La
professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al
lavoratore
Sanzione disciplinare della
retrocessione – Autoferrotranvieri – Questione di incostituzionalità rimessione
alla Corte Costituzionale – Cassazione Ordinanza n. 13525/19 del 20 maggio
2019.
L’inquadramento professionale e la
professionalità in genere assumono tutela costituzionale.
La Corte di Cassazione con l’ordinanza
sopra indicata è investita di un tema a lungo non affrontato.
Esso è individuato nella speciale
sanzione della retrocessione professionale prevista esclusivamente per gli
autoferrotranvieri dal regio decreto n.148/1931.
Un lavoratore colpito da tale sanzione
e dequalificato in base a sanzione disciplinare, si rivolge al Tribunale di
Bergamo , ammettendo i fatti contestati, ma contestando invece la legittimità
della norma che consente nello specifico caso dei lavoratori autoferrotranvieri
la sanzione della dequalificazione.
Il Tribunale di Brescia respinge la
domanda ed il lavoratore si rivolge alla locale Corte d’Appello che conferma la
decisione del Tribunale.
Si rivolge quindi alla Corte di
Cassazione che, ritenendo fondata l’eccezione di incostituzionalità della norma
che prevede la sanzione della retrocessione, investe della questione la Corte
Costituzionale che, a questo punto, dovrà pronunciarsi.
L’ordinanza affronta il problema della
retrocessione per la prima volta.
Altri interventi giurisprudenziali
avevano invece smantellato gran parte dell’impianto disciplinare del settore
degli autoferrotranvieri anche
relativamente al punto che prevedeva la giurisdizione del giudice
amministrativo, laddove ormai ampi settori del lavoro pubblico erano stati
devoluti alla giurisdizione ordinaria.
Al di fuori dello specifico settoriale
interesse, la pronuncia riconosce il valore costituzionale del lavoro non solo
negli elementi della prestazione e della retribuzione con i connessi diritti,
ma eleva la professionalità ed il ruolo anche morale che ne consegue come
autonomo diritto esplicazione dell’articolo 35 della Costituzione che non
consente provvedimenti umilianti e degradanti.
Un passo importante nel riconoscimento del
valore sia morale che contrattuale del bene professionalità e della tutela che
merita.
Leggiamo e non possiamo che condividere
il punto affrontato dalla difesa del ricorrente
“violazione diritto al lavoro” , laddove afferma che esso non si attua
solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e
soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di
lavoro , tra i quali senz’altro il diritto alla qualifica che è definita come
bene legato alla persona del lavoratore come livello di esperienze
personalmente maturate e conferite nel rapporto di lavoro.
Segue il testo dell’ordinanza.
Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud.
19/02/2019) 20-05-2019, n. 13525
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 3038/2015 proposto da:
P.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA
CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato LUCIANO DELLA VITE;
– ricorrente –
contro
A.T.B. SERVIZI S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA
22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende
unitamente agli avvocati MATTEO GOLFERINI, MARGHERITA CAGGESE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 327/2014 della CORTE D’APPELLO
di BRESCIA, depositata il 10/07/2014 R.G.N. 60/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato SERGIO GANDI per delega verbale
Avvocato MARGHERITA CAGGESE.
Svolgimento del processo
Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a.,
concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro
di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto
all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di
ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi
contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui
l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di
due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e
assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 37,
all. A, nonchè la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio
Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento
della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti
retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito
dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso
provvedimento.
Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava
il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la
legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148,
per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il
ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di
legittimità costituzionale.
Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo
l’erroneità della decisione.
La società convenuta resisteva all’interposto gravame,
spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza
impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità
della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine
alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità.
La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in
data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello
principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al
secondo grado del giudizio.
La Corte territoriale osservava che, come
correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva
contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6
novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era
stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., in ragione di mesi
undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle
anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse,
siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano.
La Corte d’Appello, quindi, condivideva la
qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era
stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità
costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931, non era il
petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato
petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la
reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro
retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento
stipendiale.
Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per
ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta
la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del
gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale
le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta
specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio
Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente
arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli
autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte
costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il
rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di
concessione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello
privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio
Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonchè
le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del
rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al
buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto
riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende
autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con
poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e
alla polizia di trasporti.
Alla luce della specialità del rapporto, era dunque
condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la
permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la
scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla
speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle
aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto non era censurabile sul
piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente
arbitraria.
Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone
comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa
concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati
o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non era invocabile
proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di
lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto
privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni.
Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in
proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non
anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse.
Secondo la Corte territoriale, era altresì
manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta
normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la
questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla
violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità
costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva,
una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista
dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati,
retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo
comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto,
alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva
introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo
che il suo richiamo non appariva pertinente.
Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto
comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai
dipendenti privati e pubblici.
La Corte di merito condivideva anche l’affermazione
del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del
diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione
temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c.,
prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un
anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la
restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando
gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la
facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43,
commi 3 e 4. Nè poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza
fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata
negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto
del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni.
Infine, la Corte distrettuale rilevava come la
retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli
autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori
discussione.
Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto
ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015,
affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante
controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonchè tramite
ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da
memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il
giorno 17 ottobre 2018.
All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha
ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa
ordinanza.
