COVID19 – Cosa accade se il lavoratore rifiuta il vaccino?
L’avvio delle vaccinazioni anti COVID 19 nonché le preesistenti polemiche in merito all’obbligatorietà dei vaccini con le prese di posizione dei movimenti no vax, hanno reso quanto mai attuale la posizione etica ma anche legale di quanti rifiutano il vaccino.
La questione si pone in maniera del tutto peculiare nell’ambito dei rapporti di lavoro.
Trattasi di un ambito contrattuale che involge diversi aspetti di interesse pubblicistico e sociale.
Già al manifestarsi della pandemia, si poneva il problema della speciale protezione che sarebbe spettata a quanti lavoravano nel corso della stessa.
L’articolo 42 del DL 18/2020 emanato in piena emergenza introduceva il contagio da COVID 19 tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL, accanto alla quale si pone anche a titolo di colpa la responsabilità del datore di lavoro.
In ogni caso l’articolo 2087 obbliga il datore di lavoro, anche di fronte all’incertezza ondivaga della scienza di garantire ai propri prestatori il massimo della sicurezza.
Nello stesso periodo, sindacati e datori di lavoro adottavano il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.
In questo panorama emergenziale, si è ora inserito il vaccino anti COVID 19 come mezzo di prevenzione di elevata se non totale sicurezza.
Si pone quindi di fronte all’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei propri dipendenti in tutti i modi possibili, nonché di evitare che il proprio personale arrechi pregiudizi ai terzi , di esaminare la posizione del dipendente che rifiuta la copertura vaccinale.
Da molte parti si sostiene come, non esistendo un obbligo di legge per quanto concerne il vaccino ANTI COVID 19, nulla possa fare il datore di lavoro di fronte al rifiuto del lavoratore a vaccinarsi.
Altri invece, sostengono la facoltà del datore di lavoro di procedere al licenziamento del lavoratore che rifiuta il trattamento vaccinale.
Hanno avuto recente risonanza le opinioni del giuslavorista Pietro Ichino e del dottor Raffaele Guariniello già magistrato ed esperto di sicurezza sul lavoro.
Il professor Ichino nell’ambito dell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 29 dicembre 2020 ha affermato come l’articolo 32 della Costituzione che esclude ogni obbligo di trattamento sanitario che non sia imposto dalla legge, non scalfisca l’obbligo del lavoratore addetto a settori a rischio di doversi vaccinare contro il contagio da COVID 19.
Secondo il professor Ichino, la norma che impone al datore di lavoro di imporre ai propri dipendenti la vaccinazione anti – COVID c’è già: è l’articolo 2087 che non solo consente, ma in nome della piena sicurezza sul lavoro, impone al datore di lavoro di esigere l’obbligo vaccinale anti COVID 19.
L’affermazione dello studioso si basa sugli obblighi contrattuali che gravano sulle parti anche in forza dell’articolo 2087 del codice civile che richiede l’adozione di tutte le misure consigliate dalla scienza e dall’esperienza per assicurare la salute e il benessere di tutti i dipendenti
In tal modo, l’obbligo vaccinale non si identificherebbe con un obbligo legale, ma semplicemente con un onere /requisito contrattuale che consente di iniziare o proseguire la prestazione.
Secondo il professor Ichino, la mancata vaccinazione anti COVID 19 costituisce un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Quindi, allorquando sussiste un rischio apprezzabile di contagio, il datore di lavoro può condizionare la prosecuzione del rapporto di lavoro alla vaccinazione.
Semplificato in tal modo, il ragionamento sicuramente più complesso dello studioso, porta a ritenere che il soggetto per la legge è libero di non vaccinarsi, ma qualora voglia assumersi un determinato obbligo contrattuale che richiede dei requisiti imprescindibili di sicurezza, tale adempimento ben possa essere richiesto dalla controparte.
Ad analoghe conclusioni, ma incentrate principalmente sulla normativa in tema di sicurezza sul lavoro e di sorveglianza sanitaria, perveniva il già noto magistrato e studioso di sicurezza sul lavoro Raffaele Guariniello.
L’ex procuratore della Repubblica perviene ad analoghe conclusioni citando anche l’articolo 279 del Testo Unico sulla Sicurezza negli Ambienti di Lavoro, DLGS n.81/2008 che prevede in modo specifico l’obbligo per il datore di lavoro, soprattutto in determinati settori a rischio, di richiedere la vaccinazione del dipendente nel caso di rischio di infezione derivante da agente biologico presente nella lavorazione, applicandosi in tal caso la norma al rischio grave di infezione derivante dalla compresenza di diverse persone in uno spazio chiuso soprattutto in determinate circostanze di pandemia.
In questo caso, ritiene il Procuratore della Repubblica Guariniello che se il rifiuto di vaccinazione non è ragionevolmente motivato, deve adottarsi il provvedimento più appropriato.
In tal caso, potrebbe prospettarsi la sospensione dal lavoro senza diritto alla retribuzione del dipendente ingiustificatamente renitente sino a quando la pandemia non sia cessata, e nei casi più gravi, il licenziamento dello stesso.
Più articolate e spesso difformi altre importanti posizioni anche di recente emerse.
