Incarico a dirigente privo di laurea – paga il sindaco.

Conferimento di incarico dirigenziale a funzionario privo di laurea – paga il sindaco.

La Corte dei Conti all’udienza del 19.9.2019 condanna il sindaco di un comune al pagamento della differenza di quanto erogato al funzionario in ragione dell’incarico dirigenziale e quanto sarebbe stato erogato riconoscendo una posizione organizzativa ad un dipendente di categoria D.

La Corte in merito all’eccezione di prescrizione, fa presente che la prescrizione quinquennale decorre dai singoli pagamenti dannosi effettuati dall’ente.

Essa conferma inoltre la responsabilità del sindaco e non quella degli organi di collaborazione ivi compreso il segretario comunale che aveva inoltre rilevato l’illegittimità della decisione prima che la stessa fosse stata assunta.

REPUBBLICA ITALIANA N° 182/2019 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE per il VENETO Composta dai magistrati Dott.ssa Marta TONOLO Presidente F.F. dott. Maurizio MASSA Giudice dott.ssa Daniela ALBERGHINI Giudice relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 30799 del registro di segreteria, promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di: XXXXX, nato a XXXXX, il XXXXX, residente a XXXX, Via XXXX, rappresentato e difeso dagli avv.ti XXXXX e XXXX del Foro di XXX, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. XXXX in XXXX; Sentiti all’udienza pubblica del 19 settembre 2019 il relatore dott.ssa Daniela Alberghini, il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore dott. Giancarlo Di Maio, l’Avv. XXXX per il convenuto, come da verbale d’udienza.

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO La Procura regionale ha convenuto innanzi a questa Sezione Giurisdizionale Regionale il sig. XXXXX per aver, in qualità di Sindaco pro tempore del Comune di XXXX, adottato, ai sensi dell’art. 110 TUEL, il decreto n. 11 del 18 giugno 2013, con il quale ha conferito incarico dirigenziale, con responsabilità dell’Area Seconda “Servizi economici e finanziari”, ad un funzionario, il XXXXXX, privo del necessario diploma di laurea.

Nel sistema degli enti locali è prevista la possibilità di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato ai sensi dell’art. 110 del TUEL, disposizione che fa salva, però, la necessità che sussistano i requisiti di accesso previsti in relazione alla qualifica da ricoprire. A tal proposito, l’art. 19 del D.lgs. 165/2001 -così come modificato dall’art. 40 comma 1 del D.Lgs. 150/09 che ne ha esteso l’applicazione a tutte le amministrazioni di cui all’art.1, comma 2-, avente ad oggetto l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, fa riferimento alla formazione universitaria e post universitaria ai fini della verifica della particolare qualificazione professionale. Anche l’art. 28 del medesimo decreto legislativo prevede il possesso di titolo di studio pari alla laurea per l’accesso alle qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato.

L’attribuzione di detto incarico, decorrente dal 11 giugno 2013 e cessato con il termine del mandato del Sindaco nel maggio 2018, non può, quindi, secondo la Procura, considerarsi legittima e ha comportato il riconoscimento al predetto funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli sarebbe spettato se la responsabilità della medesima Area gli fosse stata attribuita attraverso il riconoscimento di una c.d. posizione organizzativa: il relativo differenziale è, dunque, la misura del danno arrecato al Comune di XXXX, pari ad euro 78.120.

Sotto il profilo soggettivo il comportamento del convenuto è connotato da colpa grave, risultando agli atti una comunicazione del Segretario comunale dell’epoca, d.ssa XXXXX, indirizzata al Sindaco con protocollo riservato e a mezzo pec in data 21 giugno 2013, con la quale sono stati posti in evidenza i profili di illegittimità dell’incarico, peraltro sottoposti al medesimo Sindaco anche oralmente, come confermato dalla medesima Segretario in sede di audizione. L’odierno convenuto, successivamente alla notifica dell’invito a dedurre, ha fatto pervenire alla Procura articolate controdeduzioni, con le quali, da un lato, ha ritenuto sussistere la c.d. esimente politica al fine di escludere la configurabilità del danno e, dall’altro, ne ha in ogni caso contestato i presupposti, sia oggettivo (in quanto l’attribuzione dell’incarico a un funzionario già in servizio costituirebbe un risparmio di spesa rispetto al conferimento di incarico ad un dirigente esterno) che soggettivo (non potendosi configurare neppure la colpa grave, trattandosi di atto esecutivo di un previo atto generale di pianificazione in materia di personale adottato dalla Giunta comunale, la delibera n. 20 del 2013, e comunque interamente predisposto dalla stessa Segretario comunale in assenza di alcun rilievo od eccezione). La Procura ha ritenuto che tali controdeduzioni non superassero l’impianto delle contestazioni formulate, dal momento che la mancanza del titolo professionale di accesso alla qualifica determina uno squilibrio sinallagmatico che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, anche in funzione consultiva di controllo, è causativo di danno, la cui responsabilità è da attribuirsi, in quanto esclusivo titolare del relativo potere di conferimento dell’incarico, al Sindaco, la cui condotta, pertanto, viene a configurarsi come violazione degli obblighi di servizio caratterizzata da colpa grave perché in contrasto con disposizioni chiare, confermate da pareri e giurisprudenza, che delineano un quadro chiaro e consolidato, apparendo inverosimile che tale quadro non fosse noto.

Non pertinente è apparso, poi, alla Procura l’argomento dell’esimente politica di cui all’art. 1, comma 1 ter della legge 20/94, che disciplina la diversa fattispecie astratta degli atti che rientrano nella competenza di uffici tecnici od amministrativi approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede da titolari di organi politici. Non utili ad escludere la responsabilità, poi, sarebbero i richiami alla buona fede dell’odierno convenuto in riferimento alla complessità e tecnicità della materia, nonché l’esistenza di precedenti analoghi incarichi conferiti allo stesso soggetto.

Il convenuto si è costituito in giudizio in data 30.7.2019, formulando preliminarmente eccezione di intervenuta prescrizione. Il dies a quo della prescrizione corrisponde, in materia di responsabilità amministrativo-contabile, alla data in cui si è verificato l’evento dannoso che nel caso di cui si tratta deve identificarsi nell’adozione del provvedimento di conferimento dell’incarico, datato 18 giugno 2013. Il primo atto interruttivo, la notifica dell’invito a dedurre, è avvenuta in data 26.9.2018, successivamente, cioè, alla perenzione del termine quinquennale. Nel merito, il convenuto ha ricordato che il decreto attributivo dell’incarico di giugno 2013 era solo l’ultimo di una lunga serie, che fondava le proprie ragioni in scelte di economicità-efficienza correlate alla peculiare situazione dell’organico del Comune di XXXXXX – in cui una serie di cessazioni dal servizio avevano lasciato vacanti settori di rilievo- e ai vincoli assunzionali e di spesa del personale che aveva imposto alla Giunta Comunale, in sede di ricognizione del fabbisogno del personale (del. 90/2013), di scegliere tra la spesa per un dirigente esterno (che avrebbe coperto la quasi totalità delle risorse disponibili) e la destinazione delle risorse per l’assunzione di 9 unità di personale, con assegnazione di incarico dirigenziale a personale interno. L’adozione del provvedimento di incarico sarebbe stato, quindi, l’atto attuativo di una scelta politica effettuata dalla Giunta in assenza di indicazioni contrarie da parte del Segretario comunale e degli uffici: l’individuazione del funzionario da incaricare, poi, sarebbe stata obbligata in relazione alla indisponibilità a ricoprire il ruolo manifestata dagli altri funzionari di cat. D, questi ultimi in possesso del necessario titolo di studio. Non sussisterebbe, quindi, alcun danno patrimoniale per l’ente, in quanto nessuna delle altre opzioni a disposizione dell’Ente avrebbe comportato un risparmio di spesa, nè sussiste alcun danno all’immagine, stante l’acclarata professionalità con cui il funzionario ha eseguito l’incarico. Difetterebbe, peraltro, anche l’elemento soggettivo della colpa grave, alla luce dell’obiettiva complessità del quadro normativo di riferimento, caratterizzato da rinvii tra disposizioni e continui mutamenti, a fronte della quale è venuta meno una seria collaborazione da parte degli uffici tecnici.

Conclusivamente il convenuto ha osservato che l’atto dal quale viene fatto discendere il danno contestato non è stato di iniziativa del Sindaco, trattandosi di atto attuativo di una previa scelta della Giunta: la soggettiva imputabilità dell’atto sotto il profilo sostanziale deve essere individuata, quindi, in relazione agli apporti concretamente in esso convergenti. Diversamente considerando, la responsabilità dedotta finirebbe per connotarsi come meramente oggettiva. Nel caso in esame la responsabilità è da imputare al comportamento del Segretario comunale che non solo ha materialmente predisposto l’atto senza peraltro formulare alcun rilievo, ma che non ha neppure informato il Sindaco, né informalmente né formalmente con la nota del 21.6.2013 citata dalla Procura regionale –mai pervenuta né brevi manu né tramite pec-, di eventuali illegittimità dell’incarico, venendo meno al proprio ruolo di garanzia. Nessuna responsabilità, quindi, potrebbe essere ascritta al convenuto. In via del tutto subordinata il convenuto ha contestato il criterio di quantificazione del danno, visto che il posto dirigenziale doveva essere coperto e, in assenza di funzionari aventi i requisiti professionali, il ricorso ad un esterno avrebbe comportato una maggiore spesa. In ogni caso, il danno deve essere ripartito tra tutti i soggetti che hanno partecipato alla procedura di individuazione del modello organizzativo che ha portato al conferimento dell’incarico al rag. XXXX, ferma restando la richiesta di applicazione del potere riduttivo. In via istruttoria il convenuto ha chiesto, infine, l’ammissione di prova per testi.

All’odierna udienza il Pubblico Ministero ha preso posizione in merito all’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto, evidenziandone l’infondatezza: l’evento dannoso va individuato nei singoli pagamenti, dai quali inizia a decorrere il termine, circostanza di cui la stessa Procura ha tenuto conto nella quantificazione del danno contestato. Nel merito delle difese del convenuto, la Procura, riportandosi agli atti, ha sottolineato che non vi è contestazione in merito alla normativa applicabile in materia di incarichi, trattandosi di questione ben delineata a chiara fin dai primi anni 2000. Il convenuto, quindi, non solo avrebbe dovuto conoscere le norme applicabili, tanto più che disciplinavano una attribuzione propria, ma non si trovava, quanto a scelta del dipendente, neppure in una situazione necessitata dal momento che esistevano nell’organico dell’ente altre professionalità a cui attribuire l’incarico. Né, ha proseguito la Procura, la responsabilità del convenuto può essere esclusa o anche solo diminuita per il fatto che vi darebbe stata una previa delibera di Giunta adottata senza interlocuzione del Segretario, che funge da mero verbalizzante. L’Avv. Gianesin nell’interesse del convenuto si è riportata agli atti, insistendo in particolare sull’eccezione di prescrizione, richiamando i pronunciamenti in materia delle Sezioni Riunte di questa Corte del 2003 e del 2007 e sottolineando come, contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, il ruolo del Segretario comunale sia stato determinante nel convincere il convenuto della legittimità del proprio operato, avendo la d.ssa XXXX avallato l’attribuzione al medesimo dipendente dello stesso incarico negli anni precedenti. All’esito della discussione la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione formulata dal convenuto. Secondo il convenuto, decorrendo la prescrizione ex art. 1, comma 2 della L. 20/94 dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso, nel caso di specie il dies a quo non potrebbe che essere identificato, seguendo la ricostruzione della Procura, nel giorno di adozione del decreto sindacale n. 11 del 18.6.2013. Il primo ed unico atto interruttivo intervenuto è l’invito a dedurre, notificato il 26 settembre 2018, a termine ormai perento. Osserva il Collegio che “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dei conti, l’espressione “verificazione” del fatto dannoso, dal quale decorre in via generale il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1, comma 2, L. 20/1994, comprende non soltanto la condotta illecita ma anche l’effetto lesivo che ne deriva, potendo i due eventi coincidere ma, talvolta, anche essere distanziati nel tempo, e in questa ultima ipotesi ciò che rileva è la seconda componente (l’effetto lesivo della condotta)” (Sez. Giurisd. Lazio, n. 258/2019). In caso di illecita percezione di somme la giurisprudenza di questa Corte è, poi, altrettanto costante nel ritenere che la fattispecie si completa con l’avverarsi della sequenza condotta-evento dannoso che, nel caso di specie, si perfeziona con il pagamento delle retribuzioni connesse all’incarico dirigenziale, momento nel quale si realizza il depauperamento dell’erario (recentemente, Sez. Puglia, n.227/2018: “Va rammentato che, secondo i principi generali della materia, la responsabilità amministrativa si fonda – come è noto – su un fatto dannoso, composto dal binomio condotta-evento, perciò le relative fattispecie vanno costruite sulla base di detto binomio. Detto in altri termini, dette fattispecie si perfezionano solo dopo l’avverarsi della sequenza condotta-evento dannoso; l’evento di danno è elemento costitutivo della fattispecie lesiva e, pertanto, nell’ipotesi di danno per erogazione di una somma di denaro la fattispecie si completa con il pagamento, momento nel quale di realizza il depauperamento dell’erario e da cui comincia a decorrere la prescrizione.”). Sulla scorta di tali consolidati principi, quindi, nel caso in esame risultano prescritte solo le somme il cui pagamento è avvenuto prima del quinquennio anteriore rispetto alla notificazione, in data 26 settembre 2018, dell’invito a dedurre e, quindi, prima del mese di ottobre 2013. La domanda avanzata dalla Procura regionale, tuttavia, ha tenuto conto della prescrizione maturatasi, essendo stato quantificato il danno espressamente con riferimento alle somme versate dal Comune di XXXXX dall’ottobre 2013 al maggio 2018 al rag. XXXX in dipendenza dell’incarico dirigenziale da questo ricevuto ed eseguito. L’eccezione di prescrizione, pertanto, non è fondata e va respinta.

Nel merito, la domanda è fondata. Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di XXXXXXX, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013. Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto, ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir meno della gravità delle colpa. A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione degli artt. 110 del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art. 19 del D.Lgs.165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1 lett. f) del D.lgs. 150/09-, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001 che, benchè riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del sistema. Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. N. 31/2001, n. 3/2003) che in sede consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n.31/01) e ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere n. 35/08). La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del 18 giugno 2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110 del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali. In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti. Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto, all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di XXXX, del decreto n. 11 del 18 giugno 2013 integra una condotta antigiuridica, essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa anche dalla difesa del convenuto. Come già ricordato, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs 29/1993 prima e, poi, D.lgs 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs 150/2009, benchè in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza. Osserva a tal proposito il Collegio che tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”. Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente. Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009 dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa Corte con la delibera n. 3/2003 del 9 gennaio 2003, “il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6°, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”. L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa. In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave. Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto, il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di XXXX (art. 50, comma 10, TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell’articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1., lett.c) del Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art. 60, comma 1 dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato, o il Segretario Generale.”). La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90 del 2013, cfr. doc.16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto. Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto. Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco. La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa). Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva, avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag. XXX per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico, nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/97 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva. Risulta in atti che il segretario comunale di XXXXX abbia assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti, copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC. La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza, peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33 Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di XXXX, dr. XXXX, con la quale lo stesso trasmette al difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli atti protocollati in arrivo nel periodo 21.6.2013-30.6.2010, evidenziando che con le chiavi di ricerca “sindaco” e XXXX” non si producono risultati. E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune, l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o sia stato consegnato al destinatario. E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal Segretario al proprio esposto (doc.1 Procura) porta un numero del protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa XXXX in sede di audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa del convenuto. Del resto, la stessa XXXXX ha espressamente confermato in audizione di aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla trasmessa anche tramite PEC. In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza del fatto che il rag. XXXX non avrebbe potuto rivestire l’incarico dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Grassetti, che seguiva le questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento, essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale. A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco. Quanto, poi, al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera della Giunta comunale che ha approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è causativa di danno alcuno), la mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno). Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-, alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di esimente politica. “ La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1, comma 1ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi contenuti, il carattere potenzialmente lesivo. Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d. lgs n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d. lgs. n. 267/2000) ed in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue competenze, atti causativi di danno erariale.” (Sez. III App., 432/2016). Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra, il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di XXXXX con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito. Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità erariale, l’ avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice, l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n. 280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n.1246/2009; Sez. Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017). Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la differenza fra le retribuzioni percepite dal XXX in dipendenza dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART. 8 – Area delle posizioni organizzative. 1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: a)lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa; b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali; c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza. 2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del 6.7.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9.” CCNL del 31.3.1999). La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto, con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa, contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale. In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di XXXX. Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale) alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa. In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto condannato al risarcimento in favore del Comune di XXXXX del danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo. Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti, ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di XXXX -respinge l’eccezione preliminare di prescrizione; -in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale condanna XXXX al risarcimento del danno nei confronti del Comune di XXX di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00), somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data della sentenza fino al saldo effettivo; -condanna XXXXX al pagamento delle spese di giustizia che si liquidano in euro 288,00 (euro duecentottantotto/00)

Pubblico impiego scuola precari anzianità di servizio.

Pubblico Impiego Scuola – Contratti a termine – precari – anzianità di servizio.

La Corte di Cassazione con una recentissima sentenza precisa i termini per il riconoscimento dell’anzianità di servizio per gli insegnanti assunti a seguito di ripetuti contratti a termine.

