Assunzioni PA e riduzione turnover

Anche a seguito delle osservazioni formulate da CIU UNIONQUADRI nel corso dell’audizione dell’11 novembre 2024 da parte del Consiglio dei Ministri, nell’approvazione della legge Finanziaria per il 2025, il taglio del turn over nella pubblica amministrazione, ha subito rilevanti eccezioni e delimitazioni.

Grazie alle modifiche apportate alla legge di Bilancio per il 2025, per numerose pubbliche amministrazioni, sarà possibile sostituire il 100% dei dipendenti che lasciano il servizio.

È stato così modificato l’articolo 110 della Legge di Bilancio 2025, rivedendo in maniera rilevante il taglio del turn over nelle pubbliche amministrazioni.

Potranno così assumere nella misura del 100% dei posti liberi, gran parte degli Enti Locali, comprese le Regioni, le Camere di Commercio, i Corpi di Polizia, i Vigili del Fuoco, le Università per quanto attiene i ricercatori, Il Ministero di Giustizia per il personale togato della Magistratura.

Trascriviamo in parte il testo del documento redatto da CIU UNIONQUADRI sul punto in occasione della consultazione:

“Sui punti che riguardano il Pubblico Impiego, il nostro sindacato non può non guardare che con favore quelle misure che consentono al lavoratore la libertà nel determinare il momento di cessazione del rapporto di lavoro.

Ancor più favorevolmente è da noi vista la possibilità di trattenimento volontario in servizio per attività di tutoraggio ed accompagnamento dei nuovi assunti.

Resta irrisolto il problema di voler conciliare questa normativa con la riduzione del turn over al 75% delle risorse.

La riduzione del turn over acuisce il proprio effetto con il trattenimento in servizio di una parte del personale.

Temiamo in questo modo, possa essere compromessa l’immissione di giovani generazioni nella pubblica amministrazione e l’assunzione di personale da inserire nell’area delle elevate professionalità (EP).”

Fabio Petracci

Attività Centro Studi a supporto a CIU UNIONQUADRI

In data 13 febbraio 2025, CIU UNIONQUADRI supportata dal proprio Centro Studi presenterà presso TPER Azienda per i Trasporti Locali dell’Emilia Romagna dove è organizzata una propria rappresentanza un programma di servizi assistenziali, pensionistici, fiscali e legali.

L’attività è il frutto della collaborazione con i rappresentanti aziendali e le realtà locali.

In data 14 febbraio 2025, CIU UNIONQUADRI unitamente alla propria delegazione del FVG e dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale sottoscriverà apposito accordo aziendale unitamente ad altri sindacati a suggello della propria rappresentatività in azienda.

La partecipazione dei lavoratori all’impresa

L’art. 46 della Costituzione cita testualmente “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Ogni forma di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende si fonda sull’idea e sulla valorizzazione dell’interesse comune tra i lavoratori e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa stessa.

Nel tempo tuttavia vi sono stati forti resistenze alla diffusione delle forme partecipative e pertanto l’art. 46 della Carta Costituzionale deve considerarsi come una norma rimasta sostanzialmente inapplicata.

Ciclicamente, soprattutto nei periodi di crisi economica, si è tornati spesso ad insistere sulla necessità di promuovere la partecipazione dei lavoratori, con la presentazione di diverse iniziative e la costituzione di appositi gruppi di lavoro, senza tuttavia ottenere risultati concreti.

In particolare, deve essere ricordato il tentativo operato dalla c.d. “Riforma Fornero”, legge n. 92/2012, la quale aveva delegato il governo ad adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 c. 62 legge n. 92/2012).

Tuttavia, anche tale intervento non ha trovato concreta e capillare attuazione.

Oggi, anche grazie alle nuove sfide della digitalizzazione ed i recenti sviluppi dell’economia, con un passaggio a quella che è stata definita l’era della “condivisione” (sharing economy), potrebbero essere state gettate le basi per la revisione del modello conflittuale su cui, storicamente, si sono rette le relazioni industriali e dunque vi sarebbero concrete possibilità di un recupero dello strumento della partecipazione dei lavoratori all’impresa.

In effetti, con l’avvento della c.d. quarta rivoluzione industriale, uno degli effetti più rilevanti è stato quello di considerare non più la prestazione lavorativa nella sua mera esecuzione materiale, quindi come mera collaborazione passiva, strettamente legata alle mansioni assegnate al lavoratore bensì la necessità di una vera e propria partecipazione attiva da parte dei lavoratori nella generazione dei valori aziendali.

