PENSIONI – Importante ordinanza della Corte dei Conti di rimessione alla Corte Costituzionale.

Pubblichiamo un’importante ordinanza della Corte dei Conti del Friuli Venezia Giulia di rimessione alla Corte Costituzionale in materia pensionistica.
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>Chi tutela la specificità delle categorie professionali, come quadri, ricercatori, lavoratori parasubordinati?

  1. La Convenzione.

E’ stata stipulata tra soggetti di matrice e funzione molto diversa, da una parte Ispettorato del lavoro soggetti pubblici istituzionali e dall’altra parte Confindustria, Cgil Cisl e Uil, soggetti importanti, ma non unici, del mondo sindacale.

Nell’ambito della convenzione è ritenuta fondamentale l’importanza della rappresentatività sindacale e del monitoraggio della contrattazione collettiva.

Si lega pertanto l’attività di contrattazione di per sé libera ed autonoma anche in forza dei principi costituzionali espressi dall’articolo 39 della Costituzione ed in assenza di una sua attuazione, al monitoraggio di Confindustria e di due enti pubblici di cui l’Ispettorato del Lavoro delegato a compiti di controllo ed investigazione sui numerosi illeciti in materia di lavoro e che spesso lamenta carenze di organico. Dall’altra parte Confindustria che rappresenta solo parzialmente i datori di lavoro, basti pensare, alle miriadi di piccole e medie aziende del nostro territorio, e Cgil, Cisl, Uil organizzazioni sindacali generalisti e ricollegabili in qualche modo a correnti di pensiero politico sociale non integralmente rappresentate da queste ultime organizzazioni.

L’oggetto dell’attività concordata è dato dalla certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini della contrattazione.

Per definire il livello di rappresentatività si ricorre ad un duplice criterio costituito dal dato elettorale per le elezioni delle RSU, dove in molti casi possono operare in azienda le RSA in forza dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, da una parte e dall’altra dal dato associativo ricavato dalle deleghe date dai singoli dipendenti al datore di lavoro dove in molti casi è ancora aperta la questione del diritto delle organizzazioni sindacali minori ad ottenere il pagamento mediante delega.

I dati confluiscono poi in una banca dati tenuta dall’Inps ed affidati ad un apposito comitato di gestione.

  • Gli antecedenti.

Il riferimento va in primo luogo all’accordo interconfederale tra Confindustria, Cgil, Cisl, e Uil del 28 giugno 2011 che già prevedeva una simile procedura e simile contenuto, ma non vedeva tra i firmatari INPS ed Ispettorato del Lavoro, pur riferendosi ad accertamenti dell’Inps e prevedeva un ruolo per il Cnel come punto di raccolta e di esame dei dati.

L’accordo prevedeva inoltre tutta una serie di limitazioni tra cui la possibilità di sottoposizione a referendum per i contratti stipulati dalle sole RSA.

Di seguito, in data 10 gennaio 2014, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil redigevano un testo unico sulla Rappresentanza ai fini della contrattazione nazionale di categoria e sulle rappresentanze in azienda, nonché sull’efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e sulle procedure di raffreddamento in caso di conflitti sindacali.

Anche il testo unico qui menzionato prevedeva il coinvolgimento del Cnel nella raccolta dei dati e l’accertamento della rappresentatività in forza della media ponderale tra i risultati delle elezioni RSU.

Nella seconda parte (Regolamentazione delle Rappresentanze in Azienda), sono elencate tutta una serie di clausole atte a favorire la costituzione di RSU in luogo delle RSA stabilendo come, alla scadenza delle RSA il 50% dei dipendenti, sia sufficiente per il passaggio al regime delle RSU, quindi si richiama l’intero accordo interconfederale del 1993 per la costituzione delle RSU.

Nella parte concernente la contrattazione collettiva l’ammissione alla contrattazione è riservata alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del successivo protocollo del 31 maggio 2013 che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi).

Rappresentatività e Contratti Pirata.

Tra gli antefatti di questi interventi, troviamo la questione dei cosiddetti contratti pirata.

La questione è stata a lungo trattata anche a livello mediatico.

In data 17.7.2019, si teneva presso il Cnel un incontro di studio avente ad oggetto la dimensione e la qualità dei contratti collettivi. Vi partecipavano il presidente del Cnel professor Tiziano Treu, il sottosegretario al lavoro Luciano Cominardi, il presidente dell’Inps professor Pasquale Ytridico, il consigliere del Cnel dottor Claudio Lucifora ed il dirigente Inps Luciano Montaldi.

In quell’ambito era posta l’attenzione sul dumping sociale dato da contratti collettivi con minimi retributivi inferiori a quelli indicati dalla ordinaria contrattazione collettiva. Le soluzioni in quell’occasione erano individuate nell’introduzione del minimo contrattuale, nell’emanazione di una legge in merito alla rappresentatività sindacale, in una regolamentazione strettamente sindacale della rappresentatività ad evitare il fenomeno di questa tipologia di contratti.

Ne discendeva però aperta e favorita l’ipotesi di un deciso intervento legislativo in tema di salario minimo o di rappresentatività sindacale. Chi scrive sommessamente ritiene che un ferreo controllo delle clausole contrattuali essenziali ad introdurre minimi retributivi definiti pirata potrebbe evitare il fenomeno di questa contrattazione deteriore dal momento che presso il Cnel è stato creato un efficiente ed aggiornato archivio informatico dei contratti collettivi.

Effettivamente il livello particolarmente basso delle retribuzioni nel nostro paese costituisce un problema emergente e complesso di cui l’aspetto marcatamente evidente dei contratti pirata costituisce uno degli elementi.

Va notato che il nostro ordinamento già dispone di alcuni correttivi. Il primo è ravvisabile nella normativa previdenziale che stabilisce come i contributi debbano essere rapportati alla retribuzione prevista dalla legge o dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative avuto riguardo al settore merceologico di appartenenza del datore di lavoro (articolo 1, comma 1 DL 338 del 1989, articolo 2, comma 25, legge n.549 del 1995). Altro correttivo può essere individuato nella normativa degli appalti ove il committente può esigere l’applicazione di un contratto di settore che lo metta a riparo di eventuali richieste dell’Inps o di azioni dei singoli lavoratori. Molti contratti di settore stabiliscono poi l’obbligo per il committente di inserire nel contratto di appalto la clausola per l’applicazione di una determinata normativa contrattuale. In ogni caso, in sede legislativa è all’esame l’introduzione del cosiddetto salario minimo.