La Corte aderisce alla linea che ritiene prevalenti i criteri di non discriminazione nei confronti del lavoratori a termine e quindi mette in discussione il riconoscimento dell’anzianità come prevista dal DLGS 297/1994 (intera anzianità per i primi 4 anni 2/3 per quella eccedente ed i criteri limitativi di cui al CCNL 24.7.2003 articolo 142, ma precisa ad evitare discriminazioni a sfavore degli insegnanti che non hanno un rapporto di lavoro preceduto da contratti a termine che l’anzianità andrà calcolata sui soli periodi effettivamente lavorati.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 15/10/2019) 28-11-2019, n. 31149

IMPIEGO PUBBLICO
Passaggio ad altra amministrazione

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2220/017 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.D., domiciliata ex lege in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli Avvocati WALTER MICELI e NICOLA ZAMPIERI;

– controricorrente –

e contro

FEDERAZIONE GILDA – UNAMS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO n. 172 presso lo studio dell’Avvocato SERGIO GALLEANO, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati TOMMASO DE GRANDIS e VINCENZO DE MICHELE;

– resistente con mandato –

e contro

FEDERAZIONE CISL – SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA – FSUR (EX CISL SCUOLA), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI n. 20, presso lo studio dell’Avvocato MAURIZIO RIOMMI, che la rappresenta e difende;

– FLC CGIL – FEDERAZIONE LAVORATORI DELLA CONOSCENZA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA n. 2, presso lo studio dell’Avvocato ISETTA MAUCERI BARSANTI, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato FRANCESCO AMERICO;

UIL SCUOLA NAZIONALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, SALITA DI SAN NICOLA da TOLENTINO n. 1/b, presso lo studio dell’Avvocato DOMENICO NASO, che la rappresenta e difende;

– resistenti con mandato –

avverso la sentenza n. 246/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata l’08/07/2016 R.G.N. 98/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati PAOLA DE NUNTIS e GIOVANNI GRECO (per Avvocatura dello Stato);

uditi gli Avvocati WALTER MICELI, NICOLA ZAMPIERI;

uditi gli Avvocati SERGIO GALLEANO, TOMMASO DE GRANDIS;

udito l’Avvocato MAURIZIO RIOMMI anche per delega verbale degli Avvocati DOMENICO NASO, MAUCERI BARSANTI, FRANCESCO AMERICO.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Genova ha rigettato l’appello del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di C.D., docente di ruolo dal 1997 della scuola secondaria di secondo grado, e, dichiarato il diritto della stessa alla “progressione professionale retributiva in relazione al servizio prestato in ragione dei contratti di lavoro a termine di cui agli atti”, aveva condannato il Ministero al pagamento delle differenze retributive come da conteggio allegato al ricorso.

2. La Corte territoriale ha premesso che l’originaria ricorrente aveva domandato il riconoscimento di 10 anni di servizio di insegnamento preruolo prestato a far tempo dall’anno scolastico 1986/1987 e la domanda era stata solo parzialmente accolta dall’Ufficio scolastico, che con decreto del 16/1/2008 aveva riconosciuto 9 anni di servizio a fini giuridici ed economici, inquadrando la docente nella terza, anzichè nella quarta, posizione stipendiale del CCNL 1.8.1996.

3. Il giudice d’appello ha escluso che fosse giustificato da ragioni obiettive l’abbattimento previsto dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485 e conseguentemente ha disapplicato la disposizione, perchè in contrasto con la clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. Ha precisato al riguardo che quest’ultima può essere invocata anche dai lavoratori a tempo indeterminato che rivendicano il riconoscimento, ai fini dell’anzianità, del servizio prestato sulla base di contratti a termine ed ha ritenuto non rilevante che le annualità si riferissero ad anni antecedenti l’entrata in vigore della direttiva, atteso che nella specie si discuteva di ricostruzione di carriera richiesta nell’anno 2008.

4. Infine la Corte territoriale ha precisato che ai fini del calcolo dell’anzianità complessiva dovevano essere considerati anche i contratti a termine stipulati, L. n. 124 del 1999, ex art. 4, lett. c), per sostituire personale di ruolo assente. Ha rilevato al riguardo che, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, l’attività era stata pressochè continuativa ed aveva interessato gli interi anni scolastici, salve brevi e sporadiche interruzioni prevalentemente coincidenti con le festività scolastiche.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il MIUR sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c.. C.D. ha notificato tardivamente controricorso, chiedendo di essere informata della data di fissazione dell’udienza di discussione.

6. La causa, dapprima avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sezione Sesta, è stata rimessa a questa Sezione con ordinanza del 17 aprile 2018, in ragione della novità e dell’importanza delle questioni giuridiche coinvolte.

7. Successivamente hanno notificato e depositato memoria di intervento D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64, la FSUR – Federazione Cisl Scuola Università Ricerca -, la FLC CGIL – Federazione Lavoratori della Conoscenza, la UIL Scuola Nazionale, la Federazione GILDA UNAMS. 8. Hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., la controricorrente e le organizzazioni sindacali.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo di ricorso il Ministero denuncia “violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato ivi allegato, in particolare dell’art. 2 della Direttiva e della clausola 4 dell’allegato Accordo, del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 485 e 489, art. 11 disp. gen., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″. Rileva che nella specie la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere inapplicabile la direttiva, venendo in rilievo rapporti a termine instaurati fra le parti in data antecedente il 10 luglio 2001, termine assegnato agli Stati Membri per il recepimento della direttiva stessa. Aggiunge che anche l’immissione in ruolo era già avvenuta al momento della scadenza di detto termine e richiama i principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 22552/2016 in tema di utilizzo abusivo degli incarichi a termine. Assume che, in ogni caso, non poteva nella specie essere ravvisata una discriminazione, in quanto la disciplina dettata in tema di ricostruzione della carriera dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, è giustificata da ragioni oggettive, essendo evidente la diversità fra l’attività prestata dal docente a tempo indeterminato e quella richiesta all’insegnante incaricato della sostituzione per pochi giorni o pochi mesi. Rileva, inoltre, che la norma sopra citata va letta in combinato disposto con la L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, che equipara il servizio non di ruolo prestato per almeno 180 giorni oppure ininterrottamente dal 1 febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio a quello riguardante l’intero anno scolastico e, pertanto, il trattamento complessivo riservato agli assunti a tempo determinato non può essere ritenuto di minor favore rispetto a quello del quale godono i docenti di ruolo.

2. Devono essere dichiarati inammissibili gli atti di intervento notificati in date 30.11.2018 (quanto alla Federazione GILDA-UNAMS) e 27.3.2019 (quanto alla Federazione CISL – Scuola Università e Ricerca – FSUR, alla FLC CGIL – Federazione Lavoratori della Conoscenza – ed alla UIL Scuola Nazionale), non potendo trovare applicazione nella fattispecie il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, invocato dalle organizzazioni intervenienti.

La norma in parola disciplina la procedura di “accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi”, che negli intenti del legislatore avrebbe dovuto assicurare un contenimento del contenzioso, specie di quello a carattere seriale, attraverso la sollecitazione ad opera del giudice del potere di interpretazione autentica dei contratti collettivi nazionali del settore pubblico, riconosciuto all’ARAN ed alle organizzazioni firmatarie, e, in mancanza dell’esercizio di detto potere, per mezzo dell’anticipazione della funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione (Cass. S.U. n. 22427/2006).

La Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 199/2003) ha evidenziato che il procedimento, finalizzato alla rimozione erga omnes della situazione di incertezza interpretativa posta in evidenza dalla controversia, tiene conto delle peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego “funzionale all’interesse pubblico di cui all’art. 97 Cost.” e “inderogabile sia in pejus che in melius”, peculiarità che giustificano la prima fase, comportante un diretto coinvolgimento degli agenti negoziali, i quali possono pervenire ad una soluzione chiarificatrice o anche ad una modifica della disposizione contrattuale dubbia.

E’ in ragione del ruolo fondamentale assegnato alle parti collettive nel procedimento che si giustifica la previsione, contenuta nel comma 5 della norma in commento, di un potere di intervento nel processo dell’ARAN e delle organizzazioni sindacali, alle quali è anche consentito, seppure non intervenute, di “presentare memorie nel giudizio di merito ed in quello di cassazione”, con la finalità di fornire, di propria iniziativa, le informazioni che nel giudizio ordinario possono essere date dalle stesse associazioni su sollecitazione della parte e del giudice ex art. 425 c.p.c..

Si tratta, quindi, di un potere strettamente correlato alla peculiare natura e struttura del procedimento, sicchè è da escludere che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, comma 5, possa essere invocato dalle organizzazioni firmatarie del contratto a prescindere dall’attivazione del meccanismo processuale, pacificamente non avvenuta nella fattispecie.

Ne discende che l’intervento della cui ammissibilità qui si discute resta regolato dalle norme del codice di rito e, pertanto, trova applicazione l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte secondo cui “non è consentito nel giudizio di legittimità l’intervento volontario del terzo, mancando una espressa previsione normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l’art. 105 c.p.c., esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado, senza che, peraltro, possa configurarsi una questione di legittimità costituzionale della norma disciplinante l’intervento volontario, come sopra interpretata, con riferimento all’art. 24 Cost., giacchè la legittimità della norma limitativa di tale mezzo di tutela giurisdizionale discende dalla particolare natura strutturale e funzionale del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione” (Cass. n. 10813/2011 che richiama Cass. S.U. n. 1254/2004; cfr. anche Cass. S.U. n. 11387/2016).

3. Il Collegio è chiamato a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione della disciplina interna relativa alla ricostruzione della carriera del personale docente della scuola, nei casi in cui l’immissione in ruolo sia stata preceduta da rapporti a termine.

La questione si pone in quanto la disciplina dettata per gli assunti a tempo indeterminato, dapprima dal legislatore e poi dalla contrattazione collettiva, fa discendere effetti giuridici ed economici dall’anzianità di servizio, che condiziona sia la progressione stipendiale sia, in genere, lo svolgimento del rapporto. Nel settore scolastico, infatti, l’anzianità svolge un ruolo di particolare rilievo ogniqualvolta vengano in gioco valutazioni comparative dei docenti.

Ciò spiega perchè il legislatore sin da tempo risalente ha ritenuto necessario dettare una disciplina specifica dell’istituto del riconoscimento del servizio ai fini della carriera, che costituisce un unicum rispetto ad altri settore dell’impiego pubblico e che si giustifica in ragione della peculiarità del sistema scolastico, nel quale, pur nella diversità delle forme di reclutamento succedutesi nel tempo, l’immissione definitiva nei ruoli dell’amministrazione è sempre stata preceduta, per ragioni diverse, da periodi più o meno lunghi di rapporti a tempo determinato.

4. Tralasciando, perchè non rilevante ai fini di causa, la disciplina antecedente agli anni 70, va detto che già con il D.L. n. 370 del 1970, convertito con modificazioni dalla L. n. 576 del 1970, il legislatore aveva previsto, all’art. 3, che “AI personale insegnante il servizio di cui ai precedenti articoli viene riconosciuto agli effetti giuridici ed economici per intero e fino ad un massimo di quattro anni, purchè prestato con il possesso, ove richiesto, del titolo di studio prescritto o comunque riconosciuto valido per effetto di apposito provvedimento legislativo. Il servizio eccedente i quattro anni viene valutato in aggiunta a quello di cui al precedente comma agli stessi effetti nella misura di un terzo, e ai soli fini economici per i restanti due terzi. I diritti economici derivanti dagli ultimi due terzi di servizio previsti dal comma precedente, saranno conservati e valutati anche in tutte le classi successive di stipendio”.

L’art. 4 aggiungeva che “Ai fini del riconoscimento di cui ai precedenti articoli, il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero, se ha avuto la durata prevista, agli effetti della validità dell’anno, dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione. I periodi di congedo retribuiti e quelli per gravidanza e puerperio sono considerati utili ai fini del calcolo del periodo richiesto per il riconoscimento.”.

4.1. Con il D.Lgs. n. 297 del 1994, di “Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado” le richiamate disposizioni sono confluite, con modificazioni e integrazioni, nell’art. 485, secondo cui “1. Al personale docente delle scuole di istruzione secondaria ed artistica, il servizio prestato presso le predette scuole statali e pareggiate, comprese quelle all’estero, in qualità di docente non di ruolo, è riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonchè ai soli fini economici per il rimanente terzo. I diritti economici derivanti da detto riconoscimento sono conservati e valutati in tutte le classi di stipendio successive a quella attribuita al momento del riconoscimento medesimo. 2. Agli stessi fini e nella identica misura, di cui al comma 1, è riconosciuto, al personale ivi contemplato, il servizio prestato presso le scuole degli educandati femminili statali e quello prestato in qualità di docente elementare di ruolo e non di ruolo nelle scuole elementari statali, o parificate, comprese quelle dei predetti educandati e quelle all’estero, nonchè nelle scuole popolari, sussidiate o sussidiarie.

3. Al personale docente delle scuole elementari è riconosciuto, agli stessi fini e negli stessi limiti fissati dal comma 1, il servizio prestato in qualità di docente non di ruolo nelle scuole elementari statali o degli educandati femminili statali, o parificate, nelle scuole secondarie ed artistiche statali o pareggiate, nelle scuole popolari, sussidiate o sussidiarie, nonchè i servizi di ruolo e non di ruolo prestati nelle scuole materne statali o comunali.”.

A sua volta l’art. 489, ripete la formulazione del D.L. n. 370 del 1970, art. 4, stabilendo che “Ai fini del riconoscimento di cui ai precedenti articoli il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero se ha avuto la durata prevista agli effetti della validità dell’anno dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione. 2. I periodi di congedo e di aspettativa retribuiti e quelli per gravidanza e puerperio sono considerati utili ai fini del computo del periodo richiesto per il riconoscimento”.

La norma, peraltro, deve essere letta in combinato disposto con la L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, secondo cui “l’art. 489, comma 1 del Testo Unico è da intendere nel senso che il servizio di insegnamento non di ruolo prestato a decorrere dall’anno scolastico 1974-1975 è considerato come anno scolastico intero se ha avuto la durata di almeno 180 giorni oppure se il servizio sia stato prestato ininterrottamente dal 1 febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale”.

Il legislatore del Testo Unico, nel disciplinare gli effetti del D.Lgs. n. 297 del 1994, sulla normativa previgente, ha dettato, all’art. 676, una disposizione di carattere generale prevedendo che “Le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”.

Dalla chiara formulazione della norma, pertanto, si evince che, a partire dalla pubblicazione del D.Lgs., le norme antecedenti sono confluite nel testo unico e continuano ad applicarsi nei limiti sopra indicati.

4.2. In questo contesto si è inserita, a seguito della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, la contrattazione collettiva che nell’ambito scolastico, quanto ai rapporti con la legge, non sfugge all’applicazione dei principi dettati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 40, nelle diverse versioni succedutesi nel tempo, fatte salve le disposizioni speciali contenute nello stesso decreto.

Con il CCNL 4 agosto 1995 le parti stipulanti sono intervenute anche in tema di ricostruzione della carriera e hanno previsto, all’art. 66, comma 6, che “Restano confermate, al fine del riconoscimento dei servizi di ruolo e non di ruolo eventualmente prestati anteriormente alla nomina in ruolo e alla conseguente stipulazione del contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, le norme di cui al D.L. 19 giugno 1970, n. 370, convertito, con modificazioni dalla L. 26 luglio 1970, n. 576 e successive modificazioni e integrazioni, nonchè le relative disposizioni di applicazione, così come definite dal D.P.R. 23 agosto 1988, n. 399, art. 4“.

Il successivo CCNL 26.5.1999 ha stabilito, all’art. 18, che “Le norme legislative, amministrative o contrattuali non esplicitamente abrogate o disapplicate dal presente CCNL, restano in vigore in quanto compatibili”.

Di seguito il CCNL 24.7.2003, all’art. 142, comma 1, n. 8, ha espressamente previsto che dovesse continuare a trovare applicazione “l’art. 66, commi 6 e 7, del CCNL 4.08.95 (riconoscimento servizi non di ruolo e insegnanti di religione)” ed analoga disposizione è stata inserita nell’art. 146 (lett. g n. 8) del CCNL 29.11.2007.

Per effetto delle richiamate disposizioni contrattuali, quindi, si deve escludere che gli articoli del T.U. riguardanti la ricostruzione della carriera siano stati disapplicati dalla contrattazione, perchè, al contrario, gli stessi devono ritenersi espressamente richiamati, sia pure attraverso la tecnica del rinvio, anzichè direttamente al T.U., alla disciplina originaria nello stesso trasfusa.

L’art. 66 del CCNL 1995, infatti, va interpretato tenendo conto della disposizione dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 676 e, pertanto, il richiamo della normativa di cui al D.L. n. 370 del 1970 “e successive modificazioni e integrazioni”, ricomprende in sè il rinvio agli artt. 485 e segg. del T.U., che non a caso non figurano fra le norme del dD.Lgs. espressamente disapplicate dalla contrattazione.

Occorre ancora evidenziare che l’art. 66, nel rinviare alle disposizioni di applicazione del D.L. n. 370 del 1970, richiama espressamente anche del D.P.R. n. 399 del 1988, art. 4, che, per quel che rileva in questa sede, prevede che “Al compimento del sedicesimo anno per i docenti laureati della scuola secondaria superiore, del diciottesimo anno per i coordinatori amministrativi, per i docenti della scuola materna ed elementare, della scuola media e per i docenti diplomati della scuola secondaria superiore, del ventesimo anno per il personale ausiliario e collaboratore, del ventiquattresimo anno per i docenti dei conservatori di musica e delle accademie, l’anzianità utile ai soli fini economici è interamente valida ai fini dell’attribuzione delle successive posizioni stipendiali”.

5. Anticipando considerazioni che verranno riprese nel prosieguo della motivazione, osserva il Collegio che dal complesso delle disposizioni sopra richiamate si evince, dunque, che nel settore scolastico, in relazione al personale docente, la disciplina generale ed astratta del riconoscimento del servizio preruolo risulta dalla commistione di elementi che, nella comparazione con il trattamento riservato ai docenti sin dall’origine assunti con contratti a tempo indeterminato, possono essere ritenuti solo in parte di sfavore, perchè se, da un lato, la norma è chiara nel prevedere un abbattimento dell’anzianità sul periodo eccedente i primi quattro anni di servizio; dall’altro il legislatore ha ritenuto di dovere equiparare ad un intero anno di attività l’insegnamento svolto per almeno 180 giorni, o continuativamente dal 1 febbraio sino al termine delle operazioni di scrutinio, ed ha anche previsto il riconoscimento del servizio prestato presso scuole di un diverso grado, consentendo all’insegnante della scuola di istruzione secondaria di giovarsi dell’insegnamento nelle scuole elementari ed ai docenti di queste ultime di far valere il servizio preruolo prestato nelle scuole materne statali o comunali.