In effetti, il modello storico delle relazioni industriali è principalmente basato sulla forte asimmetria tra potere direttivo e dovere di collaborazione, fondato sulla prerogativa dell’imprenditore di dirigere l’azienda in coerenza al principio di libertà di iniziativa economica privata, considerando i rischi assunti esclusivamente a carico dell’impresa stessa.

Oggi, la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle vicende d’impresa potrebbe da un lato attenuare gli effetti del disequilibrio in termini di condizioni di lavoro e, dall’altro, essere ulteriore strumento di eventuale modifica dell’esercizio del potere direttivo in una chiave maggiormente collaborativa, tenuto dovuto conto altresì dell’evoluzione ed attenuazione del concetto di subordinazione registratosi negli ultimi anni.

Per chiarezza, si possono individuare almeno quattro differenti tipologie di possibile partecipazione dei lavoratori all’azienda:

  • quella di tipo “organizzativo/gestionale”, da intendersi come presenza di una rappresentanza dei lavoratori all’interno degli organi di controllo e decisionali dell’azienda (es. presenza di un rappresentante indicato o eletto dai lavoratori all’interno del Consiglio di Amministrazione);
  • quella di tipo “informativo/consultivo”, che può essere considerata come il diritto dei lavoratori (o meglio, dei loro rappresentanti) alla conoscenza dei piani aziendali passati, presenti e futuri, anche come condizione vincolante rispetto alle decisioni da assumere, con altresì possibilità di elaborare suggerimenti e controproposte;
  • quella di tipo “economico”, che mira a far partecipare i lavoratori meritevoli dei risultati e del benessere dell’azienda, promuovendo una parziale redistribuzione degli utili aziendali sulla base delle prestazioni effettivamente svolte dagli stessi lavoratori, rendendoli partecipi del successo dell’azienda;
  • quella di tipo “finanziario”, con la possibilità di accedere ad un azionariato diretto dei dipendenti delle aziende per cui lavorano, in modo da indirizzarle anche verso un assetto proprietario più condiviso, con forte responsabilizzazione e creazione di spirito d’appartenenza in capo ai singoli lavoratori.

Rimane allora da registrare che altri paesi europei hanno già adottato modelli partecipativi dei lavoratori all’impresa: ad esempio Francia e Germania che, sin dagli inizi del secolo scorso, hanno realizzato forme di partecipazione economica fondate sui piani aziendali di risparmio e sull’azionariato dei dipendenti (anche attraverso il fenomeno del c.d. workers buy-out, vale a dire l’azione di salvataggio dell’azienda, o di una sua parte, realizzata dai dipendenti che subentrano nella proprietà).

In particolare, il modello tedesco, noto come Mitbestimmung, è una vera e propria parte caratterizzante del sistema di relazioni industriali del paese.

Mitbestimmung potrebbe essere tradotto come “co-determinazione” e si riferisce ad una partecipazione paritaria di dipendenti, azionisti e dirigenti alla gestione della politica aziendale ed alle conseguenti decisioni.

In effetti, il modello tedesco prevede che l’economia e le strutture produttive non costituiscano luogo di scontro di interessi configgenti tra capitale e lavoro ma anche una vera e propria “Gemeinschaft”, una “comunità” avente il fine comune di garantire benessere e prosperità per i suoi componenti.

La partecipazione dei lavoratori in Germania si compone di due livelli:

  • la “betriebliche Mitbestimmung”, partecipazione a livello di unità produttiva, che in Italia si potrebbe tradurre o intendere come “partecipazione o cogestione aziendale”;
  • la “unternehmerische Mitbestimmung”, partecipazione a livello di organi societari d’impresa, che indica la parte gestionale che è adibita all’impiego delle risorse prodotte dalla parte produttiva, traducibile come “partecipazione o cogestione societaria”.

A sottolineare il valore e l’importanza della partecipazione dei lavoratori, lo stesso art. 9 del GrundGesetz, la Carta costituzionale varata nel 1949, dispone l’ordinamento e la pacificazione del mondo del lavoro mettendo sullo stesso piano sia la contrapposizione degli interessi sia la volontà comune di collaborazione.

Per tale motivo, le società in Germania sono soggette alla Mitbestimmung (co-determinazione) se impiegano più di 500 dipendenti.

I lavoratori partecipano alle decisioni della società attraverso due organi: il c.d. Consiglio di Fabbrica ed il c.d. Consiglio di Sorveglianza.

Se il primo rappresenta i lavoratori nelle singole sedi aziendali ed è formato interamente da dipendenti, il secondo è invece un organo aziendale che fa capo alla sede centrale, composto per metà dai rappresentanti dei lavoratori e per metà dagli azionisti.