Inoltre il CNEL conserva una funzione nell’ambito del sistema di certificazione della rappresentatività sindacale.

Invece, alla presenza del Ministro Nunzia Catalfo Ministro del Lavoro proveniente proprio da quel movimento politico che aveva propugnato l’introduzione del salario minimo, era firmata la convenzione Ispettorato del Lavoro, Inps, Confindustria , Cgil, Cisl, Uil di cui si è parlato.

L’attivismo dell’Ispettorato del Lavoro.

Ancor prima, una simile soluzione era preconizzata dalla Circolare n.3/2018 dell’Ispettorato del Lavoro che prevedeva nell’identificare i contratti regolari e non aventi le caratteristiche dei contratti pirata, prevalentemente quelli stipulati dalle maggiori confederazioni del lavoro individuate in Cgil, Cisl, Uil, creando non pochi dissensi nell’ambito del composito mondo sindacale.

Di seguito, sempre l’Ispettorato del Lavoro con la circolare n.9 del 10 settembre 2019 evidenziava che i soggetti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi , non avrebbero potuto sottoscrivere contratti collettivi idonei ed efficaci a rispettare le deleghe ricevute dalle seguenti disposizioni di legge:

− disciplinare aspetti legati alle tipologie contrattuali – art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015;

− integrare o derogare alla disciplina del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di tempi di lavoro;

− sottoscrivere i “contratti di prossimità” di cui all’art. 8 del D.L. n. 138/2011;

− costituire enti bilaterali – accezione nella quale rientrano anche le Casse edili – che possano svolgere le funzioni assegnate dall’art. 2, comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 276/2003 ( Roberto Camera , Stop ai CCNL Pirata Ipsoa 20.9.2019).

Elementi di criticità.

Nel nome di questa ritenuta emergenza, si è voluto intervenire non con la selezione dei contratti mediante criteri oggettivi, ma sulla base di criteri soggettivi di difficile attuazione sulla selezione dei soggetti che stipulano i contratti, toccando così il delicato tema della rappresentatività sindacale.

Il primo ostacolo che affronta chi si pone l’obiettivo di percorrere questa strada è dato dall’estrema complessità e variabilità che assume il concetto di rappresentatività. Essa assume forma complessa e mutevole e compendia criteri desunti dalle dinamiche sociali e dalla capacità del sindacato di esprimere o compendiare gli interessi del gruppo sociale assunto come proprio riferimento. Dunque, il primo ostacolo che deve affrontare che si pone l’obiettivo di fissare un concetto stabile di rappresentatività è quello di tener conto della variabilità e delle molteplici funzioni di questo concetto.

A tale scopo l’articolo 39 della Costituzione prefigura a parte l’obbligo di registrazione del sindacato e di assumere al proprio interno regole democratiche, un principio di totale libertà sindacale affidato alla reciproca volontà delle parti nei limiti stabiliti dalla legge.

La Corte Costituzionale nell’ambito dei numerosi interventi che si sono avvicendati nel tempo sul tema, ha adottato criteri di rappresentatività diversificati a seconda dei campi di intervento ove il sindacato era chiamato ad operare.

La costante evoluzione socio economica che accompagna la vita nazionale e l’attività del sindacato, rende quanto mai complesso il compito di elaborare uno stabile e generale concetto di rappresentatività.

I ripetuti interventi sul tema della rappresentatività del Giudice delle Leggi hanno messo in luce di volta in volta concetti e riferimenti differenziati ad evidenziare il concetto di rappresentatività.

Tramontato a seguito del referendum del 1995 il concetto di rappresentatività generale della confederazioni sindacali con l’abolizione del comma 1 dell’articolo 19 legge 300/70, il Giudice delle leggi si è attestato su di un concetto di rappresentatività testato nell’ambito del dialogo o dello scontro aziendale da ultimo con la sentenza n.231/2013.

Ne deriva ad avviso di chi scrive l’intangibilità del riconoscimento delle prerogative aziendali delle RSA anche di fronte all’accordo interconfederale che costituiva le RSU e ne disciplinava l’elezione, e la persistenza di un doppio binario di rappresentanza sindacale costituito da una parte dal dato elettorale e dall’altra dall’efficace dialogo o conflitto contrattuale. Un tanto ha confermato la Corte Costituzionale stante l’attuale disciplina legislativa.

La stessa Carta di Nizza all’articolo 28 ribadisce il diritto per i lavoratori ed i datori di lavoro a negoziare ed a concludere contratti collettivi.

Spetta al legislatore conclude infatti la Consulta, individuare i criteri di rappresentatività , magari valorizzando l’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti o introducendo un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, oppure attribuendo al requisito previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, o attraverso il riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro.

Nel frattempo ed in assenza di ulteriore regolamentazione legale la maggiore rappresentatività è data da diversi e non sempre concorrenti dati e criteri come la partecipazione al CNEL , la effettiva partecipazione alla formazione dei contratti, la composizione delle controversie di lavoro, la considerazione dell’esistenza sul campo di diverse categorie merceologiche e di tutte le categorie di lavoratori indicati all’articolo 2095 del codice civile.

Va anche precisato che ad oggi non sussiste alcun obbligo per le aziende di trasmettere i dati sull’adesione ai singoli sindacati, restando comunque fuori da ogni accordo le aziende più piccole che non sono iscritte ad alcuna organizzazione sindacale datoriale.

Un ulteriore elemento di novità, ma anche di criticità è dato dall’inserimento nell’accordo sindacale di alcuni attori istituzionali di natura pubblica, non tanto il CNEL organo collegiale deputato a rappresentare le istanze socio economico cui del resto è affidata esclusivamente la tenuta della banca dati contrattuale, quanto piuttosto dell’INPS e dell’Ispettorato del Lavoro.