5.2. E’ poi utile sottolineare che l’abbattimento opera solo sulla quota eccedente i primi quattro anni di anzianità, oggetto di riconoscimento integrale con i benefici di cui sopra si è detto, e pertanto risulta evidente che il meccanismo finisce per penalizzare i precari di lunga data, non già quelli che ottengano l’immissione in ruolo entro il limite massimo per il quale opera il principio della totale valorizzazione del servizio.

La norma non poteva dirsi priva di ragionevolezza in relazione ad un sistema di reclutamento, che questa Corte ha analizzato con la sentenza n. 22552/2016 (alla quale hanno fatto seguito numerose pronunce dello stesso tenore), basato sulla regola del cosiddetto “doppio canale” che, oltre a prevedere l’immissione in ruolo periodica dei docenti attingendo per il 50% dalle graduatorie dei concorsi per titoli ed esami e per il restante 50% dalle graduatorie per soli titoli, prima, e poi dalle graduatorie permanenti, stabiliva anche, all’esito delle modifiche apportate alla L. n. 124 del 1999, art. 400, la cadenza triennale dei concorsi. In quel contesto, infatti, l’abbattimento oltre il primo quadriennio si giustificava in relazione al criterio meritocratico, perchè quel sistema, per come pensato dal legislatore, avrebbe dovuto consentire ai più meritevoli di ottenere la tempestiva immissione nei ruoli, attesa la prevista periodicità dei concorsi e dei provvedimenti di inquadramento definitivo nei ruoli dell’amministrazione scolastica.

E’ noto, però, e della circostanza si è dato atto nelle plurime pronunce della Corte di Giustizia, della Corte Costituzionale e di questa Corte che hanno riguardato la legittimità della reiterazione dei contratti a termine, che le immissioni in ruolo non sono avvenute in passato con la periodicità originariamente pensata dal legislatore e ciò ha determinato, quale conseguenza, che i docenti “stabilizzati”, per effetto sia della L. n. 107 del 2015, sia degli interventi normativi che in precedenza avevano previsto piani straordinari di reclutamento sia, ancora, nel rispetto delle norme dettate dal T.U., la cui efficacia non è mai stata del tutto sospesa, si sono trovati per la maggior parte a vantare, al momento dell’immissione in ruolo, un’anzianità di servizio di gran lunga superiore a quella per la quale il riconoscimento opera in misura integrale, anzianità che è stata oggetto dell’abbattimento della cui conformità al diritto dell’Unione qui si discute.

6. Occorre dire subito che l’applicabilità alla fattispecie della clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE non può essere esclusa per il fatto che il rapporto dedotto in giudizio abbia ormai acquisito stabilità attraverso la definitiva immissione in ruolo, perchè la Corte di Giustizia ha da tempo chiarito che la disposizione non cessa di spiegare effetti una volta che il lavoratore abbia acquistato lo status di dipendente a tempo indeterminato. Della clausola 4, infatti, non può essere fornita un’interpretazione restrittiva poichè l’esigenza di vietare discriminazioni dei lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato viene in rilievo anche qualora il rapporto a termine, seppure non più in essere, venga fatto valere ai fini dell’anzianità di servizio (cfr. Corte di Giustizia 8.11.2011 in causa C- 177/10 Rosado Santana punto 43; Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza ed altri, punto 36).

Ciò premesso va evidenziato che, come ha rimarcato la stessa Corte di Giustizia nelle pronunce più recenti (Corte di Giustizia 20.6.2019, causa C- 72/18 Ustariz Arostegui; 11.4.2019, causa C- 29/18, Cobra Servizios Auxiliares; 21.11.2018, causa C- 619/17, De Diego Porras; 5.6.2018, causa C – 677/16, Montero Mateos), la clausola 4 dell’Accordo Quadro è stata più volte oggetto di interpretazione da parte del giudice Eurounitario, che anche in dette pronunce ha ribadito i principi già in precedenza affermati, sulla base dei quali questa Corte ha poi risolto la questione, simile ma non coincidente con quella oggetto di causa, del riconoscimento dell’anzianità di servizio ai fini della progressione stipendiale in pendenza di rapporti a termine (cfr. Cass. 22558 e 23868 del 2016 e le successive sentenze conformi fra le quali si segnalano, fra le più recenti, Cass. nn. 28635, 26356, 26353, 6323 del 2018 e Cass. n. 20918/2019 quest’ultima relativa al personale ATA) nonchè agli effetti della ricostruzione della carriera dei ricercatori stabilizzati dagli enti di ricerca (Cass. n. 27950/2017, Cass. n. 7112/2018, Cass. nn. 3473 e 6146 del 2019).

6.1. Nei precedenti citati si è evidenziato che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C-268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana);

b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi art. 153, n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C-177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55; negli stessi termini Corte di Giustizia 5.6.2018, in causa C-677/16, Montero Mateos, punto 57 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C-393/11, Bertazzi);

e) la clausola 4 “osta ad una normativa nazionale,… la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da ragioni oggettive…. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere” (Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C-302/11 a C305/11, Valenza e negli stessi termini Corte di Giustizia 4.9.2014 in causa C-152/14 Bertazzi).

7. I richiamati principi non sono stati smentiti dalla sentenza 20.9.2018, in causa C466/17, Motter, con la quale, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Trento, la Corte di Giustizia ha statuito che la clausola 4 dell’Accordo Quadro, in linea di principio, non osta ad una normativa, quale quella dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che “ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi”.

E’ significativo osservare che a detta conclusione la Corte è pervenuta dopo avere dichiarato espressamente di volersi porre in linea di continuità con la propria giurisprudenza, richiamata ai punti 26, 33, 37, 38, quanto alla rilevanza dell’anzianità, alla nozione di ragione oggettiva, alla non decisività delle diverse forme di reclutamento e della natura temporanea del rapporto, e la statuizione è stata resa valorizzando le circostanze allegate dal Governo Italiano, che aveva fatto leva sul criterio di favore previsto dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 489, come integrato dalla L. n. 124 del 1999, nonchè sulla necessità di raggiungere “un equilibrio tra i legittimi interessi dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato, nel rispetto dei valori di meritocrazia e delle considerazioni di imparzialità e di efficacia dell’amministrazione su cui si basano le assunzioni mediante concorso” (punto 51).

Particolare rilievo assumono, dunque, per comprendere la ratio della decisione, i punti 47 e 48 nei quali si afferma che possono configurare una ragione oggettiva “gli obiettivi invocati dal governo italiano, consistenti, da un lato, nel rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione e dall’altro nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale”, obiettivi che possono essere legittimamente considerati rispondenti a una reale necessità “fatte salve le verifiche rientranti nella competenza esclusiva del giudice del rinvio”.

Poichè, ad avviso del Collegio, la lettura della pronuncia deve essere complessiva, non possono essere svalutate, come ha fatto il Ministero ricorrente nel corso della discussione orale, le affermazioni contenute ai punti 33-34 e 37-38, quanto alla non decisività della diversa forma di reclutamento ed alla necessità che la disparità di trattamento sia giustificata da “elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi”, sicchè la verifica che il giudice nazionale, nell’ambito della cooperazione istituita dall’art. 267 TFUE, è chiamato ad effettuare riguarda tutti gli aspetti che assumono rilievo ai sensi della clausola 4 dell’Accordo Quadro, ivi compresa l’effettiva sussistenza nel caso concreto delle ragioni fatte valere dinanzi alla Corte di Lussemburgo dallo Stato Italiano per giustificare la disparità di trattamento.

8. Quanto alla comparabilità degli assunti a tempo determinato con i docenti di ruolo valgono le considerazioni già espresse da questa Corte con le sentenze richiamate al punto 6 e con l’ordinanza n. 20015/2018 che, valorizzando il principio di non discriminazione e le disposizioni contrattuali che si riferiscono alla funzione docente, ha ritenuto di dovere riconoscere il diritto dei supplenti temporanei a percepire, in proporzione all’attività prestata, la retribuzione professionale docenti.

In quelle pronunce si è evidenziato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la disparità di trattamento non può essere giustificata dalla natura non di ruolo del rapporto di impiego, dalla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, dalle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e dalle esigenze che il sistema mira ad assicurare.

Nè la comparabilità può essere esclusa per i supplenti assunti ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 3, facendo leva sulla temporaneità dell’assunzione, perchè la pretesa differenza qualitativa e quantitativa della prestazione, oltre a non trovare riscontro nella disciplina dettata dai CCNL succedutisi nel tempo, che non operano distinzioni quanto al contenuto della funzione docente, non appare conciliabile, come la stessa Corte di Giustizia ha rimarcato, “con la scelta del legislatore nazionale di riconoscere integralmente l’anzianità maturata nei primi quattro anni di esercizio dell’attività professionale dei docenti a tempo determinato” (punto 34 della citata sentenza Motter), ossia nel periodo in cui, per le peculiarità del sistema di reclutamento dei supplenti, che acquisiscono punteggi in ragione del servizio prestato, solitamente si collocano più le supplenze temporanee, che quelle annuali o sino al termine delle attività didattiche.

E’, pertanto, da escludere che la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, possa dirsi giustificata dalla non piena comparabilità delle situazioni a confronto e, comunque, dalla sussistenza di ragioni oggettive, intese nei termini indicati nei punti che precedono.

9. Più complessa è l’ulteriore verifica che la Corte di Giustizia ha demandato al giudice nazionale in relazione all’obiettivo di evitare il prodursi di discriminazioni “alla rovescia” in danno dei docenti assunti ab origine con contratti a tempo indeterminato, discriminazioni che, ad avviso del Ministero ricorrente, si produrrebbero qualora in sede di ricostruzione della carriera si prescindesse dall’abbattimento, perchè in tal caso il lavoratore a termine, potendo giovarsi del criterio di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 489, potrebbe ottenere un’anzianità pari a quella dell’assunto a tempo indeterminato, pur avendo reso rispetto a quest’ultimo una prestazione di durata temporalmente inferiore.

L’argomento non è privo di pregio, ma non può essere ritenuto decisivo per affermare tout court la conformità alla direttiva della norma di diritto interno, innanzitutto perchè la verifica non può essere condotta in astratto, bensì deve tener conto della specificità del caso concreto, nel quale, in ipotesi, potrebbe anche non venire in rilievo l’applicazione della disposizione sopra indicata, sulla quale la Corte di Giustizia ha fatto leva nell’affermare che l’abbattimento potrebbe essere ritenuto applicazione del principio del pro rata temporis.

Si è già detto, infatti, che la clausola 4 dell’Accordo Quadro attribuisce un diritto incondizionato che può essere fatto valere dal singolo lavoratore dinanzi al giudice nazionale e non può essere paralizzato da una norma generale ed astratta. Corollario del principio è che la denunciata discriminazione deve essere verificata in relazione alla fattispecie concreta dedotta in giudizio e pertanto, ove la norma che legittima la diversità di trattamento si leghi, nell’intento del legislatore, a presupposti giustificativi non necessariamente sussistenti in relazione ai singoli rapporti, non si può escludere che la medesima norma possa essere ritenuta discriminatoria in un caso e non nell’altro, dipendendo la sua giustificazione dalla ricorrenza di condizioni che vanno verificate non in astratto bensì con riferimento al singolo rapporto.

9.1. L’applicazione diretta della clausola 4 chiama il giudice nazionale a seguire un procedimento logico secondo il quale occorre: a) determinare il trattamento spettante al preteso “discriminato”; b) individuare il trattamento riservato al lavoratore comparabile; c) accertare se l’eventuale disparità sia giustificata da una ragione obiettiva.

Nel rispetto di queste fasi perchè il docente si possa dire discriminato dall’applicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che, si è già detto al punto 5, è la risultante di elementi di sfavore e di favore, deve emergere che l’anzianità calcolata ai sensi della norma speciale sia inferiore a quella che nello stesso arco temporale avrebbe maturato l’insegnante comparabile, assunto con contratto a tempo indeterminato per svolgere la medesima funzione docente. Ciò implica che il trattamento riservato all’assunto a tempo determinato non possa essere ritenuto discriminatorio per il solo fatto che dopo il quadriennio si operi un abbattimento, occorrendo invece verificare anche l’incidenza dello strumento di compensazione favorevole, che pertanto, in sede di giudizio di comparazione, va eliminato dal computo complessivo dell’anzianità, da effettuarsi sull’intero periodo, atteso che, altrimenti, si verificherebbe la paventata discriminazione alla rovescia rispetto al docente comparabile.

In altri termini un problema di trattamento discriminatorio può fondatamente porsi nelle sole ipotesi in cui l’anzianità effettiva di servizio, non quella virtuale D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 489, prestata con rapporti a tempo determinato, risulti superiore a quella riconoscibile D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 485, perchè solo in tal caso l’attività svolta sulla base del rapporto a termine viene ad essere apprezzata in misura inferiore rispetto alla valutazione riservata all’assunto a tempo indeterminato.

9.2. Nel calcolo dell’anzianità occorre, quindi, tener conto del solo servizio effettivo prestato, maggiorato, eventualmente, degli ulteriori periodi nei quali l’assenza è giustificata da una ragione che non comporta decurtazione di anzianità anche per l’assunto a tempo indeterminato (congedo ed aspettativa retribuiti, maternità e istituti assimilati), con la conseguenza che non possono essere considerati nè gli intervalli fra la cessazione di un incarico di supplenza ed il conferimento di quello successivo, nè, per le supplenze diverse da quelle annuali, i mesi estivi, in relazione ai quali questa Corte da tempo ha escluso la spettanza del diritto alla retribuzione (Cass. n. 21435/2011, Cass. n. 3062/2012, Cass. n. 17892/2015), sul presupposto che il rapporto cessa al momento del completamento delle attività di scrutinio.

Si dovrà, invece, tener conto del servizio prestato in un ruolo diverso da quello rispetto al quale si domanda la ricostruzione della carriera, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 485, perchè il medesimo beneficio è riconosciuto anche al docente a tempo indeterminato che transiti dall’uno all’altro ruolo, con la conseguenza che il meccanismo non determina alcuna discriminazione alla rovescia.

9.3. Qualora, all’esito del calcolo effettuato nei termini sopra indicati, il risultato complessivo dovesse risultare superiore a quello ottenuto con l’applicazione dei criteri di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, la norma di diritto interno deve essere disapplicata ed al docente va riconosciuto il medesimo trattamento che, nelle stesse condizioni qualitative e quantitative, sarebbe stato attribuito all’insegnante assunto a tempo indeterminato, perchè l’abbattimento, in quanto non giustificato da ragione oggettiva, non appare conforme al diritto dell’Unione.

Come già ricordato nel punto 6.1 lett. a), la clausola 4 dell’accordo quadro ha effetto diretto ed i giudici nazionali, tenuti ad assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale che deriva dalle norme del diritto dell’Unione ed a garantirne la piena efficacia, debbono disapplicare, ove risulti preclusa l’interpretazione conforme, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte di Giustizia 8.11.2011, Rosado Santana punti da 49 a 56).

Non è consentito, invece, all’assunto a tempo determinato, successivamente immesso nei ruoli, pretendere, sulla base della clausola 4, una commistione di regimi, ossia, da un lato, il criterio più favorevole dettato dal T.U. e, dall’altro, l’eliminazione del solo abbattimento, perchè la disapplicazione non può essere parziale nè può comportare l’applicazione di una disciplina diversa da quella della quale può giovarsi l’assunto a tempo indeterminato comparabile.

10. Nella fattispecie non osta all’applicazione dei richiamati principi la circostanza che l’originaria ricorrente abbia domandato il riconoscimento ai fini della ricostruzione della carriera di rapporti a termine che si collocano temporalmente in data antecedente all’entrata in vigore della direttiva 1999/70/CE. Non può essere invocato il principio di diritto affermato da questa Corte con la sentenza n. 22552/2016 perchè in quel caso si discuteva della legittimità della reiterazione dei contratti a termine, il cui carattere abusivo non poteva essere affermato sulla base della normativa Europea sopravvenuta, mentre nella specie viene in rilievo la correttezza del decreto di ricostruzione della carriera adottato dall’Ufficio Scolastico nel gennaio 2008, nella vigenza della direttiva.

11. La sentenza impugnata non è conforme ai principi di diritto sopra enunciati perchè, pur avendo la Corte territoriale correttamente richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia formatasi in relazione all’interpretazione della clausola 4, non risulta che nella quantificazione dell’anzianità riconoscibile alla C. abbia tenuto conto dei periodi di interruzioni dei rapporti a termine, che, seppure “brevi e sporadici”, non potevano concorrere a determinare l’anzianità complessiva della docente.

Il ricorso va pertanto accolto in detti limiti e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto che, sulla base di quanto osservato nei punti che precedono, di seguito si enunciano:

a) il D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che anche in forza del rinvio operato dalle parti collettive disciplina il riconoscimento dell’anzianità di servizio dei docenti a tempo determinato poi definitivamente immessi nei ruoli dell’amministrazione scolastica, viola la clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e deve essere disapplicato, nei casi in cui l’anzianità risultante dall’applicazione dei criteri dallo stesso indicati, unitamente a quello fissato dall’art. 489 dello stesso decreto, come integrato dalla L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, risulti essere inferiore a quella riconoscibile al docente comparabile assunto ab origine a tempo indeterminato;

b) il giudice del merito per accertare la sussistenza della denunciata discriminazione dovrà comparare il trattamento riservato all’assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, con quello del docente ab origine a tempo indeterminato e ciò implica che non potranno essere valorizzate le interruzioni fra un rapporto e l’altro, nè potrà essere applicata la regola dell’equivalenza fissata dal richiamato art. 489;

c) l’anzianità da riconoscere ad ogni effetto al docente assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, in caso di disapplicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, deve essere computata sulla base dei medesimi criteri che valgono per l’assunto a tempo indeterminato.

12. Alla Corte territoriale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità, ad eccezione di quelle relative al rapporto processuale con gli intervenienti, in relazione alle quali va disposta l’integrale compensazione in ragione della novità e della complessità della questione controversa.