Il più noto modello di partecipazione dei lavoratori all’impresa è quello del Gruppo Volkswagen.

Uno dei punti di forza del modello Volkswagen è sicuramente l’elevato grado di percentuale di lavoratori iscritti al sindacato IG METALL, che rappresenta buona parte dei dipendenti.

Il modello di relazioni industriali del Gruppo Volkswagen è improntato sulla Carta dei diritti dei lavoratori che la multinazionale tedesca ha sottoscritto a livello globale e che prevede forme intense di coinvolgimento partecipativo in tutte le aziende che fanno capo al gruppo, anche nei paesi diversi dalla Germania.

Detta Carta definisce i diritti d’informazione e di partecipazione e si pone come obiettivo quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia e rispetto tra le parti.

Tra i molti principi contenuti nella Carta, che richiama nei contenuti e nei principi gran parte delle Convenzioni OIL stipulate, è interessante leggere come il Gruppo Volkswagen riconosca espressamente il diritto di contrattazione collettiva e che di conseguenza il Gruppo Volkswagen e i sindacati o le rappresentanze dei lavoratori conducano insieme un dialogo sociale, di cui le contrattazioni collettive rappresentano una particolare forma.

Avv. Alberto Tarlao

I quadri in Francia: Confédération française de l’encadrement – Confédération générale des cadres

Una confederazione sindacale specifica dei quadri (CFE-CGC)

Il 15 ottobre 1944 venne creata a Parigi la Confederazione Generale dei Quadri, i cui statuti furono in realtà depositati nel 1937, con la “missione originaria di incarnare il sindacalismo specifico del personale dirigente, di assicurarne la rappresentanza e di “essere custode delle proprie unità’.

La difficile ricerca di una voce sindacale per i dipendenti in posizioni apicali

La ricerca di un percorso sindacale specifico per i quadri non era nuova in Francia, ma si realizzerà gradualmente. Da un lato, i “quadri” si trovano intrappolati tra la rappresentanza dei lavoratori – le prime grandi confederazioni, CGT, CFTC, infatti, privilegiano l’appartenenza alla classe degli operai e integrano solo marginalmente quelli apicali – e la rappresentanza dei datori di lavoro che, dall’altro livello, si sforza di catturare il quadro attraverso un’organizzazione gerarchica. D’altro canto, l’identità “manageriale” stenta a costruirsi, testimoniato, al contrario, dal moltiplicarsi delle strutture sindacali specifiche di ingegneri, tecnici e quadri. Il movimento ebbe inizio alla fine del XIX secolo, in particolare con l’Union Syndicale des Engineers Catholiques (1995), per poi accelerare negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale e fino alla vigilia della Seconda: le tre grandi componenti presto confluirono nella nuova confederazione, ovvero la Federazione dei sindacati degli ingegneri (FNSI), la Confederazione generale dei quadri economici (CGCE), il Gruppo sindacale dei laureati (CSCD), furono tutte e tre create nel 1937. Sciolte dal regime di Vichy, le tre strutture dapprima si riunirono nel 1944 nel Comitato d’Azione Sindacale degli Ingegneri e dei Quadri (CASIC).

Il credo della negoziazione

I due filo conduttore del nuovo istituto professionale per la tutela dei lavoratori sono, da un lato, la difesa e la promozione di un’identità comune per ingegneri e quadri; quanto alla modalità di azione, essa si inserisce in una logica di negoziazione e di sostegno alle dinamiche aziendali. Pertanto, il suo statuto specifica che “la missione della confederazione è quella di esprimere e difendere gli interessi materiali e morali del personale quadro e, al di là degli aspetti di protesta di questa missione, di essere una forza di proposta in tutti i settori dell’azione sindacale” e il suo attaccamento ad “un’azione concertata che, partendo dalla diversità degli interessi e delle opinioni delle donne e degli uomini, tenderà a costruire per loro un mondo di libertà, giustizia e prosperità”.