Si dubita che queste due ultime amministrazioni possano dar luogo ad una selezione delle organizzazioni rappresentative in assenza di una norma di legge che le deleghi a ciò e stante la scelta in senso ampio politica di un accordo sindacale che involge soltanto determinati soggetti e le loro connotazioni di politica sindacale e sociale. L’attività dedotto appare non rientrare nei compiti principali di queste amministrazioni che spesso tra l’altro lamentano carenza di mezzi e di personale ed una certa assenza nei controlli sul lavoro. Il coinvolgimento dell’INPS appare in netto contrasto con i fini istituzionali dell’ente espressamente indicati agli articoli 3 e 4 della legge istitutiva n.1827/1935.

Anche il principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’articolo 97 della Costituzione ne appare messo in dubbio.

La discriminazioni di particolari categorie di lavoratori.

Va pure tenuto presente come un accordo per la rappresentatività che si basi solo su dati numerici, appare penalizzante in maniera quasi discriminatoria per quelle categorie di lavoratori che indicate specificamente all’articolo 2095 del codice civile, come i quadri, sono portatrici di istanze non sempre collimanti con quelle di operai ed impiegati.

Quindi anche a voler accettare la rappresentatività in base agli accordi che privilegiano il dato numerico, si dovrebbero comunque individuare delle specifiche misurazioni di rappresentatività in funzione della naturale limitatezza numerica di tali ambiti professionali.

In proposito giova tener presente come la legge 30.12.1986 (norme sul Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) all’articolo 2 (composizione del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro) nell’individuare i rappresentanti delle categorie produttive stabilisce apposita rappresentanza dei quadri.

Va ricordato inoltre l’articolo 9 del DLGS 22.6.2012 n.113 che traduce la direttiva europea sui Comitati Aziendali Europei, laddove prevede al comma 2 punto b) in merito alla composizione del Cae come nel determinare il numero dei membri si debba rispettare una distribuzione dei seggi, che consenta di tener conto, per quanto possibile, della necessità di una rappresentanza equilibrata dei lavoratori in base alle attività, alle categorie di lavoratori e al sesso, e la durata del mandato.

Ancor più preciso il successivo comma 6 laddove prevede che I componenti del Cae o i titolari della procedura di informazione e consultazione sono designati per un terzo dalle organizzazioni sindacali di cui all’articolo 5, comma 1, e per due terzi dalle rappresentanze sindacali unitarie dell’impresa ovvero del gruppo di imprese nell’ambito delle medesime rappresentanze

Eguale attenzione meriterebbero poi i lavoratori para subordinati ed in particolare le collaborazioni coordinate dal committente che l’articolo 2 del Dlgs 81/2015 assimila per numerosi aspetti al contratto di lavoro subordinato.

Fabio Petracci.

PUBBLICO IMPIEGO PERMESSI PER PARTECIPARE AD ATTIVITA’ SELETTIVE INTERNE.

Pubblico Impiego – CCNL Funzioni Centrali – articolo 31 , assenza per procedure selettive interne nell’ambito della mobilità.

È stato formulato un quesito per conoscere se i permessi retribuiti per la partecipazione a concorsi o esami di cui all’art. 31, comma 1, lett. a), del CCNL Funzioni centrali del 12/2/2018 sia applicabile anche ai dipendenti che ne facciano richiesta per lo svolgimento di prove selettive nell’ambito di procedure di mobilità o propedeutiche all’attivazione di comandi.

Il parere dell’ARAN nega possa essere effettuata una simile estensione, in quanto simili procedure non possono essere riportate

Al riguardo, afferma l’Agenzia, appare opportuno sottolineare che la natura delle procedure che gli enti attivano a vantaggio del solo personale già in servizio nella pubblica amministrazione, al fine di selezionare quanti siano interessati ad un passaggio – temporaneo o definitivo – nei propri organici, non appare assimilabile a quella delle procedure selettive di tipo concorsuale né ad un esame.

Si ritiene, pertanto, che l’esigenza di assentarsi per svolgere un colloquio o una prova di idoneità in relazione ad una procedura finalizzata all’attivazione di un comando o di una mobilità non rientri tra quelle che il CCNL sottoscritto il 12/2/2018 ha inteso tutelare con l’istituto di cui all’art. 31, comma 1, lett. a). La fattispecie può comunque essere ricondotta a quella del permesso retribuito per motivi personali ai sensi dell’art. 32 del richiamato CCNL.

ROMA- PALAZZO WEDEKIND-PIAZZA COLONNA L’Avv.ARAMINI LAURA DELLA CIU PARTECIPA AL CONVEGNO : “COMBATTERE LA DISOCCUPAZIONE DI LUNGO PERIODO: IL RUOLO DELLA SOCIETA’ CIVILE ORGANIZZATA”

Nella prestigiosa sala di Palazzo Wedekind , in Piazza Colonna, si è svolto il convegno promosso dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, in collaborazione con l’Osservatorio del mercato del lavoro (OML) del Comitato economico e sociale Europeo(CESE). Tra i relatori anche la CIU, rappresentata dall’Avv. Laura Aramini, che ha portato i saluti del […]

Un argomento che interessa in particolare i quadri, premi e detassazione di Raffaella Elia Consulente del Lavoro.