Non sussistono le condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti indicati in motivazione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, quanto al rapporto processuale fra le parti principali, alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione.

Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità relative agli intervenienti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

Pubblico Impiego Cambio Amministrazione – Aspettativa per svolgere il periodo di prova – Il parere dell’ARAN

Pubblico Impiego – Aspettativa per svolgere il periodo di prova – Parere ARAN

Aspettativa per svolgere il periodo di prova presso altra pubblica amministrazione.

Diversi contratti del pubblico impiego prevedono la concessione di una aspettativa non retribuita per svolgere il periodo di prova presso altra amministrazione.

Ciò naturalmente al fine di evitare che chi sceglie un nuovo datore di lavoro provenendo da altra amministrazione non resti esposto all’incertezza de patto di prova e non possa in caso di esito negativo tornare presso l’originario datore di lavoro.

L’ARAN fornisce in merito un’interpretazione restrittiva per cui la clausola vale solo nel passaggio tra amministrazioni pubbliche disciplinate dalla contrattazione collettiva di cui all’articolo 2 DLGS 165/2001 e non per il passaggio a rapporti non contrattualizzati come quello di consigliere di prefettura.

Un dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato di un ente, vincitore di concorso per consigliere di prefettura, che, già nominato, deve iniziare il corso di formazione di cui all’art.5 del D.Lgs.n.139/2000, con la previsione di un periodo di prova  di un anno, può avvalersi della particolare disciplina dell’art.20, comma 10, del CCNL  delle Funzioni Locali del 21.5.2018?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:

a) l’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.5.2018 delle Funzioni Locali prevede,  come è noto, la conservazione del posto senza retribuzione presso l’ente di provenienza al dipendente,  a tempo indeterminato,  che sia vincitore di concorso presso un altro ente o amministrazione, per un arco temporale corrispondente pari alla durata del periodo di prova stabilita dal CCNL applicato presso l’ente o amministrazione di destinazione;

b)  il comma 12 del medesimo articolo precisa, inoltre, che il suddetto diritto alla conservazione del posto si applica anche al dipendente in prova proveniente da un ente di diverso comparto il cui CCNL preveda analoga disciplina;

c) come nella vigenza del precedente art.14-bis, comma 9, del CCNL del 6.7.1995, i cui contenuti sono stati sostanzialmente riprodotti nell’art.20, comma 10, del CCNL del 21.5.2018, questa ultima previsione deve ritenersi applicabile solo nei confronti di dipendenti di amministrazioni pubbliche, di cui all’art.1, comma 2, del D.Lgs.n.165/2001, appartenenti comunque ad uno specifico comparto di contrattazione rientrante nella competenza dell’ARAN, che abbia previsto, nella propria disciplina negoziale, un’analoga regolamentazione;

d) pertanto, la disciplina di cui si tratta non può trovare applicazione:

1) nel caso di coinvolgimento di personale dipendente al quale non si applicano i CCNL sottoscritti in sede ARAN;

2) anche in caso di provenienza da altro comparto di contrattazione collettiva, ove manchi quella condizione di reciprocità di cui si è detto, nel senso che non esista, nell’ambito della contrattazione collettiva di questo diverso comparto, una clausola di contenuto analogo che riconosca ai dipendenti vincitori di concorso in altro comparto di contrattazione, il diritto alla conservazione del posto nell’ente di provenienza, per la durata del periodo di prova.

Alla luce delle suesposte considerazioni si esclude che, nel caso prospettato, possa trovare applicazione la disciplina del citato art.20, comma 10, del CCNL del 21 maggio 2018, dato che il personale della carriera prefettizia, ai sensi dell’art. 3 del D. Lgs. n. 165/2001, rientra tra i dipendenti delle amministrazioni ancora assoggettate a regime pubblicistico per gli aspetti concernenti il trattamento giuridico ed economico del proprio personale.

Quadro della Pubblica Amministrazione segnala gli episodi di corruzione!

La legge tutela il pubblico dipendente che segnala illeciti.

La tutela si applica anche ai dipendenti delle società partecipate e delle imprese che forniscono beni e servizi alla Pubblica Amministrazione.

Il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

Il DLGS 165/2001 all’articolo 54 bis stabilisce modi e termini della tutela.

1. Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

2. Ai fini del presente articolo, per dipendente pubblico si intende il dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, ivi compreso il dipendente di cui all’articolo 3, il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

3. L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

4. La segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.

5. L’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.

6. Qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione. (310)

7. È a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli.

8. Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.

9. Le tutele di cui al presente articolo non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.

Whistleblowing (italiano informatore).


Ritorsioni verso un segnalante di illeciti: 5mila euro di sanzione Anac al responsabile. È la prima dall’approvazione della legge. Sono 706 le segnalazioni nel 2019, 41 inviate in Procura

All’esito di una lunga istruttoria, l’Autorità nazionale anticorruzione ha irrogato una sanzione da 5mila euro al responsabile di provvedimenti ritorsivi attuati nei confronti di un whistleblower. È la prima multa comminata dall’Anac da quanto è stata approvata la legge 179/2017, che tutela da misure discriminatorie chi segnala illeciti sul luogo di lavoro.

Il whistleblower, operante in un comune campano, aveva denunciato per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio i componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari, di cui lui stesso faceva parte. Nelle settimane successive alla denuncia sporta presso l’Autorità giudiziaria, il dirigente era stato sospeso dal servizio per 10 giorni e in seguito per altri 12 giorni, in entrambi i casi con la contestuale privazione della retribuzione.

Dopo un accurato esame della vicenda e l’audizione di due componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari, l’Anac ha ritenuto pretestuose e ritorsive le motivazioni alla base delle contestazioni, sanzionando il firmatario dei provvedimenti.

La legge 179/2017, che ha affidato all’Autorità nazionale anticorruzione il compito di verificare eventuali misure discriminatorie verso i whistleblower, prevede la possibilità di irrogare sanzioni da 5.000 a 30.000 euro nei confronti degli autori delle misure ritorsive e da 10.000 a 50.000 euro in caso di mancata analisi delle segnalazioni ricevute. Le segnalazioni di whistleblowing possono infatti essere inviate, oltre che all’Anac, anche al Responsabile per la prevenzione della corruzione (Rpct) interno all’amministrazione. Dall’istituzione della legge, l’Autorità ha avviato 17 procedimenti sanzionatori; di questi, 10 sono tuttora in corso.

Dall’inizio del 2019 a oggi sono 706 le segnalazioni pervenute. Di queste, dopo gli approfondimenti del caso, 41 sono state trasmesse alla Procura della Repubblica e 35 alla Corte dei Conti per valutare la sussistenza di profili penali ed erariali.

importante sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni integrative dei dipendenti pubblici

Corte Costituzionale
Sentenza n. 218 del 3/10/2019
Pubblico impiego – previdenza complementare – fondi pensione – regime agevolato – deve essere riconosciuto anche ai dipendenti pubblici

La Corte, con la presente sentenza, afferma che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati e pertanto dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 comma 6 del decreto legislativo n. 252/2005 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari) nella parte in cui prevede che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato ad imposta ai sensi dell’art. 52 comma 1 lettera d-ter,  del d.P.R. n. 971/1986 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005. Si riporta di seguito il comunicato del 3 ottobre 2019 dell’ufficio stampa della Corte: “Previdenza complementare: ai dipendenti pubblici le stesse agevolazioni fiscali previste per i privati. È illegittimo il diverso trattamento tributario – tra dipendenti pubblici e privati – previsto per il riscatto di una posizione individuale maturata tra il 2007 e il 2017 nei fondi pensione negoziali. La previsione penalizza i dipendenti pubblici rispetto a quelli privati sebbene le due fattispecie siano sostanzialmente omogenee. Si tratta quindi di una discriminazione che viola il principio dell’eguaglianza tributaria. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 218 depositata oggi (relatore Luca Antonini), affermando che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati.  La questione era stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, alla quale si era rivolta un’insegnante per ottenere il rimborso – negatole dall’Agenzia delle entrate sulla base della disposizione censurata – delle maggiori imposte pagate sull’importo riscattato dal Fondo pensione Espero. Su questo reddito ora si dovrà applicare la più favorevole imposta sostitutiva introdotta dal 2007 anziché l’aliquota determinata sommando l’importo stesso al reddito complessivo dell’anno. La Corte ha fatto leva sull’omogeneità del meccanismo di finanziamento della previdenza complementare sia nei fondi pensione negoziali dei dipendenti privati sia in quelli dei dipendenti pubblici, per concludere che la duplicità del trattamento tributario del riscatto della posizione maturata non può essere giustificata né dalla diversa natura del rapporto di lavoro né dal fatto che l’accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici è virtuale, in costanza di rapporto di lavoro. Ha quindi esteso anche ai dipendenti pubblici l’agevolazione già prevista per quelli privati con lo scopo di favorire lo sviluppo della previdenza complementare.” (tratto da Bollettino ARAN).

Di seguito la sentenza:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Vicenza, con ordinanza dell’11 ottobre 2017, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti l’atto di costituzione di Paola Rizzo, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Flavio De Benedictis per Paola Rizzo e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

1.- Con ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

La controversia pendente davanti al giudice rimettente riguarda il rifiuto tacito opposto dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle addizionali comunale e regionale per l’anno 2014 presentata dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato un’imposta maggiore del dovuto poiché al reddito complessivo prodotto è stato sommato l’ammontare dell’imponibile erogatole dal Fondo nazionale pensione complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola “Espero”), tassato sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A tale fondo la stessa è stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno 2014, maturando una posizione individuale imponibile di Euro 8.108,70; esercitato il riscatto volontario, il fondo ha applicato sulla somma liquidatale una ritenuta alla fonte di Euro 1.865,01 a titolo di tassazione ordinaria, per effetto del combinato disposto degli artt. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005 e 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi.

2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza ricorda che il fondo al quale la ricorrente aveva aderito, costituito a seguito della riforma pensionistica contenuta nella L. 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), è destinato ai lavoratori del comparto scuola, sia con contratto a tempo indeterminato che determinato, che vi aderiscono volontariamente.

Prosegue il giudice rilevando che la riforma introdotta dalla L. 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), avente tra l’altro ad oggetto l’adozione di norme intese a “sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari” (art. 1, comma 1), non avrebbe trovato immediata applicazione nei confronti del pubblico impiego. Infatti, non è stato emanato l’apposito decreto di armonizzazione necessario per l’attuazione degli specifici principi e criteri direttivi indicati all’art. 1, comma 2, lettera p), della legge citata: “applicare i princìpi e i criteri direttivi di cui al comma 1 e al presente comma e le disposizioni relative agli incentivi al posticipo del pensionamento di cui ai commi da 12 a 17, con le necessarie armonizzazioni, al rapporto di lavoro con le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo confronto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro, le regioni, gli enti locali e le autonomie funzionali, tenendo conto delle specificità dei singoli settori e dell’interesse pubblico connesso all’organizzazione del lavoro e all’esigenza di efficienza dell’apparato amministrativo pubblico”.

Il D.Lgs. n. 252 del 2005, recante disposizioni attuative della predetta legge delega, prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 8, che “fatto salvo quanto previsto dall’art. 23, comma 5, è abrogato il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124“, recante “Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v), della L. 23 ottobre 1992, n. 421“, e all’art. 23, comma 6, che “fino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della L. 23 agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente normativa”.

Ad avviso del giudice a quo, il combinato disposto di tali previsioni escluderebbe “l’applicazione, al rapporto di lavoro pubblico, del regime fiscale più favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due regimi impositivi e una disparità di trattamento costituzionalmente rilevante”. Infatti, il cosiddetto riscatto volontario di una posizione individuale accumulata dopo il 1 gennaio 2007 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252 del 2005), “se erogato a favore di dipendenti del settore privato iscritti a una forma pensionistica di natura negoziale di cui sono destinatari, beneficia della favorevole imposizione sostitutiva di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005, mentre il medesimo riscatto erogato a favore di dipendenti pubblici subisce una differente e penalizzante imposizione ordinaria che si configurerebbe nella maggiorazione dell’onere tributario, derivante dall’applicazione dell’art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR“.

Pertanto, il rimettente ritiene che il D.Lgs. n. 252 del 2005 risulterebbe “carente di una disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico”, per effetto delle sopra richiamate disposizioni di cui agli artt. 21, comma 8, e 23, comma 6 della stessa fonte normativa.

Il combinato disposto di queste ultime “escluderebbe, irragionevolmente, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, il regime fiscale più favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due sistemi impositivi”. La conseguente disparità di trattamento appare al rimettente irragionevole, e quindi in violazione dell’art. 3 Cost., essendo lesiva del principio di uguaglianza tra lavoratori del settore pubblico e di quello privato, nonché dell’art. 53 Cost., “in quanto una medesima fonte di capacità contributiva verrebbe sottoposta a due diverse imposizioni fiscali”.

L’ordinanza ritiene le questioni rilevanti in quanto la risoluzione della controversia in senso sfavorevole o favorevole al contribuente dipenderebbe dall’applicazione della norma della cui costituzionalità si dubita.

3.- Con atto depositato il 19 febbraio 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.

Vengono, in premessa, richiamate le principali fonti normative in materia di previdenza complementare segnalando, da ultimo, l’art. 1, comma 156, della L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020): tale disposizione, a decorrere dal 1 gennaio 2018, ha esteso ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e dei contributi versati ai fini della previdenza complementare e il regime di tassazione delle prestazioni previsti dal D.Lgs. n. 252 del 2005, precisando che, per i dipendenti pubblici iscritti alla data di entrata in vigore della legge a forme previdenziali complementari, “relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti”.

3.1.- L’Avvocatura generale eccepisce la inammissibilità delle questioni, “per non avere investito la normativa rilevante, con particolare riferimento all’art. 1 della legge delega n. 243/2004, in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 252 del 2005“. Richiamando il principio direttivo contenuto nella lettera p) del comma 2 di tale articolo, ritiene evidente che l’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, sospettato di incostituzionalità, trovi in esso il suo fondamento.

Un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che l’ordinanza ha richiesto la dichiarazione di illegittimità dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005 senza richiamare, “neppure in estrema sintesi”, la disciplina, contenuta nel citato decreto legislativo, in tema di trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati diverse dal riscatto volontario, di cui l’accoglimento del petitum formulato “comporterebbe l’estensione ai lavoratori del comparto pubblico”.

3.2.- A sostegno della manifesta infondatezza della questione, l’Avvocatura premette che le prestazioni di previdenza complementare costituiscono reddito da lavoro dipendente o da pensione e che, sia il D.Lgs. n. 124 del 1993, sia il D.Lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della L. 13 maggio 1999, n. 133), avevano delineato “un trattamento fiscale delle anzidette prestazioni omogeneo per i lavoratori privati e pubblici analogo a quello dettato dal TUIR per tali redditi”.

Secondo la ricostruzione dell’Avvocatura il regime applicabile alla quota parte delle prestazioni riferibili ai contributi e al trattamento di fine rapporto (TFR) versati fino al 31 dicembre 2006, sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati, prevedeva: a) la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica; b) la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per le anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti a pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro per mobilità e per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti; d) la tassazione progressiva, per i riscatti volontari.

Rispetto a tale regime tipico, la nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 252 del 2005 avrebbe un connotato evidentemente agevolativo, come risulterebbe dal contenuto dell’art. 11. Per quanto attiene ai riscatti, si applicherebbe la medesima tassazione prevista per le prestazioni erogate sotto forma di capitale, nei casi di riscatti esercitati ai sensi dell’art. 14, commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 252 del 2005, mentre le ipotesi di riscatto per cause diverse sarebbero assoggettate a ritenuta a titolo d’imposta del 23 per cento.

Ciò ricordato, ad avviso dell’interveniente le censure sollevate dal giudice a quo sarebbero manifestamente infondate “in considerazione della natura agevolativa delle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 252 del 2005” e del principio affermato dalla Corte (è richiamata la sentenza n. 21 del 2005), secondo cui “la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e ridistributiva”. L’Avvocatura ritiene che la stabilità del rapporto pubblico e la circostanza che i dipendenti pubblici percepissero e continuino a percepire trattamenti pensionistici obbligatori di importo pari “circa al doppio di quelli percepiti dai dipendenti privati”, costituirebbero “ragioni sufficienti a giustificare una disciplina differenziata del trattamento fiscale delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza complementare”.

Argomentando sotto un ulteriore profilo di infondatezza, l’Avvocatura generale considera che la previdenza integrativa sarebbe stata costituita prendendo a modello il settore dipendente privato e attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento di fine rapporto. Peraltro, ciò avrebbe fin dall’inizio comportato difficoltà di applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il TFR, e non potendo quindi il bilancio pubblico facilmente “trasferirlo ai fondi pensione nel caso di una trasformazione dei trattamenti di fine servizio (TFS) in TFR”.

La difesa dello Stato prosegue riepilogando le fasi che hanno segnato l’estensione ai dipendenti pubblici del TFR, inizialmente disposta dalla L. n. 335 del 1995, e delineando le modalità di determinazione della misura dei contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro, nonché le modalità di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici.

Tali peculiari vicende e, in particolare, la “diversa disciplina ed entità del TFS e la differente modalità di accantonamento del TFR” costituirebbero, ad avviso dell’Avvocatura, ulteriori ragioni che varrebbero “a rendere non irragionevole la scelta del legislatore di differenziare il trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate dai fondi pensione ai lavoratori pubblici e privati”.

4.- Con atto depositato il 15 febbraio 2019, si è costituita Paola Rizzo, come rappresentata e difesa, in qualità di parte del giudizio a quo.

Dopo avere richiamato il regime di tassazione applicabile per il periodo dal 1 gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, e avere menzionato la disposizione di cui all’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, la parte dà atto del nuovo regime di tassazione delle prestazioni a favore dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche introdotto dall’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017.