Motivi della
decisione
Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il
ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui
disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931,art. 37, comma 1,
n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo
attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto
con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i
quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà
costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile
dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico
professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze
lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle
capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non
solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura
strettamente legata alla persona del lavoratore, poichè esprime appunto il
livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente
riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per
l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per
l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare
chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela
della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui
relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del
lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro.
La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella
corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella
garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in
relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore,
ma non per motivi puramente disciplinari.
Poichè la qualifica non costituisce di certo un
beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, nè tantomeno un
accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma
rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento
storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e
ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare
inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un
mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da
lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando –
anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la
normativa de qua – addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente.
Di conseguenza, si assume da parte ricorrente,
altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta
privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore,
stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del
resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai
generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a
quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori
subordinati in materia di qualifica e di mansioni.
Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato
dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo
nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione
applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre
rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella
successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus
del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia
dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa
costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost..
D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto
disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono
essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio
generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione
definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel
licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla
relativa disciplina.
La ratio delle anzidette disposizioni di legge era
ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in
particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e
cioè della sua capacità tecnicocon il progredire delle esperienze del
lavoratore.
Disparità di trattamento.
Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione
ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37,
comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in
contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo
una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i
soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di
trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la
legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica
raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di
trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita
specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che
non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma
attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore
di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare
ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non
al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del
lavoratore e sulle corrispondenti mansioni.
Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di
legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non
poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante
e preliminare ai fini della decisione della controversia.
D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si
intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e
incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali
questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e
oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il
diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione
corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacchè
l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo
dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di
manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza
per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro
subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost..
Nè potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna
norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del
datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione
dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia
nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo
ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui
beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente
poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali
della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti
generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per
particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi
ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a
carico degli aderenti al medesimo.
Anche per quanto concerne la specifica disciplina del
lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al
potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti
professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni
espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di
sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benchè chiaramente
deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali.
In particolare, allorchè la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro,
ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i
comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi
le norme di legge che li autorizzano.
Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e
art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende
ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della
Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e
di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come
un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo,
cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona.
Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica
rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di
ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla
massimizzazione dei profitti, nè come fattore di produzione, ma come
realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.
Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è
stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa
la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli
autoferrotranvieri, “problematica” da considerarsi fatto controverso
e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti.
Si contesta la motivazione fornita dai giudici di
merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità
costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della
disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso
del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna
plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità
caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perchè la stessa
dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad
altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale
quale il potere disciplinare del datore di lavoro.
In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt.
37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto
dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la
retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del
rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai
pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego
pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile
motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una
sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice
di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se
anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse
collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non
potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente
carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente
legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole
disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto
autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile,
con l’art. 3 Cost..
Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del
personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione
costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il
trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli
autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi
ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del
rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la
retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle
Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95
contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la
sospensione e il licenziamento), nè per i dipendenti delle aziende di trasporto
merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991.
In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il
ricorrente, era stata palesemente tratta dall’armamentario sanzionatorio
previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione
legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti
del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica
parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che
avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori.
Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata
circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme
residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 Cost., non avrebbe avuto
alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di
contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti
giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era
stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa
parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto
autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero
titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i
ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal
suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione
soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e
all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari,
della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva
dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse
permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la
A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente
il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel
relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul
mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad
una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici).
Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione
del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonchè
della L. n. 300 del 1970, art. 7.
Il D.Lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della
cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme
relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era
intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni
amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di
disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con
il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che
l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei
consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa
pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli
autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicchè aveva opinato nel senso
che non vi fossero più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della
disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970.
Quanto, poi, alla limitazione temporanea della
sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha
osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al
Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica
rivestita prima della retrocessione, purchè sia trascorso almeno un anno dal
provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale
giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del
datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga
del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta
unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il
dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera
con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si
era verificata nel caso di specie, poichè il P. si era visto reiteratamente
respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la
restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove
il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal
Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse
possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie
ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni
della stessa parte datoriale.
Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la
omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata
in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica
da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di
discussione tra le parti” – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, poichè soltanto per i ferrotranvieri
in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva
perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in
base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed
ancora pure dell’art. 3 Cost.. Non era stato
esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione
degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di
motivazione.
Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate
le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati
dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano
indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della
controversia di cui è processo.
Ed invero, pur indipendentemente da talune errate
rubricazioni sub art. 360 c.p.c., da parte ricorrente,
che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto
il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse
meritano un approfondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle
leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione,
la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo
dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931, ma altresì
irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute
nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato
regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui
ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una
sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno
nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare
degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso.
Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi
pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di
merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente
formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza
questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ.,
sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di
sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in
concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art.
58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante
l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della
disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del
giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un.
nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613
del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917
del 22/04 – 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva
quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel
senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli
addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice
amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art.
58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante
l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della
disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del
giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58″, in base a
molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del
settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda
delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente
in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di
specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un
significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima
disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui art.