  • Detassazione dei premi di produvità Premi di risultato cosa sono e come vengono erogati:I premi di risultato o di produttività sono quelle somme aggiuntive della retribuzione che il datore dilavoro può decidere di erogare ai lavoratori al fine di fidelizzarli e con lo scopo di ottimizzare la prestazione di lavoro incitandoli ad una maggiore produttività.I premi di risultato affinchè possano essere erogati devono essere preventivamente stabiliti dall’azienda mediante contratti individuali, aziendali e/o territoriale (articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81accordi,)In altri casi i premi di risultati sono previsti da accordi sindacali.In questo modo l’azienda vuole che i lavoratori partecipino attivamente nella determinazione dei risultati e non vuole che questi siano imposti ma condivisi.Il*premio di risultato*è, dal punto di vista fiscale e previdenziale, una forma di retribuzione a tutti gli effetti e dunque su di esso il lavoratore dipendente deve pagare le tasse e l’aliquota contributiva spettante (ossia, l’imposta sul reddito delle persone fisiche) come sul resto dello stipendio ed il datore di lavoro deve pagarci i contributi previdenziali.Questo provocherebbe l’effetto contrario, quindi il lavoratore vedrebbe vanificato la gratificazione ela soddisfazione di avere una somma aggiuntiva e di conseguenza disincentivare la volontà di ottimizzare il lavoro e produrre di più.Per evitare questo tipo di situazione, la legge è intervenuta prevedendo una tassazione agevolata perle somme erogate come premio di risultatoL’agevolazione consiste nel fatto che, su queste somme, il dipendente pagherà una aliquota Irpef del10% e non la sua aliquota ordinaria (che è pari, minimo, al 23%).Affinché sia possibile applicare l’agevolazione è necessario che si verifichino determinate condizioni, ovvero:- L’aliquota agevolata del 10% è possibile applicarla per premi di produzioni non superiore a 3 mila euro, aumentandolo a 4 mila euro nel caso in cui vi sia il completo coinvolgimento ei lavoratori nell’organizzazione aziendale.- Se il premio di produttività supera le 3 mila euro ( 4 mila nel caso di coinvolgimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale) si applica per l’eccesso l’aliquota ordinaria;- La tassazione agevolata è possibile applicarla solo per quei lavoratori che nell’anno fiscale precedente hanno dichiarato un reddito non superiore a 80 mila euro.- il lavoratore deve dipendere da una ditta privata e non può usufruirne se è un dipendente pubblico;- per poter accedere all’agevolazione fiscale, deve essere stato previsto in unaccordo sindacale*tra azienda e organizzazioni sindacali. Restano dunque esclusi i premi di risultato stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, da contratti individuali di lavoro contratti aziendali di cui all’articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81.
  • Per i lavoratori che convertono il premio di risultato in misure di welfare aziendale, è prevista la detassazione totale così come previsto dal comma 4 art. 51 del TUIR .Dal 2017 i beni ed i servizi di welfare aziendale inclusi, e quindi che beneficiano della detassazione totale sono:- L’alloggio;- L’auto;- I finanziamenti a tasso agevolato;- I servizi di trasporto ferroviario;- La previdenza complementare;- L’assistenza sanitaria integrativa;- Gli investimenti in azioni.I servizi e i beni di welfare aziendali erogati al lavoratore, possono anche essere estesi agli altri componenti del nucleo familiare del lavoratore beneficiario del premio che quindi può essere trasformato in borse di studio da erogare a favore dei figli.

Incontro di studio: “Le novità del sistema pensionistico”

Pubblichiamo di seguito la locandina dell’incontro di studio dedicato, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 4/2019 convertito in legge n. 26/2019, alle principali novità del sistema pensionistico.

Nel corso dell’incontro, che si terrà in data giovedì 19 settembre in Udine dalle ore 15 alle ore 18 presso la Sala Scrosoppi di viale Ungheria 22, sarà presentato il volume “Previdenza sociale e lavoro – Il nuovo sistema pensionistico: tutele e contenzioso” degli autori Fabio Petracci ed Alberto Tarlao.

Insegnanti

I rischi che corre l’insegnante a tempo indeterminato che trova una nuova occupazione.

Scuola – Dimissioni – Decadenza dall’impiego – pregiudizi.

  1. Le dimissioni principi generali.

Le dimissioni nell’ambito del rapporto di lavoro sono contemplate in un quadro normativo abbastanza scarno.

Il riferimento va all’articolo 2118 del codice civile laddove si legge che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato [c.c. 1373], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità (4)(2).

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [c.c. 1750, 2948, n. 5].

La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Il principio compendiato in maniera chiara è quello dell’esercizio di un diritto potestativo che prescinde dalla volontà del soggetto del destinatario dell’atto a cui occorre solo far pervenire la relativa comunicazione.

Diverse sono poi le norme che tutelano il receduto allorquando esso è rappresentato dal lavoratore. 

La sostanziale libertà di recesso che poi ha trovato consistenti limiti nei confronti del datore di lavoro, rappresenta per quanto riguarda il prestatore di lavoro, una forma di rispetto nei confronti dell’articolo 4 della Carta Costituzionale che vuole consentire al lavoratore con contratto indeterminato di autodeterminare il proprio futuro professionale nell’ambito delle limitate occasioni di occupazione soddisfacente, offerte dall’attuale mercato del lavoro.

Il principio affermato in termini costituzionali della libera volontà del prestatore di lavoro si manifesta in primo luogo nella possibilità per le parti di negoziare limiti ragionevoli a tale potestà in ogni caso basati su principi di natura risarcitoria, potendo così legittimamente stipulare delle clausole di durata minima garantita garantite da una penale.

Ne discende, ad avviso chi scrive, un immanente e costituzionalmente garantito principio di libertà per il recesso del lavoratore che, sempre nel rispetto del dettato di cui all’articolo 4 della Carta Costituzionale ammette talune clausole di natura meramente risarcitoria.

  • Le dimissioni nel pubblico impiego contrattualizzato dopo la riforma avviata con il DLGS 29/93.
  1. La disciplina generale della materia (articolo 2, comma 2 del DLGS 165/2001, Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche (il cui personale non permane in regime di diritto pubblico come nel caso di Forze Armate, Magistratura , corpo docente universitario) sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, consentendo la deroga da parte della contrattazione collettiva alle norme di legge e di regolamento o statuto, che introducano specifiche discipline dei rapporti di lavoro.Il precedente testo unico degli impiegati civili dello Stato prevedeva oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro per varie fattispecie tra cui quella disciplinare, anche un’ulteriore ipotesi dove concorreva anche la volontà del dipendente.Era infatti prevista la decadenza dall’impiego in diverse ipotesi tra cui quella che si verificava nel caso in cui il dipendente senza giustificato motivo, non assumesse o non riassumesse servizio entro il termine prefissogli, ovvero fosse rimasto assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.Detta norma, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte n.20555 del 6.8.2018, è ancora vigente per quanto attiene l’ipotesi dell’incompatibilità che si verifica in forza dell’articolo 53 comma primo del DLGS 165/2001 laddove l’impiegato si trovi in condizione di incompatibilità e, diffidato dal cessare tale situazione, trascorsi 15 giorni dalla diffida, permanendo nella posizione incompatibile venga dichiarato decaduto.Dunque un ipotesi di cessazione per fatto concludente che non assume valenza disciplinare, ma da cui consegue l’istituto della decadenza dall’impiego.Secondo quanto motivato nella sentenza della Suprema Corte cui si è fatto cenno, tale ipotesi risolutiva continuerebbe ad esistere laddove la risoluzione del rapporto non consegua ad un fatto disciplinare il cui ambito di operatività normativa sarebbe invece il citato DLGS 165/2001 dagli articoli 55 e seguenti. (impianto disciplinare del pubblico impiego contrattualizzato).