4.1.- Anche a seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, tuttavia, non potrebbe “considerarsi cessata la materia del contendere del presente procedimento”: ad avviso della parte lo ius superveniens “non avrebbe avuto carattere satisfattivo dei rilievi sollevati dal giudice a quo” e, inoltre, vi sarebbe stata “applicazione medio tempore della disposizione originariamente censurata”. Considerando che quest’ultima avrebbe “già conosciuto effettiva applicazione al momento in cui è entrata in vigore la disciplina sopravvenuta”, si prospetta l’estensione del “giudizio incidentale di legittimità costituzionale” al comma 156 dell’art. 1 della L. n. 205 del 2017; nonostante lo ius superveniens, i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche continuerebbero a subire una illegittima discriminazione, risultante dai diversi regimi, di cui si esplicitano i contenuti.

4.2.- Il regime impositivo previgente al D.Lgs. n. 252 del 2005, applicabile alle prestazioni erogate a dipendenti di pubbliche amministrazioni per la quota riferibile al montante accumulato dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe in contrasto con i parametri evocati dal rimettente. A sostegno di tale tesi si richiamano le affermazioni contenute nella sentenza n. 10 del 2015 sul principio della capacità contributiva, da interpretare come specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e nella sentenza n. 83 del 2015, sul limite della manifesta irragionevolezza applicabile anche in materia tributaria al principio della discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative.

La scelta legislativa di tassare in modo totalmente differente e penalizzante una prestazione di previdenza complementare percepita da un aderente a una forma pensionistica collettiva per la sola circostanza che il proprio datore di lavoro sia una pubblica amministrazione (e non un soggetto di diritto privato) sarebbe quindi manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei parametri costituzionali evocati.

Da ultimo, si sostiene che il vizio di irragionevolezza sopra evidenziato porrebbe una questione di illegittimità costituzionale “anche con riferimento al principio di non discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea … e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

5.- In prossimità dell’udienza è pervenuta una memoria della parte privata, che replica all’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

A confutazione della eccezione di inammissibilità per non essere stata censurata la legge di delegazione, si osserva che la situazione di irragionevolezza denunciata nel giudizio conseguirebbe dalla mancata attuazione del criterio di legge delega di cui alla lettera p) del comma 2 dell’art. 1 della L. n. 243 del 2004 e non dalla stessa disposizione di legge, che prevedeva l’applicazione al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni degli stessi principi e criteri direttivi fissati per il settore privato. Pertanto, il giudice rimettente non avrebbe dovuto censurare anche tale ultima disposizione normativa.

Ugualmente infondata sarebbe l’altra eccezione prospettata, atteso che l’ordinanza esplicitamente ed esaustivamente richiamerebbe il regime impositivo di cui al D.Lgs. n. 252 del 2005, citandone l’art. 14.

Quanto agli argomenti di merito utilizzati dalla difesa dello Stato, la memoria ritiene che si basino su presupposti errati e siano comunque infondati. Precisa che la ricorrente aveva prestato la sua attività in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato con scadenza al 30 giugno 2014, sì che nessuna stabilità del rapporto stesso potrebbe essere invocata. Inoltre, fa presente che i dipendenti pubblici non beneficiano di trattamenti pensionistici obbligatori calcolati in modo differente rispetto ai lavoratori del settore privato, essendo il relativo importo direttamente correlato a quello dei contributi versati all’ente previdenziale di gestione del sistema pensionistico pubblico.

In ogni caso, la diversa natura del datore di lavoro non potrebbe assurgere a indice della capacità contributiva tale da giustificare un prelievo fiscale totalmente differente su medesimi presupposti d’imposta.

Inoltre, si ritiene inconferente con la questione di costituzionalità “la legislazione sulla indennità di fine servizio spettante a determinate tipologie di lavoratori del settore pubblico”. Infine, la preclusione per i lavoratori pubblici di poter materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande del TFR alla propria forma pensionistica complementare, rappresenterebbe tuttalpiù un’ulteriore discriminazione a danno degli stessi e non certo una valida ragione per giustificare il differente e penalizzante prelievo tributario sulle prestazioni di previdenza complementare.

Motivi della decisione

1.- Con ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti delle pubbliche amministrazioni a titolo di riscatto della posizione individuale maturata presso una forma di previdenza complementare collettiva si applica il regime fiscale previgente al D.Lgs. n. 252 del 2005, invece del regime fiscale più favorevole introdotto da detto D.Lgs. n. 252 del 2005 per la stessa prestazione erogata dalle forme pensionistiche complementari collettive ai dipendenti privati. Il rimettente ritiene che nel D.Lgs. n. 252 del 2005 la carenza di una disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico conduca a escludere l’applicazione del regime fiscale più favorevole, introdotto dallo stesso decreto legislativo per il rapporto di lavoro privato, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato: la duplicità dei sistemi impositivi e la disparità di trattamento conseguenti sarebbero, perciò, in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Nel giudizio a quo si impugna il rifiuto tacito formatosi sulla richiesta, avanzata dalla ricorrente, di rimborso della maggiore imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle maggiori addizionali regionale e comunale versate sulle somme percepite da un fondo pensione complementare (Fondo scuola “Espero”) a seguito dell’esercizio, da parte di un dipendente pubblico, della facoltà di riscatto cosiddetto volontario. L’Agenzia delle entrate ritiene corretta l’applicazione della tassazione ordinaria, secondo l’aliquota progressiva applicabile al reddito complessivo, ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), t.u. imposte redditi, mentre la ricorrente sostiene la incostituzionalità di tale norma e la necessità di applicare il più favorevole trattamento previsto per i dipendenti privati dall’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005.

2.- Deve preliminarmente rilevarsi che non incide nel presente giudizio lo ius superveniens dell’art. 1, comma 156, della L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020). Tale disposizione ha previsto che “a decorrere dal 1 gennaio 2018, ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applicano le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e contributi versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, alla data di entrata in vigore della presente legge, risultano iscritti a forme pensionistiche complementari, le disposizioni concernenti la deducibilità dei contributi versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, sono applicabili a decorrere dal 1 gennaio 2018. Per i medesimi soggetti, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti”.

La norma citata, successiva all’ordinanza di rimessione, non ha effetti retroattivi e non è quindi applicabile al giudizio a quo, il quale ha ad oggetto un rapporto di previdenza complementare cessato nel 2014.

3.- Va, in primo luogo, rilevata la inammissibilità delle deduzioni svolte dalla parte costituita, ricorrente nel giudizio a quo, volte ad estendere il thema decidendum – quale definito nell’ordinanza di rimessione – “anche con riferimento al principio di non discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848“.

Si tratta di profili di illegittimità che il giudice a quo non ha fatto propri: per costante giurisprudenza di questa Corte “l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenza n. 194 del 2018)” (sentenza n. 7 del 2019).

4.- L’Avvocatura generale ha formulato due eccezioni di inammissibilità delle questioni.

4.1.- Con la prima, ha sostenuto che il giudice rimettente avrebbe dovuto censurare l’art. 1, comma 2, lettera p), della L. n. 243 del 2004, poiché il principio di delega da questo espresso costituirebbe il fondamento dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalità.

4.1.1.- L’eccezione non è fondata.

La citata norma della legge di delega ha indirizzato il legislatore delegato ad applicare gli stessi princìpi e criteri direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 1 anche al rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, pur subordinando tale applicazione alle “necessarie armonizzazioni”. Pertanto, il contenuto del criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che il legislatore delegante intendesse direttamente ottenere, all’esito dell’attuazione della delega, una differenziazione della disciplina tributaria applicabile alle prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura del rapporto di lavoro dell’aderente, tanto più che i principi e criteri relativi al regime tributario della previdenza complementare presentavano un contenuto generale e, peraltro, piuttosto circoscritto.

Risulta quindi priva di validità l’affermazione secondo cui la disposizione censurata troverebbe diretto fondamento nel menzionato criterio direttivo e non sussiste, pertanto, la eccepita inesatta indicazione della norma oggetto di censura che determinerebbe la inammissibilità della questione.

Correttamente il giudice a quo non ha esteso le questioni sollevate alla disposizione della legge delega poiché, come osservato nella memoria della parte privata, la situazione di irragionevolezza che egli lamenta non è conseguenza di tale previsione, quanto piuttosto dell’inattuazione, sullo specifico punto, della stessa disposizione.

4.2.- Con la seconda eccezione l’Avvocatura ha rilevato che l’ordinanza, pur chiedendo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, non avrebbe richiamato, neppure in estrema sintesi, l’intera disciplina dettata dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati, essendosi invece limitata a citare solo quella concernente la prestazione oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).

4.2.1.- Anche tale eccezione non è fondata.

Se è vero che l’ordinanza di rimessione, nel dispositivo, riferisce genericamente le questioni all’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, in forza del quale ai dipendenti pubblici resta applicabile la intera disciplina previgente, tuttavia nel suo contenuto motivazionale circoscrive precipuamente il dubbio di costituzionalità al combinato disposto del citato art. 23, comma 6, e dell’art. 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi. Quest’ultima lettera attiene specificamente al trattamento fiscale delle “prestazioni pensionistiche di cui alla lettera h-bis) del comma 1, dell’articolo 50, erogate in forma capitale a seguito di riscatto della posizione individuale ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, diverso da quello esercitato a seguito di pensionamento o di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti”.

Dall’insieme delle due disposizioni si ricava la norma che il rimettente dovrebbe applicare e sulla quale appunta le censure; così precisato l’oggetto delle questioni e del petitum, ne discende l’infondatezza della eccezione in esame: l’ordinanza richiama puntualmente la disciplina del trattamento tributario del riscatto contenuta nell’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005, di cui lamenta la irragionevole non applicazione ai dipendenti pubblici, e non doveva pertanto illustrare anche il regime tributario delle altre prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare, estranee all’oggetto del giudizio a quo.

5.- Le questioni sono fondate in relazione all’art. 3 Cost.

Il richiamato regime sostitutivo tributario del riscatto, previsto dal D.Lgs. n. 252 del 2005, ma solo per i dipendenti del settore privato, si inquadra nell’ambito di agevolazioni tributarie non strutturali, dirette, in questo caso, a incentivare lo sviluppo della previdenza complementare; non si configura quindi come una qualunque spesa fiscale, ma assume una specifica giustificazione costituzionale in virtù della sua connessione con l’attuazione del sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost., derivante dal “collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare” (sentenza n. 393 del 2000; nello stesso senso, ordinanza n. 319 del 2001).

Questa Corte si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni che, in nome del bilanciamento con altri principi costituzionali, prevedono, a fronte di una riconosciuta capacità contributiva (sentenza n. 159 del 1985), agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato, in via generale, che “norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)” (da ultimo, sentenza n. 264; nello stesso senso, sentenza n. 242 del 2017).

Nella fattispecie in esame, tuttavia, è palese che la ratio del beneficio riconosciuto a favore dei dipendenti privati – quella di favorire lo sviluppo della previdenza complementare, dando attuazione al sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost. – è identicamente ravvisabile anche nei confronti di quelli pubblici.

5.1.- Tanto dimostra la ricostruzione dell’evoluzione normativa.

Le forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, infatti, sono finalizzate ad assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, come enunciano sia l’art. 1 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v, della L. 23 ottobre 1992, n. 421) – decreto con cui il legislatore ha per la prima volta disciplinato in maniera organica la previdenza complementare nel nostro ordinamento -, sia l’art. 1 del D.Lgs. n. 252 del 2005, che oggi regola la medesima materia.

Tra i destinatari delle forme pensionistiche complementari vi sono in primo luogo i lavoratori dipendenti, sia privati, sia pubblici (art. 2, comma 1, lettera a, del D.Lgs. n. 252 del 2005); le modalità di partecipazione sono stabilite dalle fonti istitutive delle forme pensionistiche medesime, individuate principalmente nei contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e 2, del decreto citato).

Per quanto attiene al finanziamento delle forme pensionistiche, e con specifico riferimento a quelle istituite dalla contrattazione collettiva dei lavoratori dipendenti, esso può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando (art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 252 del 2005). Le fonti istitutive fissano le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore e “la percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento è totale” (art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 124 del 1993 citato). Quanto alle “forme pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del rapporto” (art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 124 del 1993 citato, che conferma quanto già previsto dall’art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 124 del 1993); ciò rappresenta un implicito richiamo all’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che riserva in via di principio alla contrattazione collettiva la materia dell’attribuzione di trattamenti economici.

5.2.- Il finanziamento della previdenza complementare dei dipendenti pubblici – con la costituzione dei primi fondi pensione negoziali per tali lavoratori – è divenuto concretamente operativo solo a distanza di tempo dall’approvazione del D.Lgs. n. 124 del 1993. Furono inizialmente di ostacolo l’assenza nel settore pubblico dell’istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneità delle indennità di fine rapporto variamente denominate, proprie di tale settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento delle forme pensionistiche complementari.

Seguendo un percorso graduale, con l’art. 2, comma 5, della L. 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), il legislatore ha dapprima assoggettato alle disposizioni sul TFR, contenute nell’art. 2120 del codice civile, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, dei lavoratori assunti dal 1 gennaio 1996 alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. In forza del comma 6 dello stesso L. 8 agosto 1995, n. 335 art. 2, alla contrattazione collettiva, nell’àmbito dei singoli comparti, è stata demandata la definizione delle modalità di attuazione di tali previsioni, “con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale”, anche ai fini della disciplina delle forme pensionistiche complementari. Il successivo comma 7 ha affidato alla contrattazione collettiva nazionale la definizione delle modalità per l’applicazione della disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori già occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura prevista dal suddetto comma 6.

Successivamente, l’art. 59, comma 56, della L. 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), al fine di favorire il processo di attuazione per i dipendenti pubblici delle disposizioni in materia di previdenza complementare, ha previsto “la possibilità di richiedere la trasformazione dell’indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota contributiva relativa all’indennità di fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza, pari all’1,5 per cento, verrà destinata a previdenza complementare nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori”. Tale misura incentivante è stata oggetto di una più specifica disciplina ad opera dell’art. 26, commi da 18 a 20, della L. 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).

Infine, il 29 luglio 1999 è stato stipulato un accordo quadro nazionale tra le organizzazioni sindacali più rappresentative e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) successivamente recepito dal D.P.C.M. 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti).

Ai fini che qui rilevano, il D.P.C.M. 20 dicembre 1999, come modificato dal successivo D.P.C.M. 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti), ha previsto che in fase di prima attuazione i dipendenti esercitanti l’opzione di cui all’art. 59, comma 56, della L. n. 449 del 1997 possano destinare ai fondi pensione una quota di TFR non superiore al 2 per cento della retribuzione base di riferimento per il calcolo del TFR (art. 2, comma 1). Invece, per il personale assunto successivamente al 31 dicembre 2000, soggetto alle regole concessive e di computo di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), in caso di iscrizione al fondo pensione è stata prevista “la integrale destinazione al fondo stesso degli accantonamenti al trattamento di fine rapporto” (art. 2, comma 2).

Il D.P.C.M. 20 dicembre 1999, all’art. 1, comma 6, ha anche previsto in via generale che il TFR debba essere accantonato figurativamente e liquidato dall’Istituto nazionale di previdenza delle amministrazioni pubbliche (INPDAP, oggi dall’Istituto nazionale di previdenza sociale-INPS) alla cessazione dal servizio del lavoratore secondo quanto disposto dalla L. n. 297 del 1982. In caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo pensione, l’art. 2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del rapporto di lavoro l’INPDAP conferisca al fondo di riferimento il montante maturato, costituito dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonché di quelli relativi all’aliquota dell’1,5 per cento riconosciuta a chi abbia esercitato l’opzione sopra menzionata. A entrambi gli accantonamenti va applicato il tasso di rendimento netto conseguito dal fondo di adesione, salva, in via transitoria, per il periodo di consolidamento della struttura finanziaria dei fondi pensione dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’applicazione di un tasso corrispondente alla media dei rendimenti netti di un “paniere” di fondi presenti sul mercato.

5.3.- Sulla base della disciplina sopra ripercorsa, il finanziamento delle forme pensionistiche complementari negoziali per i lavoratori sia privati sia pubblici si realizza, dunque, mediante contribuzioni a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro e mediante il conferimento del TFR maturando che, insieme, formano la posizione individuale dell’aderente.

5.4.- Va precisato che, per i dipendenti pubblici, il TFR non viene periodicamente trasferito al fondo, ma entra nella disponibilità dello stesso al termine del rapporto di lavoro dell’aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento descritto.

Tale differenza di disciplina non influisce però sulle odierne questioni di costituzionalità: queste, infatti, riguardano precipuamente il trattamento tributario di una prestazione di previdenza complementare a favore dei lavoratori pubblici, prospettato come penalizzante rispetto a quello della stessa prestazione erogata ai lavoratori privati. In questi termini, specificamente inerenti alla materia fiscale, non viene logicamente in considerazione quanto questa Corte ha avuto cura di precisare ad altro riguardo, ovvero che “il lavoro pubblico e il lavoro privato “non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e che le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto)” (sentenza n. 159 del 2019).

5.5.- Per quanto attiene specificamente all’istituto del riscatto, il D.Lgs. n. 124 del 1993 dispone all’art. 10, comma 1, che “ove vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 ossia i fondi pensione aperti; c) il riscatto della posizione individuale”. Il comma 3-ter prevede che, in caso di morte del lavoratore iscritto al fondo pensione prima del pensionamento per vecchiaia, la posizione individuale dello stesso “è riscattata dal coniuge ovvero dai figli ovvero, se già viventi a carico dell’iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti o di diverse disposizioni del lavoratore iscritto al fondo la posizione resta acquisita al fondo pensione”.

Pertanto, se non decida di aderire a un altro fondo pensione trasferendovi la posizione individuale, esercitando il riscatto il lavoratore riceverà l’ammontare della posizione individuale maturata nel periodo di adesione al fondo, costituita dai contributi versati da lui stesso e dal datore di lavoro nonché dal TFR destinato al fondo, e tenuto conto dei risultati della gestione finanziaria svolta.