1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata
in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi
comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale
regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di
categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti
collettivi”. “La tendenza verso un graduale avvicinamento della
disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato
trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale
delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in
materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato – già con il primo dei decreti
delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – attraverso
la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla
contrattazione collettiva e individuale, nonchè alla giurisdizione del giudice
ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i
limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione
e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”.
In particolare, quanto alla materia disciplinare, il
generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu
realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100– 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo
stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del
pubblico impiego – salvo specifiche eccezioni – nell’area del diritto privato e
il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano
fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare
configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa
“devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma
nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, – attuativo
della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul
conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed
agli enti locali – il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni
amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina.
In proposito, non può non convenirsi con quanto
sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19
aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale
conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo
della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole
norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e
che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta
abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali
organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi
avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius
“contrattualizzazione”) dei rapporti di lavoro con le pubbliche
amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche
in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la
conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto
complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di
operatività dell’art. 58. Ed infatti – come già si è rilevato più sopra – il
trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso
dell'”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del
1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale
venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di
giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso,
in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti
di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5.
Tale norma – destinata, peraltro ad operare “a
partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del
medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui
all’art. 72” (art. 68, comma 4) – è stata riprodotta, con qualche modifica
(non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego).
Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin
dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta
l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58,
oggetto del presente giudizio, proprio perchè l’indubbia portata generale della
disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo,
trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di
lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di
privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca
evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego,
diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del
rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai
numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua
anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poichè la competenza del
giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti
di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è
ormai venuta del tutto meno. E’ pure il caso di aggiungere che non sarebbe
comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una
disciplina che – concepita in epoca precostituzionale – non può più essere
interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale
l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la
conseguenza che non appare più possibile limitarsi a prendere atto di una
mancata espressa abrogazione di tale norma….”). Di conseguenza, possono
dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute
non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico
riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo
processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice
delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della
Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo
l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni
sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento
antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto
comportamento – ad es. sanzione disciplinare della retrocessione – la
giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione
del pretore – che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di
costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione
doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile.
V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio,
più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte,
non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso
giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di
legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art.
37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori
dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della
retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della
questione – peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio,
manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perchè proposta da
giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla
giurisdizione amministrativa – era stato prospettato dal giudice rimettente,
secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni,
giacchè le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici
servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata.
Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale
veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art.
58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice
amministrativo, anzichè a quello ordinario, la cognizione delle controversie in
materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti
immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata
ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal
legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di
ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non
intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non
essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria).
D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno
appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata
della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a
fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere
di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale,
come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con
eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare,
indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno
considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli
anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con
conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto,
segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50(Disposizioni
urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali,
ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo
sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva
disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies – misure sul trasporto pubblico
locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e
la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono
abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto
collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla
data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91
(Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito
con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U.
12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica
del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto,
stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni,
dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma
12-quinquies è abrogato”.
Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed
applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che
nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere
agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la
multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal
servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne
è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva
entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per
l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un
anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello
stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.
L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella
retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli
agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il
provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione
della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due
gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu
commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni
esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere
retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la
tabella graduatoria.
Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile,
si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco
punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il
disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente.
Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del
termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di
sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne
siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della
quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando
gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà
dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3
e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove
però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere
l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a
seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il
raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può
esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito
abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento
spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo,
promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti
a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel
loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella
stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per
effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la
retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o
della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere
aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco
punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte
possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse
autorità competenti a giudicare delle mancanze relative.
Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca
evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si
ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale
conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale
da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che
per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte
aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede
giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo
con effetti duraturi sotto il profilo retributivo.
In tale contesto appare irragionevole la
retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una
vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale
non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi
trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure
gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai
ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato).
Nè può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale
della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con
i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale
(garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per
concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove
al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione
professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in
stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo
indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza,
attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga
possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul
diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi
di cui all’art. 36 Cost..
La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la
recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata
in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata
motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in
materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi
impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: “…Alla luce
di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata,
prevede una tutela economica che non costituisce nè un adeguato ristoro del
danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, nè un’adeguata dissuasione
del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una
siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione
non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale
interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto
dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un
rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione
attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un
pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del
Considerato in diritto).
Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la
“tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”
(art. 35 Cost., comma 1) comportano la
garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali
costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della
persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già
richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi
fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del
Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si
afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può
spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri
diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)….” (cfr. peraltro,
da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento,
ricordato ancora da questa Corte – VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data
8 gennaio – 10 aprile 2019: “La privazione totale delle mansioni, che
costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto
di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063
resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un
rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una
alternativa al licenziamento….”).
P.Q.M.
TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: – dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”,
artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione)
dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del
personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di
concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, in
relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nei
sensi meglio indicati nella motivazione che precede;
– dispone la sospensione di questo giudizio;
– ordina che, a cura della Cancelleria, la presente
ordinanza sia notificata alle Parti di questo giudizio di cassazione, al
Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei
Ministri;
– ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento;
– dispone, infine, l’immediata trasmissione degli
atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle
prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.
Manda alla Cancelleria per gli anzidetti adempimenti.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della
IV Sezione Civile – Lavoro di questa Corte, il 19 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019