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b. La normativa legale specifica della scuola il DLGS n.297/1994, articolo 510.

Il settore della Scuola pubblica è integralmente destinatario della normativa di cui al testo unico del pubblico impiego contrattualizzato e quindi dal DLGS 165/2001.

Quindi il rapporto di lavoro è integralmente contrattualizzato ed opera il complesso di norme in tema di risoluzione del rapporto di cui al codice civile ed alla contrattazione collettiva di comparto.

Sussistono comunque delle particolarità che nel caso in esame assumono rilevanza.

Trattasi in primo luogo del decreto legislativo 297 del 1994 che prevede specifiche normative in materia di istruzione scolastica e di personale insegnante. In proposito, l’articolo 510 (dimissioni) prevedeva per le dimissioni un termine in base al quale, le dimissioni presentate avevano efficacia esclusivamente dal 1° settembre successivo alla data in cui sono state presentate. Stabilisce inoltre la medesima norma che le dimissioni presentate dopo tale data, ma prima dell’inizio dell’anno scolastico successivo, hanno effetto dal 1° settembre dell’anno che segue il suddetto anno scolastico. Conclude l’articolo medesimo che il personale è tenuto a prestare servizio fino a quando non gli venga comunicata l’accettazione delle dimissioni.

La norma risulta abrogata dall’articolo 4, comma 1, DPR 28 aprile 1998 n.351.

Contestualmente, sulla base della legge 15.3.1997 n.59 articolo 20, comma 8, era emanato il DPR 28.4.1998 n.351 all’articolo 1 (cessazione dal servizio) dove era stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Era quindi aggiunto al comma 2 che con decreto del Ministro della pubblica istruzione è stabilito il termine entro il quale, annualmente, il personale di cui al comma 1 può presentare o ritirare la domanda di collocamento a riposo o di dimissioni.

Nel contempo, il contratto collettivo di comparto (Scuola) all’articolo 23 (termini di preavviso) stabilisce in caso di risoluzione del rapporto di lavoro dei termini di preavviso che vanno da 2 mesi a 4 mesi a seconda dell’anzianità di servizio.

Il problema aperto.

Ne deriva una situazione alquanto incongrua, in quanto, il dipendente che, ad esempio ha trovato un nuovo lavoro, si trova a dover rispettare il preavviso contrattuale cui abbiamo appena fatto cenno oltre al “preavviso” legale previsto dall’articolo 1 del DPR 28.4.1998 n.351 dove è stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Le dimissioni che non rispettano questi ultimi termini si appalesano inefficaci. In tal modo, il dipendente sarà tenuto a rendere la prestazione e due sono le ipotesi cui egli può andare incontro.

Da un lato, egli assumendo un nuovo lavoro si pone in posizione di incompatibilità con l’impiego in essere e rischia la decadenza, diversamente, gli potrà essere contestata l’assenza ingiustificata e comminato quindi il licenziamento disciplinare.

Trattasi di due ipotesi entrambi pregiudizievoli qualora il dipendente dimissionario debba affrontare un concorso pubblico.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 ai commi 8 e 9 prevede che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima.

Il successivo comma 9 prevede inoltre che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento.

Va anche notato che il medesimo contratto della scuola consente all’articolo 18 un’apposita fattispecie di aspettativa per avviare una nuova esperienza lavorativa e superare il periodo di prova presso un nuovo datore di lavoro.

Si giunge così al paradosso, dove il dipendente che ha ottenuto l’aspettativa per testare un nuovo rapporto di lavoro e si decida per quest’ultimo, sia costretto a riprendere il precedente impiego a pena di decadenza o di sanzione disciplinare.

Alcune soluzioni giurisprudenziali e la soluzione auspicata.

Casi del genere sono pervenuti all’attenzione della giurisprudenza anche della Suprema Corte la quale con sentenza del 12.2.2015 n.2795 proprio nello specifico caso delle dimissioni rese nell’ambito della scuola ha ritenuto che l’atto di recesso unilaterale è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto, a prescindere dall’accettazione del datore di lavoro, va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell’attività scolastica, che impongono che i termini per la presentazione delle domande siano individuati dalla normativa di riferimento, e che, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 6 novembre 1989, n. 357, convertito con modificazioni nella legge 27 dicembre 1989, n. 417, ne individuano la decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci le dimissioni di un collaboratore scolastico, presentate in data 26 marzo 2006, in relazione all’anno scolastico 2006-2007, in quanto presentate oltre il termine previsto dal d.m. 18 novembre 2005, n. 87, restando suscettibili di efficacia per la prima successiva data utile del 1° settembre 2007).

Di fronte all’inefficacia delle dimissioni, va approfondita la posizione del dipendente che le ha rassegnate.

Si ipotizza infatti a fronte della mancata presenza in servizio l’ipotesi della decadenza o del licenziamento per assenza ingiustificata.

Entrambi provvedimenti possono influire nel caso di partecipazione a concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione.

In primo luogo, ci si chiede se l’istituto della decadenza abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n.20555 del 6.8.2018 ha ribadito come l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, sia applicabile ai dipendenti di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome detta forma di decadenza costituita dall’aver assunto altro impiego incompatibile, attiene alla materia delle incompatibilità, essa è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Dunque continua ad applicarsi l’istituto della decadenza laddove il dipendente che assuma una posizione di impiego incompatibile non aderisca alla diffida dell’amministrazione a riprendere servizio.