5.6.- Il trattamento tributario di tale provento, inizialmente disciplinato in modo uniforme – come peraltro rileva la stessa difesa erariale – per i dipendenti pubblici e privati dal testo unico delle imposte sui redditi, risponde ad alcuni principi con cui il legislatore ha informato la materia: la deducibilità dal reddito imponibile dei contributi destinati alla previdenza complementare, entro un determinato importo; la esclusione del TFR trasferito alle forme di previdenza complementare dal reddito da lavoro dipendente imponibile dell’anno in cui è maturato; la tassazione dei rendimenti della gestione finanziaria del fondo pensione direttamente in capo a questo, con conseguente esenzione di tale componente reddituale dall’imponibile della prestazione erogata all’aderente.

La disciplina tributaria originariamente prevista per il riscatto della posizione di previdenza complementare sanciva, quindi, l’assimilazione di tale reddito a quelli di lavoro dipendente, così come in via generale per tutte le “prestazioni pensionistiche di cui al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, comunque erogate” (art. 50, comma 1, lettera h-bis, t.u. imposte redditi). Lo specifico criterio di tassazione del riscatto dipendeva dalla sua causale e le somme erogate erano considerate imponibili al netto dei redditi già assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1, e 52, comma 1, lettera d-ter, t.u. imposte redditi), ossia dei contributi destinati a previdenza complementare non in precedenza dedotti dal lavoratore e dei rendimenti conseguiti durante la gestione (sottoposti a tassazione in capo al fondo pensione).

6.- È solo con il D.Lgs. n. 252 del 2005 che i regimi tributari del riscatto si differenziano.

Quest’ultimo, infatti, modificando la disciplina della previdenza complementare, ha mantenuto all’art. 14 la previsione generale secondo cui, ove vengano meno i requisiti di partecipazione alle forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle stesse devono consentire il riscatto, in alternativa al trasferimento della posizione ad altra forma pensionistica.

Il trattamento fiscale del riscatto, non più contenuto nel t.u. imposte redditi, è stato disciplinato dal medesimo D.Lgs. n. 252 del 2005: artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.

Il regime impositivo introdotto dal D.Lgs. n. 252 del 2005 prevede che la prestazione erogata dal fondo pensione venga tassata con una ritenuta a titolo d’imposta e, quindi, in maniera distinta rispetto agli altri redditi del percipiente e senza concorrere a determinarne il reddito complessivo.

Tuttavia, tale regime, come rilevato dal giudice rimettente, non si applica a tutti gli aderenti a forme pensionistiche complementari.

Infatti, se per un verso l’art. 21, comma 8, del D.Lgs. n. 252 del 2005 ha, in via generale, abrogato il D.Lgs. n. 124 del 1993, per altro verso, il censurato successivo art. 23, comma 6, ha disposto che “fino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della L. 23 agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente normativa”.

Con quest’ultima disposizione il legislatore delegato – prendendo atto della ormai sopraggiunta scadenza del termine di attuazione della delega contenuta nella menzionata lettera p) dell’art. 1, comma 2, della L. n. 243 del 2004 – ha quindi esplicitato che ai dipendenti pubblici dovesse applicarsi esclusivamente e integralmente la previgente normativa.

La individuazione della specifica disciplina applicabile avviene, quindi, in ragione della natura del rapporto di lavoro dell’aderente a una forma di previdenza complementare e, precisamente, a seconda che egli dipenda da un’amministrazione pubblica o da un datore di lavoro privato.

Dal 1 gennaio 2007, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252 del 2005, per effetto della mancata attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettera p), della L. n. 243 del 2004, si è dunque originata una distinzione di disciplina con riferimento a vari istituti della previdenza complementare, tra cui il riscatto di una posizione individuale e il connesso regime tributario.

Qui non è in questione l’esercizio incompleto della delega, che non comporterebbe di per sé violazione degli articoli 76 e 77 Cost., ove non determinasse “uno stravolgimento della legge di delegazione” (sentenza n. 149 del 2005 e ordinanza n. 283 del 2013). La fattispecie in esame, infatti, è esclusivamente l’effetto riflesso della parziale attuazione della delega, che ha condotto al risultato normativo di discriminare due fattispecie caratterizzate da una sostanziale omogeneità, con violazione del principio dell’eguaglianza tributaria e una conseguente incidenza sul contesto sociale.

7.- La ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che non sono individuabili elementi che giustifichino ragionevolmente una disomogeneità del trattamento fiscale agevolativo. Tale conclusione trova, peraltro, conferma nella stessa evoluzione legislativa che ha sempre mantenuto equiparate le due posizioni, salva l’eccezione – concretizzatasi nella normativa del D.Lgs. n. 252 del 2005 – derivante dalla parentesi dovuta alla mancata attuazione di una parte della legge delega n. 243 del 2004. È inoltre significativo che lo stesso legislatore, con l’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017, abbia successivamente provveduto – pur con l’eccezione dei montanti delle prestazioni accumulate fino al 1 gennaio 2018 – a ristabilire una situazione di omogeneità di trattamento.

8.- A un diverso esito non possono condurre le argomentazioni dell’Avvocatura generale.

8.1.- Sotto un primo profilo, non sono conferenti il richiamo alla stabilità del rapporto di lavoro pubblico e al maggiore importo dei trattamenti pensionistici obbligatori percepiti dai dipendenti pubblici; e ciò in disparte l’assenza di un’adeguata dimostrazione di questa specifica affermazione.

Né l’uno né l’altro dei due caratteri sono, in ogni caso, in grado di offrire una valida ragione a sostegno della ragionevolezza della duplice disciplina del trattamento tributario del riscatto, quale prestazione pensionistica complementare: sia che venga percepita da un dipendente privato, sia che venga percepita da un dipendente pubblico. In entrambi i casi, infatti, la prestazione sottoposta a tassazione è composta da contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e dal TFR maturato nel periodo di adesione al fondo.

A fronte di tale dato, se si può affermare che la durata del rapporto di lavoro (specialmente ove a tempo indeterminato) e le garanzie di stabilità influiscono sul complessivo funzionamento della previdenza complementare per i lavoratori dipendenti, basato sulla continuità dei conferimenti e sulla durata della gestione a capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare un valido criterio di differenziazione dei lavoratori quali soggetti passivi del rapporto tributario. Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro non è carattere indefettibile ed esclusivo del settore pubblico; peraltro la disciplina tributaria rimane diversa anche quando l’aderente sia un dipendente pubblico assunto a tempo determinato.

Quanto all’entità del trattamento pensionistico riconosciuto dal sistema di previdenza obbligatorio, l’argomento dell’Avvocatura sembra fare riferimento al più favorevole criterio di determinazione della pensione secondo il sistema retributivo; si tratta, però, di una prospettiva fallace perché i dipendenti pubblici che possono aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin dall’inizio del loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime di TFR, sia il nuovo sistema di calcolo contributivo delle pensioni, introdotto dalla L. n. 335 del 1995, al pari dei dipendenti privati. Venendo in rilievo per entrambe le categorie di lavoratori il medesimo criterio di quantificazione del trattamento pensionistico obbligatorio, cade il presupposto su cui dovrebbe poggiarsi la giustificazione del differente trattamento tributario delle prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura pubblica o privata del rapporto di lavoro dell’aderente.

8.2.- Sotto un secondo profilo, ad avviso dell’Avvocatura la non irragionevolezza della scelta del legislatore delegato deriverebbe dalle vicende che hanno portato alla progressiva estensione al settore pubblico del TFR, partendo dalla diversa disciplina ed entità del trattamento di fine servizio (TFS), e dalla differente modalità di accantonamento del TFR stesso.

Anche tale approccio non coglie la specificità delle questioni sollevate: il tempo occorso per introdurre il TFR nel settore dell’impiego pubblico ha condotto alla disciplina contenuta nei D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e 2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto costituire un “punto di equilibrio individuato dal legislatore e dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole” tra lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di TFS, all’esito di un “laborioso processo di armonizzazione e della necessaria gradualità che lo ha governato” (sentenza n. 213 del 2018). Ciò premesso, la conseguita possibilità per i lavoratori pubblici di accedere alla previdenza complementare, con la ulteriore significativa incentivazione a favore di quelli che, ancora in regime di TFS, ritengano più conveniente l’opzione per il TFR, esclude che i profili evidenziati dalla difesa dello Stato possano tuttora assumere rilievo quali indici della legittima differenziazione del suddetto trattamento tributario.

Con particolare riguardo al meccanismo di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici, se questo – per esigenze di contenimento delle risorse pubbliche – implica una temporanea “sottrazione” di fonti di finanziamento che i fondi pensione potrebbero altrimenti gestire direttamente, la sua disciplina non influisce però sulla quantificazione della posizione individuale maturata dall’aderente. Infatti, come illustrato (supra, punto 5.2.), ferma rimanendo la destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa anche al TFR fin dall’adesione al fondo pensione, al momento della cessazione del rapporto di lavoro pubblico l’istituto gestore (oggi l’INPS) trasferisce al fondo il montante del TFR maturato, applicandovi lo stesso tasso di rendimento conseguito dal fondo nella gestione dell’altra componente della posizione individuale, costituita dai contributi periodici.

Pertanto l’aderente che, al venir meno dei requisiti di partecipazione al fondo, eserciti il riscatto della posizione individuale maturata, vedrà quest’ultima calcolata allo stesso modo, sia se dipendente pubblico, sia se dipendente privato.

In conclusione, la peculiare modalità di gestione del TFR pubblico, mediante un accantonamento virtuale in costanza di rapporto di lavoro, non è idonea a differenziare dal punto di vista funzionale la posizione individuale maturata in un fondo pensione da un dipendente pubblico rispetto a quella maturata da un dipendente privato e, di conseguenza, a giustificare un differente regime tributario del riscatto della posizione medesima.

9.- Per le esposte considerazioni, la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui assoggetta ad imposta il riscatto della posizione individuale ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. n. 917 del 1986, anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, del D.Lgs. n. 252 del 2005. Risulta pertanto assorbita la censura relativa all’art. 53 Cost.

Non appare necessario estendere, come invece richiesto dalla parte privata, la dichiarazione di incostituzionalità anche al terzo periodo dell’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017, con cui il legislatore ha disciplinato anche i rapporti di previdenza complementare in corso a quella data; la tecnica normativa utilizzata, basata su un rinvio alle “disposizioni previgenti”, è infatti di per sé idonea, all’esito del presente giudizio, a rendere applicabile l’art. 14, commi 4 e 5, del D.Lgs. n. 252 del 2005, anche ai montanti delle prestazioni accumulate fino al 1 gennaio 2018 e successivamente oggetto di riscatto.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), nella parte in cui prevede che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato a imposta ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso D.Lgs. n. 252 del 2005.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.

Pubblica Amministrazione, Digitalizzazione, Smart Working – temi che interessano i quadri

Pubblico Impiego, digitalizzazione, Smart Woking – temi che interessano i profili apicali quadri e alte professionalità nell’ambito del pubblico impiego

CNEL
Conferenza conclusiva del progetto internazionale “Improving work-life balance: opportunities and risks coming from digitalization”
Segnalazione da U.O. Studi e analisi compatibilità
Il Presidente del CNEL prof. Tiziano Treu, alla presenza del Ministro della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone ha presenziato la conferenza finale del progetto europeo “Improving work-life balance: opportunities and risks coming from digitalization”, del Comitato Settoriale Europeo sul Dialogo Sociale per le Amministrazioni Pubbliche Centrali. I lavori del Comitato, coordinato dal dr. Valerio Talamo, Direttore generale dell’Ufficio relazioni sindacali del Dipartimento della funzione pubblica, si sono tradotti nel rapporto finale in cui si analizzano opportunità’ e rischi che si manifestano con l’introduzione delle nuove modalità’ di lavoro nelle pubbliche amministrazioni generate dalla rivoluzione digitale in corso. “La ricerca comparata presentata in Parlamentino costituisce un momento rilevante perché il CNEL è impegnato su questo fronte. I nostri Rapporti sul Mercato del Lavoro includono anche il pubblico impiego. Per questo, forniremo al ministro una serie di contratti collettivi che sono interessanti perché integrano la norma di legge, in modo da rendere lo smart working non solo utile ma anche sostenibile umanamente”, ha affermato, concludendo il Presidente Treu. Il Ministro Dadone ha quindi ribadito che “Bisogna incoraggiare la svolta verso una visione del lavoro che sostituisca l’idea dello scambio tra presenza fisica e salario con quella dell’obiettivo e della responsabilità…… La tecnologia in questo può essere decisiva. Tutte le ricerche dimostrano che forme di smart working e lavoro agile accrescono la soddisfazione professionale, il senso di appartenenza e, dunque, il rendimento, la produttività del lavoro”.

Si può privare il Segretario Comunale delle funzioni prima della scadenza del mandato?

Cassazione civile Sezione  Lavoro, Sentenza  02-08-2019, n. 20842

Segretario Comunale privazione dell’incarico prima della scadenza del medesimo – diritto alla reintegra insussistenza – diritto al risarcimento del danno sussiste in presenza di adeguati elementi probatori.

La Corte di Cassazione con la recente sentenza di seguito trascritta svolge tutta una serie di considerazioni in merito alla peculiarità del rapporto di lavoro dei segretari comunali.

In forza di tale specialità e del rapporto strettamente fiduciario che lega il segretario al vertice dell’amministrazione, la Corte ritiene che la professionalità del segretario comunale debba trovare tutela nell’ambito del rapporto temporale che lo lega all’amministrazione e che nel caso di privazione delle funzioni questi non possa chiedere la reintegra nelle funzioni , ma esclusivamente nel danno la cui prova non è in re ipsa, ma deve essere oggetto di dimostrazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2019, n. 20842

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25859-2014 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CALARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLTIERE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato YVONNE MESSI;

– MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 252/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 03/06/2014 R.G.N. 395/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato NORBERTO MANENTI per delega Avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

udito l’Avvocato GOFFREDO GOBBI.

Svolgimento del processo

1. F.M., nominata segretario comunale del Comune di Boltiere in data 26 febbraio 2005, si vedeva revocare tale incarico in data 12 settembre 2006, ben prima della sua naturale scadenza (2009), per violazione dei doveri d’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 100, del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 15 e dell’art. 18 del c.c.n.l. di categoria.

Con ricorso al Tribunale di Brescia, proposto nei confronti del Comune di Boltiere e del Ministero dell’Interno, la F. impugnava detta revoca chiedendo la reintegrazione nelle funzioni, il pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore ed il risarcimento degli ulteriori danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per effetto della revoca illegittima.

2. Il Tribunale annullava il provvedimento di revoca, respingeva la domanda di reintegrazione e accoglieva solo parzialmente quella risarcitoria (riconoscendo un quantum di danno patrimoniale ridotto rispetto a quello preteso e, quanto al profilo non patrimoniale, attribuendo il danno solo in relazione al pregiudizio all’integrità psico-fisica).

3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Brescia.

La Corte territoriale dichiarava preliminarmente l’inammissibilità dell’appello notificato anche al Ministero dell’Interno senza che vi fossero censure nella parte in cui il giudice di primo grado aveva espressamente escluso ogni responsabilità in capo all’Agenzia Autonoma, assolvendola da ogni pronuncia di condanna.

Quindi rigettava l’impugnazione incidentale del Comune di Boltiere ritenendo che l’insussistenza dei presupposti per la revoca emergesse da una serie di significativi e concordanti elementi.

Quanto all’appello della F., riteneva infondata la pretesa volta ad ottenere la reintegra considerando che la Giunta Municipale era decaduta in data 7/6/2009 e che si trattava di nomina di durata corrispondente a quella del mandato del Sindaco.

Rilevava che l’appellante avesse configurato il danno alla professionalità in dipendenza della sola privazione delle mansioni di segretario comunale e che fossero mancate deduzioni di circostanze concrete atte a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile. Precisava, al riguardo, che il segretario comunale revocato o comunque privo di incarico è posto a disposizione dell’Agenzia autonoma per le attività dell’Agenzia stessa nonchè per incarichi di supplenza o di reggenza ovvero per altre funzioni ed evidenziava che le circostanze che la F. non avesse rivestito più incarichi di segretario comunale, salvo alcune supplenze o reggenze, e fosse stata poi posta in mobilità e infine transitata presso la Prefettura di Bergamo, con cancellazione dall’Albo dei Segretari comunali, non costituissero conseguenza immediata e diretta della perdita dell’incarico o comunque non costituissero prova del verificarsi in concreto di un danno alla professionalità. Sottolineava che anche il mancato conferimento di convenzioni con altri Comuni fosse dipeso da decisioni che involgevano esclusivamente la responsabilità dei Comuni medesimi.

Quanto alle altre voci di danno esistenziale riteneva che la modestissima percentuale di danno biologico accertata (4-5%) non consentisse, in assenza di specifiche deduzioni di ritenere provato che la revoca avesse comportato anche un radicale peggioramento a titolo definitivo delle abitudini di vita della lavoratrice.

Escludeva la fondatezza delle rivendicazioni relative alla retribuzione di risultato ed alla maggiorazione della retribuzione di posizione essendo mancata, quanto alla prima di dette voci, la prova che qualora l’incarico non fosse stato revocato gli obiettivi sarebbero stati raggiunti, non potendo identificarsi l’elevata probabilità del raggiungimento con l’accertata assenza di una violazione dei doveri d’ufficio a base delle revoca e rilevando, quanto alla maggiorazione della retribuzione di posizione, che non avesse l’appellante dimostrato la sussistenza delle condizioni per l’attribuzione nella misura massima richiesta (e cioè l’esistenza di risorse disponibili e le capacità generali) dovendo altresì essere escluso che nel corso del rapporto tale maggiorazione fosse stata già corrisposta nella misura rivendicata.

Quantificava le differenze spettanti a titolo di danno patrimoniale in Euro 41.896,32 e riteneva nuova la questione, posta dall’appellante, del mantenimento del trattamento in godimento non solo fino alla scadenza dell’incarico ma anche per il biennio successivo.

4. Per la cassazione della sentenza F.M. ha proposto ricorso sulla base di sette motivi ai quali hanno opposto difese il Comune di Boltiere e il Ministero dell’Interno.

5. Il Comune di Boltiere ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 342, 348 bis, 348 ter, 434, 436 bis e 437 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello nei confronti del Ministero dell’Interno.