La legittimità del progetto è supportata dal crescente peso demografico dei quadri nell’economia nazionale, nonché dal riconoscimento dello status professionale dei dirigenti da parte del Governo Provvisorio della Repubblica (1945). Se il rapporto di fiducia tra i poteri pubblici e il giovane centro sindacale non è esente da disaccordi, quest’ultimo ottiene il riconoscimento di un quadro specifico in relazione al sistema di previdenza sociale creato dall’ordinanza del 19 ottobre 1945: quindi un pensionamento congiunto autonomo (AGIRC), negoziata con il Consiglio nazionale dei datori di lavoro francesi (CNPF) e la CFTC (accordo del 14 marzo 1947). D’altro canto, occorrerà una forte mobilitazione affinché lo Stato riconosca parzialmente la rappresentatività della confederazione dei quadri del 1946. Questo periodo vide l’emergere di potenziali concorrenti affiliati ai grandi centri sindacali esistenti (CGT-UGICT, CFTC-UGICA), in via costitutiva (FO-UCI). Tuttavia, non riusciranno a minare una posizione di leadership acquisita negli anni ’60, confermata nel 1966 dalla concessione della “presunzione inconfutabile di rappresentatività”, poi dalla presenza attorno al tavolo degli accordi Grenelle, e su altro piano attraverso la creazione dell’APEC (1966) nel quadro di un accordo con le organizzazioni dei datori di lavoro.

Nel 1981, in seguito ai cambiamenti demografici socio-economici, venne ribattezzata Confédération de l’cadre-Confédération général des cadres (CFE-CGC), aprendo così il suo ambito categorico più ampiamente alle “classi medie”.

L’organizzazione interprofessionale rappresentativa della CFE-CGC

Dalla sua creazione, la CFE-CGC è stata guidata da 9 presidenti, che sono anche portavoce della confederazione, il primo dei quali è stato Jean Ducros (1906-1955, mandato dal 1944 al 1956). Dal 2016 questa funzione è svolta da François Hommeril. Molti di loro sono stati anche in precedenza segretari generali dell’organizzazione, come André Malterre (1909-1975, mandati dal 1950 al 1956, poi dal 1956 al 1975), Jean Menu (1921-1987, mandati successivi dal 1973 al 1975 poi dal 1979 al 1984), Marc Vilbenoît (mandati successivi dal 1984 al 1993, poi dal 1993 al 1999), Carole Couvert (mandati successivi dal 2009 al 2013, poi dal 2013 al 2016). L’attuale segretario generale è Marc Giffard responsabile dell’animazione e dello sviluppo nonché delle missioni delegate dal presidente. Entrambi fanno parte dell’ufficio nazionale (10 membri) che compone, con i delegati nazionali (10), l’esecutivo confederale ratificato dal congresso, organo sovrano (ogni 3 anni), integrato dal comitato confederale (membri ratificati anche dal congresso), a sua volta integrato da un comitato direttivo (guidato dal presidente). Il funzionamento della Confederazione si basa anche su due organi tecnici (controllo finanziario, consiglio giurisdizionale)

La CFE-CGC rivendica 170.000 membri (2016). Riunisce 27 federazioni, 18 UR, 97 UD, 200 UL e 230 sindacati. È una delle organizzazioni sindacali rappresentative dei dipendenti a livello interprofessionale e ha un posto nell’HCDS. Nella misurazione dell’audience sindacale del 2017 corrispondente alle elezioni professionali nelle aziende (CE, delegati del personale) e nelle Camere dell’agricoltura, a FO sono stati accreditati 560.618 voti e il 10,70% di audience, ovvero 83mila suffraganee in più rispetto al 2013 e un aumento dell’audience di 1,2%. Durante il ballottaggio della Camera dell’agricoltura del 2019, la confederazione ha ottenuto il 13,2% dei voti dei dipendenti agricoli contro il 19% dei voti dei dipendenti del gruppo, un risultato superiore a quello del 2013, in particolare nel collegio dei dipendenti agricoli. Nel 2020 è il 2° sindacato dei dipendenti in udienza, con il 27,3% dei voti, alle elezioni dei delegati della Mutualité sociale agricole.

Nel 2021 è la 4a confederazione interprofessionale dei dipendenti con una platea dell’11,92%, autorizzata a firmare un numero molto elevato di contratti collettivi e non solo quelli specifici del management.

Le vicende dello sciopero del 17 novembre 2023 e la Commissione di Garanzia dello Sciopero

In data 13 novembre 2023, si è tenuta presso Commissione di Garanzia l’audizione delle Confederazioni sindacali di CGIL CISL e UIL per la proclamazione dello sciopero del 17 novembre 2023.

La Commissione in quella sede ha confermato il provvedimento dell’8 novembre che non ritenendo di carattere generale la natura dello sciopero indetto, applicava al medesimo tutte le regole e limitazioni imposte dalla legge 146/1990.

La decisione ha avuto un notevole impatto mediatico.

Si rende però innanzitutto necessario esaminare il provvedimento sotto l’aspetto tecnico giuridico.