La gran parte dei bandi di concorso per le pubbliche amministrazioni considera come causa di esclusione dalla partecipazione al concorso l’essere incorsi nella decadenza dall’impiego prevista dall’articolo 127 del DPR n.3 del 1957 Testo Unico del Pubblico Impiego considerato ancora vigente.

Esso prevede che l’impiegato incorre nella decadenza dall’impiego:

a) quando perda la cittadinanza italiana;

b) quando accetti una missione o altro incarico da una autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente;

c) quando, senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve (161);

d) quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile.

La decadenza di cui alle lettere c) e d) è disposta sentito il consiglio di amministrazione.

Va poi detto a completamento di quanto sopra che Va infine detto che a norma dell’ art. 128, comma 2 del D.P.R. n. 3/1957, l’impiegato decaduto ai sensi della lettera d) dell’art. 127, comma 1 dello stesso D.P.R. (quando cioè l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile) non può concorrere ad altro impiego nella Amministrazione dello Stato.

In realtà, molti bandi di concorso parlano tout court di decadenza ed in tali casi la conseguenza per il decaduto potrebbe essere sempre l’esclusione, a meno che non impugni il bando.

Sul punto è intervenuto la Corte Costituzionale con la sentenza del 27 luglio 2007 n.329 proprio nel caso specifico di un concorso per l’assunzione nella scuola, dove la concorrente era in precedenza stata dichiarata decaduta dall’impiego per aver reso false dichiarazioni sul proprio stato di salute, la Corte ha ritenuto che, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e della razionalità che deve governare il principio di eguaglianza, deve escludersi l’automatismo che determina l’esclusione dal concorso,

Ne discende afferma la Consulta,  la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

A maggior ragione deve ritenersi priva di alcuna ragione ed in palese violazione del diritto al lavoro l’esclusione di chi dopo un periodo di aspettativa decida di optare per il nuovo impiego e non sta in grado di rispettare il termine per lasciare il precedente impiego imposto dalla legislazione scolastica.

In casi del genere, il potenziale escluso, dovrà impugnare il bando che contempli una simile clausola di decadenza o comunque una clausola di decadenza generica che non specifichi l’ipotesi di cui all’articolo 128 punto 3 del DPR 3/1957.

Ancora più opportuna e consona all’evoluzione del rapporto di lavoro, una soluzione data dalla contrattazione collettiva che rispetti le esigenza della scuola e quelle della legittima ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Fabio Petracci.

Inapplicabilità del termine di decadenza ex art.32 c.4 legge 183/2010 nel caso il lavoratore non contesti ma persegua il di trasferimento d’azienda

Riportiamo di seguito la massima ed il testo integrale della sentenza n. 13648/2019 della Suprema Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso proposto dagli avv. Fabio Petracci ed Alessandra Marin.

In caso di trasferimento di azienda la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), della l. n. 183 del 2010, applicandosi tale disposizione ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità.

Cassazione civile sez. lav., 21/05/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 21/05/2019), n.13648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5553/2017 proposto da:

D.L., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO PETRACCI, ALESSANDRA MARIN;

– ricorrente –

contro

                   , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,                 , presso lo studio dell’avvocato L. M. C., che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

                   .;

– intimata –

avverso la sentenza n. 271/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 27/12/2016 R.G.N. 164/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

udito l’Avvocato FABIO PETRACCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 271 pubblicata il 27.12.16, in accoglimento dell’appello proposto da                       e                  e in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato inammissibile per intervenuta decadenza, ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, la domanda di D.L. di impugnazione della risoluzione del rapporto di lavoro con la                ; ha respinto l’appello incidentale con cui era stata riproposta l’impugnazione del contratto a termine concluso con                   ed ha accertato l’insussistenza di un vincolo di solidarietà tra quest’ultima società e la             per il pagamento del trattamento di fine rapporto maturato dalla lavoratrice nel rapporto di lavoro intercorso con ciascuna delle appellanti.

2. La Corte territoriale ha premesso in fatto come la D. fosse stata dipendente dell’             . dall’8.11.99; che a partire dal 4.2.13 la stessa era stata distaccata, insieme alle colleghe V.L. e V.E., presso la sede della                   ; che il 30.6.13 la stessa aveva risolto consensualmente il rapporto di lavoro con                    e dall’1.7.13 era stata assunta con contratto a tempo determinato da               ; analoga sorte avevano avuto le due colleghe, che avevano cessato il rapporto di lavoro con la                 ed erano state assunte a tempo determinato dalla             

3. La sentenza d’appello ha ritenuto che l’impugnativa stragiudiziale proposta dalle lavoratrici, tra cui la D., avente ad oggetto i distacchi, l’asserito trasferimento d’azienda e i contratti a termine, in quanto pervenuta alle società appellanti nelle date 13 e 14 gennaio 2014 non fosse rispettosa del termine di decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 e fosse quindi tardiva. Ha sottolineato come il dies a quo del termine di 60 giorni per l’impugnativa stragiudiziale, in una fattispecie come quella in esame in cui non vi era un atto formale di trasferimento di azienda, dovesse individuarsi nel momento in cui il predetto trasferimento, invocato dalla lavoratrice, fosse stato nei fatti esteriorizzato. Ha precisato che tale momento dovesse coincidere con l’inizio del distacco, che la lavoratrice assumeva come simulatorio di un trasferimento di azienda, e che in ogni caso la decorrenza dei 60 giorni non potesse traslarsi in avanti oltre la formale assunzione alle dipendenze della società           , posto che in questo momento risultava certa la cessazione del rapporto di lavoro con              e l’inizio di un autonomo rapporto con l’altra società, a tempo determinato.

4. Nel respingere l’appello incidentale della lavoratrice, la Corte di merito ha dato atto di come il primo contratto a termine fosse stato concluso nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che ne consentiva la stipulazione senza indicazione della causale giustificativa.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la D. affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso la                .

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso la sig.ra D. ha censurato la sentenza per violazione della L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis e dell’art. 2112 c.c..