Rileva che nella sentenza di primo grado l’estraneità del Ministero era stata affermata solo in relazione alla condanna al risarcimento del danno mentre tale Ministero era stato evocato in giudizio in appello in relazione alla domanda di reintegrazione poichè senza la presenza in giudizio di tale Ministero ogni statuizione di reintegrazione rivolta al solo Comune di Boltiere sarebbe risultata di difficile, se non impossibile, esecuzione concreta.

2. Il motivo è infondato.

La pronuncia di inammissibilità della Corte d’appello è stata effettuata in via preliminare con riguardo alla posizione del Ministero come delineata in causa dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio ed intesa come limitata alla sola condanna al risarcimento.

Riguardo a tale affermazione, che appare del tutto in linea con le stesse conclusioni di cui al ricorso di primo grado come riportate nella stessa sentenza impugnata (“….ha convenuto in giudizio il Comune di Boltiere e l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali… chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di revoca, con condanna del Comune alla reintegrazione nell’incarico e di entrambe le parti convenute al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti per effetto della revoca”), la ricorrente oppone che l’appello nei confronti del Ministero si sarebbe reso necessario in relazione alle contestazioni concernenti il rigetto della domanda di reintegrazione.

Tuttavia non risulta che già in primo grado la F. avesse avanzato anche domanda di reintegrazione nei confronti dell’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali e sul punto il motivo di ricorso è assolutamente privo di specificità, non riportando il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio. Nè vale a superare la suddetta carenza la circostanza che la cancellazione dall’Albo sarebbe sopravvenuta rispetto al maturare delle preclusioni nel giudizio di primo grado e che perciò in sede di appello si sarebbe reso necessario richiedere la reintegrazione anche nei confronti dell’Agenzia (v. pag. 6 del ricorso per cassazione), trattandosi, evidentemente, di un ampliamento del thema decidendum non consentito in sede di gravame.

E’ comunque opportuno ricordare che la disciplina del rapporto di lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15 maggio 2012, n. 7510) che ha delineato i seguenti principi:

a) il rapporto di impiego di questi dipendenti è sempre stato caratterizzato dalla non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20 giugno 2007, n. 14288); con l’importante riforma del relativo ordinamento introdotta dalla L. n. 127 del 1997 e dal D.P.R. n. 465 del 1997 (le cui norme sono state, poi, trasfuse nel D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, contenente il regime definitivo), l’amministrazione datrice di lavoro dei segretari è diventata l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, avente personalità giuridica di diritto pubblico (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 102, oggi abrogato a seguito dell’intervenuta soppressione dell’Agenzia per effetto del D.L. n. 78 del 2010, convertito con L. n. 122 del 2010);

b) è rimasta confermata la peculiarità della non coincidenza – di regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con utilizzazione diretta da parte dell’Agenzia, ai sensi del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 7, comma 1, – dell’amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);

c) in ragione di tale distinzione, nelle controversie giudiziarie relative al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con la predetta Agenzia (v. Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 11 agosto 2016, n. 17065);

d) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro del segretario comunale, compresi quelli posti in essere dall’amministrazione locale nell’ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la revoca dall’incarico ai sensi della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 71), rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro (così Cass., Sez. Un., 24 maggio 2006 n. 12224);

e) la non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria parte, siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e che l’inadempimento di ciascuna di tali proprie e specifiche obbligazioni generi l’obbligazione risarcitoria di cui all’art. 1218 c.c. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è da riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che appartiene alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le capacità e i poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677; Cass. 3 marzo 2012, n. 3419).

Quindi, nella specie, se legittimamente era stata proposta anche nei confronti dell’Agenzia una domanda risarcitoria, la mancata impugnazione da parte della F. della sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva escluso ogni responsabilità dell’Agenzia in relazione ai danni patiti dalla ricorrente aveva processualmente definito la posizione del Ministero dell’Interno (subentrato all’Agenzia) senza che fatti sopravvenuti potessero in qualche modo rimetterla in discussione.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99 dell’art. 100 medesimo D.Lgs., della L. n. 300 del 1980, art. 18, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, dell’art. 2058 c.c. tutti letti e interpretati anche alla luce dell’art. 97 Cost., comma 2, in relazione al rigetto della domanda di reintegrazione.

Rileva che l’ordinamento di settore in caso di revoca della nomina prevede la reintegrazione e richiama al riguardo Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2007, n. 2233.

Sostiene che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, tra cessazione del mandato sindacale e cessazione dell’incarico non vi è alcun automatismo, ma solo la possibilità offerta al sindaco subentrante di nominare un nuovo e diverso segretario decorso il termine di sessanta giorni dall’insediamento ed entro il termine di 120 giorni, spirato il quale l’incarico si intende confermato.

4. Il motivo è infondato.

Va innanzitutto ricordato che la dipendenza funzionale del segretario dall’organo di vertice dell’ente locale (competente per la nomina e la revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato dall’elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall’incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del nuovo segretario (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99, comma 2). La nomina è disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A tal fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo del segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell’art. 11, e ne chiede l’assegnazione al competente consiglio di amministrazione dell’Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.

Quanto al procedimento di nomina del segretario comunale o provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di quello di revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in essere dall’ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25960; Cass. 15 maggio 2012, n. 7510; Cass. 9 febbraio 2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20 giugno 2005, n. 16876; Cass., Sez. Un., 12 agosto 2005, n. 166876).

La natura fiduciaria dell’incarico, che termina con la scadenza dell’organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in particolare, affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla varietà dei compiti di collaborazione e di assistenza giuridico – amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 2) nonchè alle funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 4, lett. a) – v. Cass. 23 agosto 2008, n. 12403; Cass. 1 luglio 2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del 22 febbraio 2019 -.

Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite con la legislazione successiva: in particolare, con la L. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), nonchè con il D.Lgs. n. 33 del 2013 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) che attribuiscono al segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di responsabile della trasparenza.

Nè, in ragione di detta fiduciarietà, che evidentemente non si esaurisce con l’atto di nomina, può dirsi che sussista un diritto soggettivo alla riconferma.

Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, restando iscritto all’Albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi.

La legge è chiara nello stabilire che il segretario decade “automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato del sindaco”, tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell’azione amministrativa.

Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa reintegratoria del ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile (per l’analoga fiduciarietà che caratterizza l’affidamento dell’incarico dirigenziale) il principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento alla revoca dell’incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della giusta causa per il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame, comprenderebbe anche quello dell’automatica obbligatoria prosecuzione in attesa di eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la stessa non è decisiva perchè sconta la circostanza, pacifica agli atti, che la F. a far data dal 3/1/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di primo grado) prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era stata cancellata dall’Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per cassazione). Dunque aveva perso uno dei requisiti necessari perchè si potesse ricostituire il rapporto.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 9799100 e 101 del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno alla professionalità.

Sostiene che la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla professionalità.

6. Il motivo è infondato.

Se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza di questa S.C. – essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572).

Il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre 2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (così Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214).

In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18 agosto 2016, n. 17163).

Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che la F. si fosse limitata a prospettare un danno in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al giudicante i parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.

Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in modo inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.

Nè del resto è sostenibile che la perdita dell’incarico, proprio per il peculiare funzionamento e per la dinamica professionale del segretario comunale, possa identificare un fatto ex se generatore di un danno alla professionalità.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al rigetto della domanda di danno esistenziale.

8. Il motivo è infondato.

Anche in questo caso a fronte di specifiche argomentazioni del giudice a quo (il quale ha ritenuto che la modestissima percentuale di danno biologico derivata – 4-5% – non fosse consentito, in assenza di specifiche deduzioni che la revoca avesse comportato un radicale peggioramento a titolo definivo delle abitudini di vita della lavoratrice) la ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge – allega un’erronea ricognizione, da parte della Corte territoriale, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo prettamente alla valutazione del giudice di merito.

Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto (dall’art. 360 c.p.c., n. 5), quando il fatto, storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

E nel caso di specie il fatto storico rappresentato dall’entità del danno è stato preso in considerazione dalla sentenza, alle pp. 6 e 7.

Le censure sollevate dall’odierna ricorrente tendono piuttosto a negare la congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa, ma una simile impostazione critica appare con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie ma ciò non è conforme alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 41 del c.c.n.l. di categoria, dell’art. 1 del c.c.n.l. decentrato integrativo, dell’art. 2697 c.c. alla luce dell’art. 24 Cost. e del principio di riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova, degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione e rileva che tale emolumento è solo correlato alle condizioni oggettive e soggettive, al cui esistere se ne determina l’insorgenza.

10. Il motivo è infondato.

L’art. 41 del c.c.n.l. fa riferimento anche ad ulteriori condizioni che devono ricorrere affinchè la maggiorazione possa essere pretesa dal segretario, giacchè la disposizione è chiara innanzitutto nel prevedere che i criteri ed i parametri delle maggiorazioni devono essere stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa nazionale, ed inoltre nel fissare il limite delle risorse disponibili e del rispetto delle capacità di spesa.

E’ evidente, pertanto, che detti limiti rilevano nella predeterminazione complessiva della spesa del personale, nel senso che l’ente, il quale è anche chiamato ad individuare la indennità di posizione spettante al dirigente o al personale dipendente titolare di posizione organizzativa, dovrà tener conto del principio della tendenziale equiparazione stabilito dal comma 5 della medesima disposizione (e cioè che la retribuzione di posizione del segretario non sia inferiore a quella stabilita per la funzione dirigenziale più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa).

Ove, però, ciò non avvenga la disposizione contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo ad una equiparazione che prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse, perchè ciò equivarrebbe a legittimare spese non compatibili con le capacità dell’ente territoriale (v. Cass. 6 ottobre 2016, n. 20065).

Peraltro, ai sensi dell’art. 1 del c.c.i. nazionale, la maggiorazione della retribuzione di posizione cui all’art. 41 del c.c.n.l. spetta solo in presenza di condizioni oggettive (riferite all’Ente ed alla sua complessità organizzativa – in funzione del numero delle Aree o Settori presenti nell’Ente, della funzione di sovraintendenza e coordinamento di dirigenti o responsabili di servizio, laddove non siano state conferite, all’interno o all’esterno, le funzioni di direzione generale -, funzionale – presenza di particolari uffici o di particolari forme di gestione dei servizi – ed a ragioni di disagio ambientale – sedi di alta montagna, estrema carenza di organico, situazioni anche transitorie di calamità naturale o difficoltà socioeconomiche – e soggettive (in ragione di incarichi speciali di responsabilità di singoli servizi affidati al segretario).

La Corte territoriale, dopo aver fatto puntuale riferimento alle condizioni legittimanti l’erogazione della maggiorazione in questione, ha correttamente ritenuto (con valutazione che supera la questione dell’operatività in concreto degli oneri probatori) che dal complesso del materiale probatorio a sua disposizione non fosse emerso che l’indennità predetta era stata corrisposta alla F. nel periodo di svolgimento dell’incarico di segretario e che pertanto non sussistessero elementi di prova, pur presuntiva, a sostegno della pretesa.

11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della voce retribuzione di risultato evidenziando che il giudice di appello ben avrebbe potuto far ricorso al ragionamento presuntivo in dipendenza del fatto che nel periodo di vigenza dell’incarico la F. lo aveva sempre svolto al meglio.

12. Il motivo è infondato.

Le deduzioni dell’odierno ricorrente in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (“la lavoratrice non ha allegato alcunchè da cui desumere la possibilità di ottenimento dei risultati, nè risulta che abbia mai percepito la retribuzione di risultato”).

Del resto, quando si imputi al giudice di merito, in mancanza di una presa di posizione nella motivazione da esso resa, di non avere applicato un ragionamento presuntivo che la situazione delle emergenze fattuali probatorie emersa nel giudizio avrebbe invece giustificato, si è del tutto al di fuori della logica della c.d. falsa applicazione dell’art. 2729 c.c..

In tal caso, infatti, quello che si imputa al giudice è l’omesso esame della situazione fattuale, cioè del fatto noto o dei fatti noti, che, se fossero stati considerati, avrebbero dovuto condurre alla conoscenza di un fatto ignoto e, dunque, anch’esso ignorato nella motivazione.

Si ricade, quindi, nell’ipotesi che le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 8053/2014, nello scrutinare il significato dell’espressione fatto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 hanno individuato come omesso esame di un fatto secondario.

13. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 437 c.p.c. e conseguente omessa pronuncia in relazione all’art. 112 c.p.c..

Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto nuova la domanda relativa alla corresponsione delle retribuzioni nei due anni successivi alla scadenza dell’incarico rispetto a quanto dalla medesima percepito nel periodo di disponibilità, essendo questa da considerarsi inclusa nella domanda di risarcimento del danno maturato e maturando ritualmente avanzata.

14. Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale non ha omesso alcuna pronuncia ma ha ritenuto che la voce di danno prospettata dalla ricorrente solo in grado di appello integrasse una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437 c.p.c., fondata sui diritti riconosciuti al segretario revocato durante il periodo di disponibilità.

Ha, inoltre, evidenziato che si trattava anche di danno del tutto eventuale che poteva ricorrere solo se nel corso della disponibilità non fossero stati affidati altri incarichi e che in ogni caso in ordine allo stesso non si era mai svolto alcun contraddittorio.

Se è vero che la certezza che deve sussistere per rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza il danno presente, tuttavia questa Corte ha affermato che per ritenere tale danno sussistente non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro, essendo invece sufficiente la rilevante probabilità che esso si verifichi.

Tale rilevante probabilità di conseguenze pregiudizievoli è configurabile come danno futuro immediatamente risarcibile solo qualora l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (v. Cass. 27 aprile 2010, n. 10072).

Il motivo di ricorso non consente di ritenere che una richiesta di danno futuro sulla base di fatti sintomatici della probabilità di verifica dello stesso fosse stata ritualmente dedotta sin dal ricorso di primo grado.

15. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

16. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

17. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio che liquida, in quanto al Comune di Boltiere, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% e, quanto al Ministero dell’Interno, in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre sperse prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2019

PUBBLICO IMPIEGO PERMESSI PER PARTECIPARE AD ATTIVITA’ SELETTIVE INTERNE.

Pubblico Impiego – CCNL Funzioni Centrali – articolo 31 , assenza per procedure selettive interne nell’ambito della mobilità.

È stato formulato un quesito per conoscere se i permessi retribuiti per la partecipazione a concorsi o esami di cui all’art. 31, comma 1, lett. a), del CCNL Funzioni centrali del 12/2/2018 sia applicabile anche ai dipendenti che ne facciano richiesta per lo svolgimento di prove selettive nell’ambito di procedure di mobilità o propedeutiche all’attivazione di comandi.

Il parere dell’ARAN nega possa essere effettuata una simile estensione, in quanto simili procedure non possono essere riportate

Al riguardo, afferma l’Agenzia, appare opportuno sottolineare che la natura delle procedure che gli enti attivano a vantaggio del solo personale già in servizio nella pubblica amministrazione, al fine di selezionare quanti siano interessati ad un passaggio – temporaneo o definitivo – nei propri organici, non appare assimilabile a quella delle procedure selettive di tipo concorsuale né ad un esame.

Si ritiene, pertanto, che l’esigenza di assentarsi per svolgere un colloquio o una prova di idoneità in relazione ad una procedura finalizzata all’attivazione di un comando o di una mobilità non rientri tra quelle che il CCNL sottoscritto il 12/2/2018 ha inteso tutelare con l’istituto di cui all’art. 31, comma 1, lett. a). La fattispecie può comunque essere ricondotta a quella del permesso retribuito per motivi personali ai sensi dell’art. 32 del richiamato CCNL.

Pubblico impiego area quadri.

PUBBLICO IMPIEGO

Dipendente di categoria C4 – Comparto Amministrazioni Centrali –

Privazione della Posizione Organizzativa alla scadenza – dequalificazione insussistenza.

Privazione di compiti di coordinamento, direzione – tipici del livello C- 4 , dequalificazione sussiste.

Sussistenza di predisposizione alla malattia psichica – nesso causale e sussistenza del danno compatibilità.

La sentenza in oggetto, conferma indirizzi giurisprudenziali abbastanza consolidati.

In primo luogo, l’attribuzione di una posizione organizzativa non costituisce una modifica all’inquadramento, ma più semplicemente un’attribuzione di incarico avente natura contrattuale che può venir meno alla scadenza dello stesso.

Diverso invece è il discorso per la corrispondenza delle mansioni alla declaratoria di inquadramento.

L’articolo 52 del DLGS 165/2001 (Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento.

La norma risulta così congegnata dopo l’entrata in vigore del DLGS 150/2009 in precedenza stabiliva invece che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.

Come dato a vedere dalla successione normativa in esame il limite per la dequalificazione è dato dall’area di inquadramento e non rilevano più le eventuali suddivisioni interne all’area o la qualità delle mansioni affidate.

Con il DLGS 81/2015 (Jobs Act), il limite alla dequalificazione è fatto coincidere con tutte le mansioni della categoria di inquadramento.

In tal modo, nell’ambito privato e pubblico lo Jus variandi è ampliato all’intera area di inquadramento.

Per quanto riguarda l’area C del pubblico Impiego, essa coincide in qualche modo a quella che è nel privato l’area quadri.

Diversi sono nell’ambito del pubblico i tentativi di introdurre nel sistema di classificazione del personale l’area dei quadri.

L’iniziativa patrocinata anche da questo studio anche con fasi alterne ha infine avuto esito negativo innanzi alla Corte di Cassazione (Sezione Lavoro 19.12.2008 n.29829 e prima Cassazione Civile Sezione Lavoro 5.7.2005 n.14193.

Di seguito con la legge n.145 del 15 luglio 2002 grazie all’intensa attività in favore svolta da UNIONQUADRI nei confronti del Governo allora in carica era introdotto al DLGS 165/2001 l’articolo 17 che prevedeva l’istituzione della vicedirigenza attingendo ai livelli apicali dell’area C.

La norma non fu mai attivata a causa di una netta opposizione dei sindacati confederali ed alla fine venne abrogata.