Come noto la legge 146/1990 nell’ambito dei settori riconosciuti come servizi pubblici essenziali impone i seguenti obblighi:

  1. Procedure di raffreddamento;
  2. Preavviso;
  3. Obbligo di prestazioni indispensabili;
  4. Limite di durata massima;
  5. Principio di rarefazione soggettiva – rispetto di un determinato periodo per proclamare da parte del sindacato altri scioperi;
  6. Principio di rarefazione oggettiva – assenza o distanziamento per un determinato periodo di iniziative di sciopero di altri sindacati.

Per quanto riguarda lo sciopero generale, si rileva come le norme vigenti non ne offrano una definizione.

Risulta inoltre come il limite di durata massima giornaliera (4 ore per il trasporto pubblico locale e per il trasporto aereo, 8 ore per il trasporto ferroviario).

Detti limiti risultano però inapplicabili allo sciopero generale come stabilito in diverse pronunce dell’Autorità di Garanzia (delle quali Deliberazione 03/134 seduta del 24.9.2003).

Determinati obblighi quali le procedure di raffreddamento, il divieto di concomitanza di scioperi di altri sindacati (rarefazione oggettiva), durata giornaliera risultano strutturalmente inapplicabili agli scioperi generali.

A questo punto, la Commissione ha però dovuto circoscrivere la definizione di sciopero generale e conseguentemente le eccezioni sopra indicate.

Lo ha fatto con la decisione in esame e richiamandosi a precedenti pronunce.

Essa infatti ha costantemente fatto riferimento all’azione collettiva proclamata da una o più confederazioni sindacali coinvolgente la generalità delle strutture del lavoro pubblico e privato, ritenendosi differentemente si dovrà parlare di semplice sciopero intercategoriale.

Nel caso di specie, la Commissione ha verificato come dalla proclamazione dello sciopero fossero state escluse 16 categorie.

Per questi motivi, la Commissione ha ritenuto applicabili allo sciopero tutte le limitazioni di legge in tema di servizi pubblici essenziali di cui alla legge 146/1990.

 

Fabio Petracci

Lavoro precario

Salario minimo: la proposta di legge delle opposizioni

In data 4 luglio 2023 è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione del salario minimo.

La proposta di legge porta la firma di tutte le opposizioni, ovvero Pd, Movimento 5 Stelle, Avs Azione e + Europa, con la sola eccezione di Italia Viva.

Il progetto di legge va letto come uno dei possibili tentativi di recepimento dei contenuti della direttiva comunitaria 2022/2041 in materia di salario minimo adeguato.

La relazione illustrativa che accompagna la proposta riporta una situazione allarmante, con dati che documentano un rapido incremento del gap salariale, in crescita di quasi 10 punti percentuali dal 2006, soprattutto a svantaggio delle lavoratrici, dei giovani e dei lavoratori a tempo parziale.

Le differenze salariali sono state esasperate dalla pandemia e dalla crescita dell’inflazione, soprattutto nei settori con elevata percentuale di lavoratori a basso salario.

Secondo l’INPS, sono oltre 2 milioni e 500 mila i lavoratori “sotto soglia” considerando un salario minimo di 8 euro all’ora, e sono oltre 2 milioni e 800 considerando un salario minimo di 9 euro l’ora e le mensilità aggiuntive.

L’insufficienza dei salari è misurabile anche dal fatto che 172.868 titolari di un rapporto di lavoro attivo hanno avuto necessità di ricorrere al reddito di cittadinanza.

Per i promotori della legge, il più grave ostacolo ad una giusta retribuzione sarebbe soprattutto il proliferare di contratti collettivi “pirata”, stipulati da soggetti con scarsa forza rappresentativa e che determinano fenomeni distorsivi della concorrenza.

Altre concause sono individuate nella frammentazione dei settori, nella proliferazione di forme di lavoro atipico, nel massiccio ricorso alle esternalizzazioni.

La proposta di legge lascia alla contrattazione collettiva il compito di stabilire le tabelle retributive, con il vincolo però che la retribuzione non possa essere inferiore a 9 Euro/ora per il Trattamento economico minimo orario (TEM) e a quanto stabilito dai sindacati comparativamente più rappresentativi per il Trattamento economico complessivo (TEC).

Il testo propone poi l’introduzione di strumenti di tutela ad hoc contro il sottosalario.

In primo luogo, un procedimento giudiziario strutturato sul modello di quello previsto in tema di repressione di comportamento antisindacale (art. 18 L. 300/1970) e finalizzato a contrastare le condotte elusive della norma.