2. Ha contestato il ragionamento della Corte di merito secondo cui il lavoratore che agisca per far accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda ed invochi il passaggio in capo al cessionario del proprio rapporto di lavoro, debba formulare un’impugnazione ai sensi del citato art. 32, pur in assenza di un provvedimento datoriale da impugnare.

3. Ha sostenuto come la L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis, che ha esteso la disciplina di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, come modificato, alla “cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento”, dovesse trovare applicazione nella sola ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”; con la conseguenza non solo che il termine di decadenza non potrebbe decorrere in mancanza di comunicazione della “cessione del contratto” per effetto del trasferimento d’azienda ma che l’ipotesi del lavoratore che intendesse avvalersi dell’avvenuta “cessione” sarebbe estranea alla previsione di cui alla lett. c).

4. Secondo la ricorrente, il caso in esame non potrebbe neanche essere ricondotto dell’art. 32 cit., lett. d), che comunque presuppone l’impugnativa della risoluzione del rapporto di lavoro formale, anche se unitamente all’accertamento della costituzione del rapporto in capo a soggetto diverso, risultando non conforme a Costituzione (Corte Cost. n. 143 del 1969) il decorso del termine di decadenza in costanza di rapporto.

5. Ha censurato l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto maturata la decadenza anche in relazione all’impugnativa del contratto a termine ed ha sottolineato come il dies a quo di decorrenza del termine dovesse individuarsi nella data di scadenza del contratto, nel caso di specie il 31.12.13 (con proroga fino al 30.6.14), risultando tempestiva l’impugnativa stragiudiziale con lettera dell’8.1.14.

6. Ha affermato l’illegittimità del contratto a termine, se pure acausale, in quanto stipulato da chi, in base all’avvenuto trasferimento di azienda, doveva considerarsi già datore di lavoro.

7. Il motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento quanto alla censura di violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c).

8. La questione in diritto che occorre affrontare attiene all’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), all’ipotesi in cui il lavoratore, sul presupposto della configurabilità di un trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., chieda l’accertamento del passaggio del proprio rapporto di lavoro in capo al cessionario.

9. La Corte d’appello di Trieste ha ritenuto tale fattispecie ricompresa nella previsione della citata lett. c) dell’art. 32 e, nel caso in esame, verificata la decadenza per essere stata tardivamente proposta la relativa impugnativa stragiudiziale.

10. Questa Corte reputa erronea l’interpretazione data dalla Corte di merito.

11. La L. n. 183 del 2010, art. 32, ha esteso ad una serie di ipotesi ulteriori la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 6(previamente modificato) sull’impugnativa stragiudiziale, originariamente limitata al licenziamento.

12. I commi 3 e 4 del citato art. 32 sono formulati proprio nel senso di estendere (“le disposizioni di cui all’art. 6… si applicano anche..”) alle ipotesi ivi specificamente elencate l’onere di impugnativa stragiudiziale nei sessanta giorni.

13. Posto che impugnare equivale a contestare o confutare, l’estensione attuata dal citato art. 32, deve intendersi come diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda, appunto, impugnare, nel senso di contestarne la legittimità o la validità.

14. Con la conseguenza che fuoriescono dal perimetro del citato art. 32, tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, per denunciarne la nullità o l’illegittimità.

15. Questa Corte (Cass. n. 13179 del 2017) ha, ad esempio, escluso che fosse assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 cit. l’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante nell’ipotesi di cambio di gestione dell’appalto con passaggio dei lavoratori all’impresa nuova aggiudicatrice; si è affermato come tale fattispecie non rientrasse “nella previsione di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d’azienda, nè in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; detta norma presuppone, infatti, non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale”.

16. L’analisi delle ipotesi enumerate dall’art. 32, avvalora la ricostruzione proposta. Il comma 3 sottopone all’onere di impugnativa stragiudiziale, oltre al licenziamento (e al contratto a termine, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 81 del 2015), il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa” anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3), ed il trasferimento disposto ai sensi dell’art. 2103 c.c..

17. Dell’art. 32, comma 4, include, tra l’altro, “la cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento” (lett. c) e “ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto” (lett. d).

18. Anche dell’art. 32, comma 4, al pari del comma 3, estende l’onere di impugnativa stragiudiziale a specifici provvedimenti datoriali, quali appunto il passaggio del rapporto di lavoro del dipendente in capo al cessionario per effetto del trasferimento d’azienda deciso dal datore (dovendo intendersi in senso atecnico, estraneo cioè alla previsione degli artt. 1406 c.c. e segg., il riferimento alla “cessione del contratto” contenuto nella lett. c) dell’art. 32, logicamente incompatibile con l’art. 2112 c.c.), e le fattispecie interpositorie che, se pure azionabili attraverso una domanda di costituzione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore, sono logicamente legate alla contestazione del rapporto fittizio costituito con il soggetto interposto (lett. d).

19. L’interpretazione dell’art. 32, come sopra delineata si impone, oltre che per la coerenza con i criteri letterale e logico sistematico, anche in ragione dell’esigenza di una lettura rigorosa della disposizione suddetta che ha introdotto, per fattispecie prima sottoposte unicamente ai termini di prescrizione, un nuovo e ristretto termine di decadenza per l’impugnativa stragiudiziale e per la successiva azione in giudizio (cfr. Cass. n. 13179 del 2017 in motivazione; Cass., S.U. n. 4913 del 2016).

20. D’altra parte, se si seguisse la tesi della Corte di merito e si ritenesse sottoposta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), la domanda volta ad ottenere il riconoscimento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., risulterebbe oltremodo difficile stabilire il dies a quo di decorrenza del termine; la stessa sentenza impugnata ha individuato in modo impreciso e alternativo tale dies a quo “nel momento in cui il… trasferimento risulta, nei fatti, esteriorizzato”, e lo ha collegato al distacco della dipendente (sul presupposto della simulazione dello stesso) oppure alla conclusione del contratto (a termine) con la società che la lavoratrice assume cessionaria.