Fabio Petracci.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 10/01/2018) 26-04-2018, n. 10138

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20860-2012 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLA MASSAFRA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.U.;

– intimato –

avverso la sentenza definitiva n. 868/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 27/03/2012 R.G.N. 317/2008;

avverso la sentenza non definitiva n. 427/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/08/2011 R.G.N. 317/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCIA POLICASTRO per delega verbale Avvocato PAOLA MASSAFRA.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza non definitiva n. 427/2011, poi seguita da sentenza definitiva n. 868/2011, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Treviso con cui era stato riconosciuto che l’I.N.P.D.A.P. aveva demansionato G.U., con condanna dell’ente al risarcimento del danno biologico cagionato al ricorrente, in misura di Euro 13.560,90, nonchè al pagamento di 160 ore di lavoro straordinario prestate dal lavoratore.

Avverso la sentenza l’I.N.P.S,. ente in cui è medio tempore confluito l’I.N.P.D.A.P., ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi, per le sole questioni attinenti al demansionamento e non quindi rispetto al riconoscimento dello straordinario. Il G. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, riguardante la sentenza non definitiva, l’I.N.P.S. lamenta la violazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche in relazione al CCNL 19982001 e CCIE 1999-2001 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 52, in relazione ai principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU. Il ricorrente premette che l’attribuzione dell’incarico di posizione organizzativa, già conferito al G., non incide sul livello di inquadramento del dipendente, il quale durante e dopo lo stesso mantiene il livello posseduto precedentemente.

Sostiene quindi che le attività cui il G. era stato adibito dopo la cessazione dell’incarico di posizione organizzativa non determinavano la violazione della normativa collettiva di definizione dell’area C e della posizione C4 di appartenenza del ricorrente, anche sulla base delle risultanze dell’istruttoria svolta.

2. Il motivo non merita accoglimento.

2.1 Va intanto rilevato che l’oggetto del contendere, almeno per come definito nella sentenza di secondo grado e sul punto non contestato, non riguarda la legittimità della revoca della posizione organizzativa in sè considerata, quanto il comportamento datoriale tenuto dopo tale revoca, in quanto tale da avere comportato una variazione peggiorativa delle attività fatte svolgere al G. rispetto al profilo (C4 del C.C.N.L. enti pubblici economici 1998-2001) di inquadramento.

2.2 La Corte d’Appello di Venezia, nel ricostruire gli esiti istruttori, ha ritenuto che le mansioni successivamente assegnate al G. fossero nettamente inferiori a quelle di inquadramento, sottolineando come esse avessero carattere meramente impiegatizio, da svolgersi alle dipendenze di un responsabile di area di livello inferiore e fossero prive di qualsiasi profilo di responsabilità e quindi in contrasto con la declaratoria contrattuale propria del profilo C4 di appartenenza.

Rispetto a tale apprezzamento, fondato su risultanze testimoniali che sono state espressamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, l’I.N.P.S. adduce altre emergenze istruttorie che però non inficiano le conclusioni della Corte distrettuale.

La circostanza infatti che i diversi impiegati inquadrati in Area C, come il G., svolgessero, nell’occuparsi di una pratica, un pò tutte le mansioni rientranti nell’ambito di tale Area, se può giustificare che anche il G. all’occorrenza dovesse fare altrettanto, non significa che egli potesse, come emerso dall’istruttoria così come valorizzata dalla Corte veneziana, essere privato di qualsiasi profilo di responsabilità.

La posizione C4 in cui il G. pacificamente è ed ha diritto ad essere inquadrato, prevede invece la responsabilità come tratto caratterizzante, sia dal punto di vista formale (“assunzione di responsabilità formale” si legge nella declaratoria del C.C.N.L. richiamata dalle parti) sia dal punto vista sostanziale (richiedendo ad esempio la “capacità di assumere decisioni anche in situazioni di criticità”).

La Corte d’Appello non ha quindi violato alcuna norma sull’interpretazione dei contratti (qui, collettivi) ed il motivo risulta palesemente inidoneo ad inficiare in alcun modo la motivazione addotta, in stretta coerenza tra declaratoria e risultanze istruttorie, nella sentenza impugnata.

3. Infondato è anche il secondo motivo, che concerne gli apprezzamenti della sentenza definitiva in ordine al nesso causale tra il comportamento illegittimo e il danno biologico accertato, nonchè la quantificazione del risarcimento posto a carico dell’ente.

L’I.N.P.S. sostiene che vi sarebbe stata la violazione, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 41 c.p., ovverosia della regola sull’equivalenza delle concause. Sul presupposto che il lavoratore avesse, come accertato dal c.t.u., una naturale predisposizione alla malattia psichica poi sviluppatasi, l’ente ritiene che la medesima condizione andasse intanto considerata anch’essa come causa del danno ed inoltre, mancando prova “del nesso di causalità tra i comportamenti datoriali ed il danno patito dal lavoratore”, essa dovesse essere intesa quale unica “determinante dell’evento”.

Non appare tuttavia corretto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno, in quanto nulla autorizza ad affermare che la situazione di latenza della patologia accertata dal c.t.u. si sarebbe conclamata in danno, senza il ricorrente dei fattori scatenanti afferenti alla vicenda penalistica e lavorativa apprezzati dal c.t.u. e puntualmente valorizzati dalla Corte d’Appello. Ciò manifesta l’inconsistenza di quanto sostenuto con il motivo in esame, attraverso cui si sottopone alla Corte un’apodittica ed inammissibile (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148) rilettura dei dati di merito.

Si deve poi osservare che la sentenza definitiva di appello si fonda su chiarimenti resi del c.t.u. in cui quest’ultimo, secondo quanto riportato espressamente nello stesso ricorso per cassazione, afferma che il danno manifestatosi era da riportare non solo alla vicenda penalistica, ma anche al “vissuto persecutorio” in sede di lavoro.

Vissuto che il c.t.u. riconosceva in nesso causale con il pregiudizio alla salute, a condizione che “la ricostruzione giudiziaria della vicenda fosse risultata conforme alle dichiarazioni del periziato”.

Da ciò la Corte, avendo con la sentenza non definitiva già accertato il comportamento dequalificante, ha ovviamente tratto la conclusione della ricorrenza del nesso concausale, tra le vicende penalistiche/lavoristiche e la manifestazione del danno, concludendo poi in termini giuridici per la piena responsabilità datoriale verso il G., secondo il principio di equivalenza delle concause.

E’ quindi palese che, da quest’ultimo punto di vista, il motivo di ricorso per cassazione si basa su un presupposto, ovverosia il mancato accertamento di nesso causale tra comportamento datoriale e danno, che è erroneo, in quanto l’accertamento di quel nesso vi è stato e neppure sono stati spesi effettivi argomenti logici atti a porne in dubbio la fondatezza.

4. In definitiva il ricorso va integralmente rigettato.

5. Nulla va disposto sulle spese, stante il fatto che la parte vincitrice è rimasta intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2018

Insegnanti

I rischi che corre l’insegnante a tempo indeterminato che trova una nuova occupazione.

Scuola – Dimissioni – Decadenza dall’impiego – pregiudizi.

  1. Le dimissioni principi generali.

Le dimissioni nell’ambito del rapporto di lavoro sono contemplate in un quadro normativo abbastanza scarno.

Il riferimento va all’articolo 2118 del codice civile laddove si legge che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato [c.c. 1373], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità (4)(2).

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [c.c. 1750, 2948, n. 5].

La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Il principio compendiato in maniera chiara è quello dell’esercizio di un diritto potestativo che prescinde dalla volontà del soggetto del destinatario dell’atto a cui occorre solo far pervenire la relativa comunicazione.

Diverse sono poi le norme che tutelano il receduto allorquando esso è rappresentato dal lavoratore. 

La sostanziale libertà di recesso che poi ha trovato consistenti limiti nei confronti del datore di lavoro, rappresenta per quanto riguarda il prestatore di lavoro, una forma di rispetto nei confronti dell’articolo 4 della Carta Costituzionale che vuole consentire al lavoratore con contratto indeterminato di autodeterminare il proprio futuro professionale nell’ambito delle limitate occasioni di occupazione soddisfacente, offerte dall’attuale mercato del lavoro.

Il principio affermato in termini costituzionali della libera volontà del prestatore di lavoro si manifesta in primo luogo nella possibilità per le parti di negoziare limiti ragionevoli a tale potestà in ogni caso basati su principi di natura risarcitoria, potendo così legittimamente stipulare delle clausole di durata minima garantita garantite da una penale.

Ne discende, ad avviso chi scrive, un immanente e costituzionalmente garantito principio di libertà per il recesso del lavoratore che, sempre nel rispetto del dettato di cui all’articolo 4 della Carta Costituzionale ammette talune clausole di natura meramente risarcitoria.

  • Le dimissioni nel pubblico impiego contrattualizzato dopo la riforma avviata con il DLGS 29/93.
  1. La disciplina generale della materia (articolo 2, comma 2 del DLGS 165/2001, Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche (il cui personale non permane in regime di diritto pubblico come nel caso di Forze Armate, Magistratura , corpo docente universitario) sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, consentendo la deroga da parte della contrattazione collettiva alle norme di legge e di regolamento o statuto, che introducano specifiche discipline dei rapporti di lavoro.Il precedente testo unico degli impiegati civili dello Stato prevedeva oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro per varie fattispecie tra cui quella disciplinare, anche un’ulteriore ipotesi dove concorreva anche la volontà del dipendente.Era infatti prevista la decadenza dall’impiego in diverse ipotesi tra cui quella che si verificava nel caso in cui il dipendente senza giustificato motivo, non assumesse o non riassumesse servizio entro il termine prefissogli, ovvero fosse rimasto assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.Detta norma, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte n.20555 del 6.8.2018, è ancora vigente per quanto attiene l’ipotesi dell’incompatibilità che si verifica in forza dell’articolo 53 comma primo del DLGS 165/2001 laddove l’impiegato si trovi in condizione di incompatibilità e, diffidato dal cessare tale situazione, trascorsi 15 giorni dalla diffida, permanendo nella posizione incompatibile venga dichiarato decaduto.Dunque un ipotesi di cessazione per fatto concludente che non assume valenza disciplinare, ma da cui consegue l’istituto della decadenza dall’impiego.Secondo quanto motivato nella sentenza della Suprema Corte cui si è fatto cenno, tale ipotesi risolutiva continuerebbe ad esistere laddove la risoluzione del rapporto non consegua ad un fatto disciplinare il cui ambito di operatività normativa sarebbe invece il citato DLGS 165/2001 dagli articoli 55 e seguenti. (impianto disciplinare del pubblico impiego contrattualizzato).

.

b. La normativa legale specifica della scuola il DLGS n.297/1994, articolo 510.

Il settore della Scuola pubblica è integralmente destinatario della normativa di cui al testo unico del pubblico impiego contrattualizzato e quindi dal DLGS 165/2001.

Quindi il rapporto di lavoro è integralmente contrattualizzato ed opera il complesso di norme in tema di risoluzione del rapporto di cui al codice civile ed alla contrattazione collettiva di comparto.

Sussistono comunque delle particolarità che nel caso in esame assumono rilevanza.

Trattasi in primo luogo del decreto legislativo 297 del 1994 che prevede specifiche normative in materia di istruzione scolastica e di personale insegnante. In proposito, l’articolo 510 (dimissioni) prevedeva per le dimissioni un termine in base al quale, le dimissioni presentate avevano efficacia esclusivamente dal 1° settembre successivo alla data in cui sono state presentate. Stabilisce inoltre la medesima norma che le dimissioni presentate dopo tale data, ma prima dell’inizio dell’anno scolastico successivo, hanno effetto dal 1° settembre dell’anno che segue il suddetto anno scolastico. Conclude l’articolo medesimo che il personale è tenuto a prestare servizio fino a quando non gli venga comunicata l’accettazione delle dimissioni.

La norma risulta abrogata dall’articolo 4, comma 1, DPR 28 aprile 1998 n.351.

Contestualmente, sulla base della legge 15.3.1997 n.59 articolo 20, comma 8, era emanato il DPR 28.4.1998 n.351 all’articolo 1 (cessazione dal servizio) dove era stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Era quindi aggiunto al comma 2 che con decreto del Ministro della pubblica istruzione è stabilito il termine entro il quale, annualmente, il personale di cui al comma 1 può presentare o ritirare la domanda di collocamento a riposo o di dimissioni.

Nel contempo, il contratto collettivo di comparto (Scuola) all’articolo 23 (termini di preavviso) stabilisce in caso di risoluzione del rapporto di lavoro dei termini di preavviso che vanno da 2 mesi a 4 mesi a seconda dell’anzianità di servizio.

Il problema aperto.

Ne deriva una situazione alquanto incongrua, in quanto, il dipendente che, ad esempio ha trovato un nuovo lavoro, si trova a dover rispettare il preavviso contrattuale cui abbiamo appena fatto cenno oltre al “preavviso” legale previsto dall’articolo 1 del DPR 28.4.1998 n.351 dove è stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Le dimissioni che non rispettano questi ultimi termini si appalesano inefficaci. In tal modo, il dipendente sarà tenuto a rendere la prestazione e due sono le ipotesi cui egli può andare incontro.

Da un lato, egli assumendo un nuovo lavoro si pone in posizione di incompatibilità con l’impiego in essere e rischia la decadenza, diversamente, gli potrà essere contestata l’assenza ingiustificata e comminato quindi il licenziamento disciplinare.

Trattasi di due ipotesi entrambi pregiudizievoli qualora il dipendente dimissionario debba affrontare un concorso pubblico.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 ai commi 8 e 9 prevede che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima.

Il successivo comma 9 prevede inoltre che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento.

Va anche notato che il medesimo contratto della scuola consente all’articolo 18 un’apposita fattispecie di aspettativa per avviare una nuova esperienza lavorativa e superare il periodo di prova presso un nuovo datore di lavoro.

Si giunge così al paradosso, dove il dipendente che ha ottenuto l’aspettativa per testare un nuovo rapporto di lavoro e si decida per quest’ultimo, sia costretto a riprendere il precedente impiego a pena di decadenza o di sanzione disciplinare.

Alcune soluzioni giurisprudenziali e la soluzione auspicata.

Casi del genere sono pervenuti all’attenzione della giurisprudenza anche della Suprema Corte la quale con sentenza del 12.2.2015 n.2795 proprio nello specifico caso delle dimissioni rese nell’ambito della scuola ha ritenuto che l’atto di recesso unilaterale è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto, a prescindere dall’accettazione del datore di lavoro, va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell’attività scolastica, che impongono che i termini per la presentazione delle domande siano individuati dalla normativa di riferimento, e che, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 6 novembre 1989, n. 357, convertito con modificazioni nella legge 27 dicembre 1989, n. 417, ne individuano la decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci le dimissioni di un collaboratore scolastico, presentate in data 26 marzo 2006, in relazione all’anno scolastico 2006-2007, in quanto presentate oltre il termine previsto dal d.m. 18 novembre 2005, n. 87, restando suscettibili di efficacia per la prima successiva data utile del 1° settembre 2007).

Di fronte all’inefficacia delle dimissioni, va approfondita la posizione del dipendente che le ha rassegnate.

Si ipotizza infatti a fronte della mancata presenza in servizio l’ipotesi della decadenza o del licenziamento per assenza ingiustificata.

Entrambi provvedimenti possono influire nel caso di partecipazione a concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione.

In primo luogo, ci si chiede se l’istituto della decadenza abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n.20555 del 6.8.2018 ha ribadito come l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, sia applicabile ai dipendenti di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome detta forma di decadenza costituita dall’aver assunto altro impiego incompatibile, attiene alla materia delle incompatibilità, essa è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Dunque continua ad applicarsi l’istituto della decadenza laddove il dipendente che assuma una posizione di impiego incompatibile non aderisca alla diffida dell’amministrazione a riprendere servizio.

La gran parte dei bandi di concorso per le pubbliche amministrazioni considera come causa di esclusione dalla partecipazione al concorso l’essere incorsi nella decadenza dall’impiego prevista dall’articolo 127 del DPR n.3 del 1957 Testo Unico del Pubblico Impiego considerato ancora vigente.

Esso prevede che l’impiegato incorre nella decadenza dall’impiego:

a) quando perda la cittadinanza italiana;

b) quando accetti una missione o altro incarico da una autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente;

c) quando, senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve (161);

d) quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile.

La decadenza di cui alle lettere c) e d) è disposta sentito il consiglio di amministrazione.

Va poi detto a completamento di quanto sopra che Va infine detto che a norma dell’ art. 128, comma 2 del D.P.R. n. 3/1957, l’impiegato decaduto ai sensi della lettera d) dell’art. 127, comma 1 dello stesso D.P.R. (quando cioè l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile) non può concorrere ad altro impiego nella Amministrazione dello Stato.

In realtà, molti bandi di concorso parlano tout court di decadenza ed in tali casi la conseguenza per il decaduto potrebbe essere sempre l’esclusione, a meno che non impugni il bando.

Sul punto è intervenuto la Corte Costituzionale con la sentenza del 27 luglio 2007 n.329 proprio nel caso specifico di un concorso per l’assunzione nella scuola, dove la concorrente era in precedenza stata dichiarata decaduta dall’impiego per aver reso false dichiarazioni sul proprio stato di salute, la Corte ha ritenuto che, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e della razionalità che deve governare il principio di eguaglianza, deve escludersi l’automatismo che determina l’esclusione dal concorso,

Ne discende afferma la Consulta,  la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

A maggior ragione deve ritenersi priva di alcuna ragione ed in palese violazione del diritto al lavoro l’esclusione di chi dopo un periodo di aspettativa decida di optare per il nuovo impiego e non sta in grado di rispettare il termine per lasciare il precedente impiego imposto dalla legislazione scolastica.

In casi del genere, il potenziale escluso, dovrà impugnare il bando che contempli una simile clausola di decadenza o comunque una clausola di decadenza generica che non specifichi l’ipotesi di cui all’articolo 128 punto 3 del DPR 3/1957.

Ancora più opportuna e consona all’evoluzione del rapporto di lavoro, una soluzione data dalla contrattazione collettiva che rispetti le esigenza della scuola e quelle della legittima ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Fabio Petracci.