Altro strumento di tutela potrebbe essere rappresentato dalla diffida accertativa (art. 12 D.lgs. 124/2004) che grazie alla novella normativa, dovrebbe consentire di quantificare ex ante il trattamento minimo retributivo cui il lavoratore ha diritto, per procedere su base certa al suo recupero in via amministrativa attraverso l’Ispettorato nazionale del lavoro.

L’adeguamento delle aziende alla legge del salario minimo dovrebbe essere accompagnato da appositi benefici temporanei.

Le disposizioni dovrebbero entrare in vigore il 15 novembre 2024, entro il termine previsto per il recepimento della già citata direttiva UE sul salario minimo adeguato.

Anche se la proposta di legge ribadisce che i sindacati possono stabilire un Trattamento economico complessivo più favorevole con efficacia limitata ai propri iscritti, resta il rischio che la soglia minima fissata per legge porti ad uno schiacciamento salariale al ribasso dei salari medi.

Trattative aperte per la crisi dello stabilimento di Wärtsilä Italia a Trieste.

Ciu Unionquadri: “Un anno di incertezze. Chiudere la vicenda salvaguardando professionalità”.

Dopo un lungo e tumultuoso anno di indeterminatezza, è ora di tracciare un disegno maggiormente definito per lo stabilimento di Wärtsilä Italia a Trieste, uno dei più grandi produttori di motori diesel di proprietà del gruppo finlandese Wärtsilä. Tali crisi industriale dell’azienda finnica, nata con l’acquisizione della Grandi Motori Trieste nel 1997, ha gettato nell’ombra il futuro di un’importante realtà industriale attiva nel settore navale internazionale e nella produzione di motori per generatori di corrente per centrali elettriche.

Lo stabilimento di Trieste, che attualmente conta circa 1.150 dipendenti, negli ultimi mesi ha attraversato un periodo di grandi incertezze, con la minaccia di esuberi che potrebbero coinvolgere fino a 321 persone. L’azienda ha infatti preso la decisione di delocalizzare la produzione dei motori, riportandola in Finlandia a Vaasa, poiché realizzare motori a Trieste non appare più conveniente dal punto di vista economico.

Tra i clienti di Wärtsilä figura anche un nome di spicco, Fincantieri, il gigante italiano dell’industria navale. La notizia della cessazione dell’attività produttiva nello stabilimento di Bagnoli della Rosandra ha provocato preoccupazione tra i dipendenti e la comunità locale. Questa sede è stata a lungo una delle più importanti anche in termini di occupazione.

La notizia è stata seguita anche da CIU Unionquadri, la Confederazione sindacale che rappresenta i quadri nel settore privato e pubblico, nonché i ricercatori e i professionisti dipendenti, presente al CNEL e al CESE di Bruxelles. La CIU Unionquadri, in questi mesi, ha approfondito il tema sul territorio anche grazie alla collaborazione di Giorgio Jercog già operatore del settore e grazie all’intervento del segretario regionale dottor Fulvio Carli.

Questa situazione richiede una risposta rapida e strategica, con veri piani industriali da parte delle realtà industriali interessate a subentrare a Wärtsilä. La salvaguardia delle professionalità e della comunità locale rappresenta una priorità, e la ricerca di soluzioni sostenibili e durature è essenziale per garantire un futuro stabile per lo stabilimento di Trieste e per tutti coloro che dipendono da esso, posti di lavoro e famiglie da tutelare” hanno commentato gli organi di CIU Unionquadri.

In questa fase di trattative aperte, resta da vedere quale sarà il destino di questa importante realtà industriale e delle competenze che ospita. La speranza è che tutte le parti coinvolte possano lavorare insieme per trovare una soluzione efficace capace di proteggere i lavoratori e mantenere vivo il patrimonio industriale di Trieste.

Alcune riflessioni sulle pensioni ed il ceto medio

L’inflazione ha sicuramente decurtato le pensioni, sia di fascia bassa, sia quelle di fascia medio-alta: le prime hanno recuperato assai poco dai ritocchi decisi dal governo, le seconde per niente, di fatto sono bloccate.

Non si tratta, ovviamente, di legare l’importo della pensione al grado di inflazione, ma di ritoccare gli importi secondo una scala già peraltro fissata da accordi in sede ministeriale. La questione non è di poco conto poiché investe il modus vivendi della classe media, assai bistrattata in questi anni, tanto che qualche sociologo ha azzardato addirittura la sua scomparsa.

Va pure aggiunto che i pensionati, come tutte le categorie a reddito fisso, sono puntuali pagatori del fisco (alla fonte) e quindi sono una parte considerevole di quel 13% di italiani che pagano il 60% di tutti gli introiti fiscali.