L’attuale Presidente della Corte Costituzionale dottor Giancarlo Coraggio nell’intervista rilasciata a TGCOM 24 del 30.12.2020, ha affermato come la possibilità e quindi l’obbligo di trattamenti sanitari obbligatori sia previsto dalla Costituzione, ma come, in ogni caso, per attuarlo, anche in ambito lavorativo, sia necessaria una legge.
Egli ritiene come per ora ed in attesa della certezza dei dati scientifici, tale obbligo sia principalmente morale.
Egli ritiene quindi che, in assenza di una legge, non sia possibile procedere al licenziamento del dipendente che rifiuta di vaccinarsi.
Altrettanto interessante ed aperta a diverse soluzioni è l’opinione espressa dall’avvocato Gabriele Fava componente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti espressa sul sito “formiche.net”.
Quivi si parte dall’orientamento espresso nella sentenza 258/1994 della Corte Costituzionale dove in tema di trattamenti sanitari si vuole contemperare i diritti del singolo con quelli della collettività.
Su tale base, si riafferma la piena precettività dell’articolo 32 della Costituzione che però è destinato a bilanciarsi con il diritto alla salute e con la libertà di impresa.
Tale opera di bilanciamento, secondo l’autore, è affidata all’articolo 2087 del codice civile norma aperta alla maggior difesa possibile della salute, della sicurezza ed anche della tutela morale nell’ambito del lavoro.
In tal senso, le soluzioni vengono affidate alla valutazione della tipologia del lavoro, al rischio connesso, auspicandosi comunque un intervento legislativo.
Ad avviso di chi scrive, la questione non può essere affrontata in termini di contrapposizione ed un tanto risulta anche dai qualificati interventi che precedono.
E’ pur vero che l’articolo 39 della Costituzione esclude l’obbligo di trattamenti sanitari qualora gli stessi non siano imposti dalla legge.
Nel caso di specie, non di obbligo in realtà si tratta, ma di un semplice onere in ragione dell’obbligo contrattuale assunto.
Dunque la questione non deve essere vista sotto l’aspetto meramente disciplinare o sanzionatorio che potrebbe portare al licenziamento per giusta causa, ma sotto l’aspetto dell’idoneità del contraente a svolgere in sicurezza per sé e per gli altri la mansione contrattualmente dedotta.
Sulla base di questa considerazione, particolare attenzione va posta all’obbligo di prestazione che il dipendente si assume ed al corrispondente obbligo contrattuale e di legge di garantire la salute che incombe sul datore di lavoro.
Vi sono degli ambiti professionali dove la tutela della altrui salute assume un ruolo determinante nella causa del contratto.
Altri dove la salute del lavoratore è costantemente ad alto rischio.
Parliamo in primo luogo delle professioni sanitarie, ma possiamo anche menzionare professioni di contatto quali la scuola o la sicurezza.
L’obbligazione che si assume un medico, un infermiere, un qualunque sanitario di qualsiasi livello o altro lavoratore è quella di operare senza danno per sé e per gli altri a tutela della salute.
Dunque l’immunità è prima di tutto un requisito professionale, come il brevetto per il pilota o per il macchinista dei treni, la patente per il camionista, la buona condotta per il carabiniere o la guardia giurata.
Il venir meno di questi requisiti rende la prestazione impossibile o addirittura inesigibile, a prescindere dal rifiuto più o meno legittimo a sottoporsi al vaccino anti COVID 19.
Se è vero che non sussiste un obbligo legale per il cittadino di sottoporsi al vaccino in questione e che lo stesso non può essergli a maggior ragione imposto dal datore di lavoro, possiamo arguire che difficilmente su tale base potrà individuarsi una giusta causa di recesso in quanto il lavoratore non ha infranto obbligo disciplinare alcuno.
Nondimeno, l’assenza della relativa immunità, senza costituire colpevole violazione disciplinare, viene a rompere il sinallagma contrattuale che prevede l’idoneità fisica anche sotto l’aspetto della profilassi sanitaria per svolgere quelle specifiche mansioni, per cui si verificherà l’impossibilità sopravvenuta alle stesse che potrà comportare la sospensione senza retribuzione, il trasferimento ad altre mansioni ove fattibile, o in estrema soluzione, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
E’ questa la soluzione di sintesi e riflessione delle qualificate opinioni che sono state espresse in materia.
Sul piano pratico cui tutte le nostre riflessioni poi tendono, nel caso in cui un lavoratore rifiuti la vaccinazione anti COVID 19, sarà opportuno valutare il settore nel cui ambito si svolge la situazione, la possibilità di una rapida e conveniente sostituzione, e ove si ravvisi l’assoluta necessità di procedere valutare dapprima un periodo di sospensione non retribuita per la durata della pandemia e, in casi estremi, procedersi al licenziamento.
In quest’ultimo caso, il recesso potrà adottarsi per giustificato motivo oggettivo dato dall’impossibilità della prestazione.
Il recesso per giustificato motivo soggettivo presuppone invece un inadempimento contrattuale e quello per giusta causa una mancanza disciplinare. In questo caso, in assenza di prescrizioni collettive o disciplinari e di norme di legge cogenti, il percorso potrebbe presentarsi maggiormente difficoltoso.
Fabio Petracci.
Presidente Centro Studi di CIU Unionquadri Corrado Rossitto.