori soggetti alla legge 223/91 ed il cennato DLGS 23/2015, nonché la coeva ordinanza del Tribunale di Bari del 18.4.2019 che rinvia alla Corte Costituzionale le previsioni di legge che stabiliscono un minore risarcimento nel caso di licenziamento affetto da vizio di forma.