La UIL per tali ragioni ha deciso di rivolgersi al giudice. “Abbiamo avviato cinque cause-pilota dice il segretario generale della Uilp, Carmelo Barbagallo contro il taglio della rivalutazione di tutte le pensioni di importo superiore a 4 volte il trattamento minimo Inps, che è pari a 2.101,52 euro mensili lordi, disposto dalla legge di Bilancio 2023. Vogliamo mantenere alta l’attenzione su questa ennesima ingiustizia, decisa oltretutto in un momento di forte crescita dell’inflazione. Interessa circa 3 milioni e mezzo di pensionati. Non è possibile che ogni volta che servono risorse si vadano a prendere dai pensionati. Naturalmente il nostro impegno è parallelamente rivolto anche alle pensioni di importo più basso, non c’è contraddizione in questa duplice difesa del potere d’acquisto”.

Le rivalutazioni delle pensioni sono state ulteriormente tagliate tra il 25% ed il 68%, penalizzando fortemente il 28% dei pensionati.

Si tratta di 3,5 miliardi di euro lordi (2,1 miliardi netti) che i pensionati medio-alti avrebbero dovuto ricevere e invece rimarranno fermi. Chi percepisce 3.600 euro lordi mensili alla fine dell’anno ne perderà oltre 1.427. Ancora peggio per chi riceve pensioni superiori.

Sono state cancellate le fasce di perequazione automatica che erano state previste dal governo Draghi e ne sono state introdotte ben sei che quasi azzerano la rivalutazione a chi prende una pensione più consistente del minimo.

Un pensionato con assegno superiore ai 100mila euro lordi l’anno ha perduto dal 2006 a oggi un’intera annualità a causa delle ripetute decurtazioni dell’adeguamento.

In particolare, il Sindacato lamenta che “Il criterio e l’entità (inadeguata e insufficiente) della perequazione della pensione per l’anno 2023, calcolata ed erogata dall’Inps, è manifestamente in contrasto con in principi fondamentali richiamati più volte dalla Corte Costituzionale, che anche nel 2020 aveva decretato che la perequazione delle pensioni dev’essere volta a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti e a salvaguardarne il valore reale al cospetto della pressione inflazionistica”.

In effetti, la stessa Consulta in passato aveva affermato che: “L’eventuale introduzione da parte del legislatore di meccanismi limitativi della perequazione pensionistica incontra il limite, inderogabile e invalicabile, dell’osservanza dei principi di eguaglianza sostanziale ed è soggetta a rigorosi vincoli quantitativi, temporali, di proporzionalità e di ragionevolezza”.

Lavoro precario

Novità quadri dal Friuli Venezia Giulia.

CIU UNIONQUADRI unitamente al Centro Studi Corrado Rossitto si sta occupando anche di alcune realtà aziendali dove operano numerosi quadri anche nel campo della ricerca e dove sono in atto situazioni di crisi che coinvolgono anche la categoria.

E’ la volta dello Stabilimento Wartsila di Trieste già Grandi Motori Trieste

Professionalità del sito produttivo di Trieste, contro la chiusura dello stabilimento Wartsila di Bagnoli della Rosandra già Grandi Motori Trieste.

Alcuni appunti del signor Giorgio Jercog già tecnico dipendente della Motoristica Navale Triestina in merito alla chiusura dello stabilimento Wartsila di Trieste già Grandi Motori Trieste.

Egli manifesta in primo luogo la propria contrarietà a quello che in gergo viene denominato come “spezzatino” consistente nella definitiva spartizione e conseguente sparizione dell’azienda.

E’ invece auspicata l’acquisizione da parte di Cassa Depositi e Prestiti di tutto lo stabilimento Wartsila Italia. In tal modo, ritiene Jercog, potrebbero essere individuati gli acquirenti anche tra i concorrenti di Wartsila.

In tal senso sarebbe opportuno, e preliminare, rileva l’intervistato, procedere alla uscita dallo stabilimento di Trieste dell’azienda finlandese Wartsila, mantenendo intatte le linee e macchinari destinati alla produzione.

Preliminarmente, egli nota, sarebbe utile conoscere quanti siano in totale i dipendenti di Wartsila a Trieste e quanti siano gli esuberi della produzione tra operai e tecnici

Così da valutare la compatibilità del numero di dipendenti rimanenti a Trieste suddivisi tra amministrativi, servizi ( uff. acquisiti e personale )tecnologi : Impiegati e operai

Ma, rileva Jercog, andrebbe quanto prima chiarito  se si vuole la continuità produttiva di motoristica diesel vedi l’esempio della VM di Cento Ferrara e l’Isotta Fraschini di Bari che si stanno focalizzando sulle produzioni di motori industriali, per l’agricoltura, per l’industria marina e gruppi elettrogeni sviluppando progettazione e industrializzazione di motori a gas ed idrogeno.

Si potrebbe così puntare, nota l’intervistato, a creare un polo del diesel Italiano.

Altrettanto utile, capire dopo la vendita dello stabilimento Gmt alla Wartsila e della licenza Sulzer ( poi finita recentemente in mano cinese) che fine abbiano fatto i marchi GMT ex Fiat e VM industriali prodotti nello stabilimento di Bagnoli della Rosandra.

L’intervistato adduce ad esempio l’uscita dalla crisi di VM Motori Cento che ha attuato un’ampia riconversione per la produzione di motori Diesel con un acquistata autonomia nei confronti del Gruppo Stellantis, sviluppando nei prossimi anni cinque linee di produzione: motori industriali, motori per agricoltura, motori per industria marina, ricambi per automotive diesel, reparto test su emissioni e progettazione e industrializzazione di motori a idrogeno, con uno sguardo anche sul settore marino.

Divieto di controllo a distanza – Dati Biometrici – Tutela della privacy sul posto di lavoro

Il provvedimento n.231 del 1 giugno 2023 del Garante.

 Nel caso di specie è sanzionata un’azienda che ha installato un sistema di allarme attivabile sulla base delle impronte digitali che rendeva così operativo un impianto di videosorveglianza ed un applicativo per la geolocalizzazione dei lavoratori.

In pratica, il Garante ha ritenuto come il provvedimento aziendale non appariva conforme alla normativa in materia vigente, riferendosi al Regolamento UE 679/2016 che consente il trattamento dei dati biometrici , intesi quali dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici, solo in caso di necessità per assolvere agli obblighi che incombono sul titolare del trattamento o dell’interessato in materia di lavoro nel limite di quanto consentito dai contratti collettivi o dalle norme di legge.

Nel caso di specie, il Garante accertava come non risultassero questi requisiti.

Rilevava inoltre il garante come anche il Regolamento della Privacy all’articolo 5 poneva dei limiti a tali trattamenti che devono essere ispirati a principi di liceità, correttezza, limitazione delle finalità, minimizzazione, integrità e riservatezza.

Notava inoltre il garante come la Società, violando gli articoli 5 e 13 del Regolamento, avesse omesso di fornire adeguata informativa

Era inoltre accertato come la società utilizzasse apposita applicazione sui telefoni mobili assegnati ai lavoratori per tracciarne mediante GPS la posizione.

L’illiceità dei controlli era dichiarata anche sulla base dell’articolo 4 della legge 300/70 (Statuto dei Lavoratori) che consente il trattamento dei dati personali nell’ambito del rapporto di lavoro solo se finalizzati per le finalità di gestione del lavoro stesso.

Per quanto riguarda l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, la norma al comma 1 prevede che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. Inoltre, la norma medesima prevede che in mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. In tal senso, la normativa di cui all’articolo 4 della legge 300/70 è stata modificata dal   DLGS 14/09/2015, n. 151.

Una recente innovazione comporta che le cautele appena accennate non trovano applicazione riguardo agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa ed agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Due recenti decisioni della Suprema Corte, le nn. 25731 e 25732 del 2021, sono intervenute a chiarire alcuni aspetti controversi della normativa in materia di controlli a distanza all’esito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 151/2015 all’art. 4 Stat. lav. In particolare, chiamata a pronunciarsi sulla “sopravvivenza” dei c.d. controlli difensivi, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, e preso atto delle diverse conclusioni in proposito ravvisabili in dottrina e giurisprudenza, la Corte di cassazione introduce la distinzione fra controlli difensivi “in senso stretto” e “in senso lato”: i primi sono quelli ai quali il datore di lavoro dà corso “in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito” e hanno ad oggetto dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto, i secondi sono invece quelli posti in essere genericamente sull’attività del lavoratore, a prescindere dal fondato sospetto che egli abbia commesso un illecito. Mentre i primi, secondo la soluzione adottata dalla Suprema Corte, continuano ad essere estranei al “perimetro” di applicazione dell’art. 4 Stat. lav. e sono quindi legittimi anche in assenza delle condizioni ivi disciplinate, i secondi sono legittimi solo nei limiti e con il rispetto di tali condizioni. (Il lavoro nella giurisprudenza, n. 4, 1 aprile 2022, p. 365 Commento alla normativa di Luigi Andrea Cosattini, Avvocato in Bologna).

Fabio Petracci