21. In conclusione, la previsione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), deve intendersi come relativa alle ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”, o meglio il passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario per effetto di un trasferimento d’azienda posto in essere dal suo datore di lavoro, mentre restano estranee alla stessa le ipotesi in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento d’azienda (formalmente deliberato dal datore di lavoro cedente) e quindi ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario oppure chieda di accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda che assuma realizzato in fatto, come nel caso di specie, e quindi la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario.

22. Tale conclusione non esclude l’onere di impugnare i provvedimenti datoriali che siano compresi nell’elenco di cui all’art. 32 cit., o il cui onere di impugnativa sia altrimenti previsto (cfr. art. 2113 c.c.), eventualmente posti in essere al fine di mascherare il trasferimento d’azienda che il lavoratore assuma, nei fatti, realizzato.

23. Nel caso in esame, è fondata anche la censura mossa alle statuizioni della sentenza d’appello sul contratto a tempo determinato concluso dalla ricorrente con la                   , quanto alla erronea individuazione del dies a quo del termine per l’impugnativa stragiudiziale.

24. Ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. d), “Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre… d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1,2 e 4 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo”.

25. Il dies a quo deve essere individuato nella scadenza del termine e non nella data di conclusione del contratto a tempo determinato; la Corte di merito ha male applicato la disposizione in esame in quanto ha giudicato tardiva l’impugnativa stragiudiziale del 13-14 gennaio 2014 in relazione al contratto concluso tra la ricorrente e la           l’1.7.2013, con scadenza il 31.12.2013.

26. La residua censura che desume l’illegittimità dell’apposizione del termine, nonostante l’applicazione ratione temporis del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che legittimava la stipulazione di contratti a termine acausali, dagli effetti del dedotto trasferimento di azienda, deve ritenersi assorbita in ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso in ordine alla violazione dell’art. 32, comma 4, lett. c) cit..

27. Per le considerazioni finora svolte, il ricorso deve trovare accoglimento in relazione alle censure come sopra esaminate, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi sopra enunciati, oltre che alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2019

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

Sanzione disciplinare della retrocessione – Autoferrotranvieri – Questione di incostituzionalità rimessione alla Corte Costituzionale – Cassazione Ordinanza n. 13525/19 del 20 maggio 2019.

L’inquadramento professionale e la professionalità in genere assumono tutela costituzionale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza sopra indicata è investita di un tema a lungo non affrontato.

Esso è individuato nella speciale sanzione della retrocessione professionale prevista esclusivamente per gli autoferrotranvieri dal regio decreto n.148/1931.

Un lavoratore colpito da tale sanzione e dequalificato in base a sanzione disciplinare, si rivolge al Tribunale di Bergamo , ammettendo i fatti contestati, ma contestando invece la legittimità della norma che consente nello specifico caso dei lavoratori autoferrotranvieri la sanzione della dequalificazione.

Il Tribunale di Brescia respinge la domanda ed il lavoratore si rivolge alla locale Corte d’Appello che conferma la decisione del Tribunale.

Si rivolge quindi alla Corte di Cassazione che, ritenendo fondata l’eccezione di incostituzionalità della norma che prevede la sanzione della retrocessione, investe della questione la Corte Costituzionale che, a questo punto, dovrà pronunciarsi.

L’ordinanza affronta il problema della retrocessione per la prima volta.

Altri interventi giurisprudenziali avevano invece smantellato gran parte dell’impianto disciplinare del settore degli autoferrotranvieri  anche relativamente al punto che prevedeva la giurisdizione del giudice amministrativo, laddove ormai ampi settori del lavoro pubblico erano stati devoluti alla giurisdizione ordinaria.

Al di fuori dello specifico settoriale interesse, la pronuncia riconosce il valore costituzionale del lavoro non solo negli elementi della prestazione e della retribuzione con i connessi diritti, ma eleva la professionalità ed il ruolo anche morale che ne consegue come autonomo diritto esplicazione dell’articolo 35 della Costituzione che non consente provvedimenti umilianti e degradanti.

Un passo importante nel riconoscimento del valore sia morale che contrattuale del bene professionalità e della tutela che merita.

Leggiamo e non possiamo che condividere il punto affrontato dalla difesa del ricorrente  “violazione diritto al lavoro” , laddove afferma che esso non si attua solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro , tra i quali senz’altro il diritto alla qualifica che è definita come bene legato alla persona del lavoratore come livello di esperienze personalmente maturate e conferite nel rapporto di lavoro.

Segue il testo dell’ordinanza.

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 19/02/2019) 20-05-2019, n. 13525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 3038/2015 proposto da:

P.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO DELLA VITE;

– ricorrente –

contro

A.T.B. SERVIZI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MATTEO GOLFERINI, MARGHERITA CAGGESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 327/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/07/2014 R.G.N. 60/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SERGIO GANDI per delega verbale Avvocato MARGHERITA CAGGESE.

Svolgimento del processo

Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 37, all. A, nonchè la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso provvedimento.

Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l’erroneità della decisione.

La società convenuta resisteva all’interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità.

La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio.

La Corte territoriale osservava che, come correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano.

La Corte d’Appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931, non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento stipendiale.

Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di concessione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonchè le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti.

Alla luce della specialità del rapporto, era dunque condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria.

Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non era invocabile proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse.

Secondo la Corte territoriale, era altresì manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente.

Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici.

La Corte di merito condivideva anche l’affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c., prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4. Nè poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni.

Infine, la Corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori discussione.

Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonchè tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018.

All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931,art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poichè esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro.

La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari.

Poichè la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, nè tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando – anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua – addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente.

Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni.

Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost..

D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina.

La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioè della sua capacità tecnicocon il progredire delle esperienze del lavoratore.

Disparità di trattamento.

Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti mansioni.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia.

D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacchè l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost..

Nè potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo.

Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benchè chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorchè la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano.

Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, nè come fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.

Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri, “problematica” da considerarsi fatto controverso e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti.

Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perchè la stessa dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro.

In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt. 37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l’art. 3 Cost..

Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), nè per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991.

In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall’armamentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori.

Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 Cost., non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7.

Il D.Lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicchè aveva opinato nel senso che non vi fossero più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970.

Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purchè sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poichè il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale.

Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti” – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, poichè soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell’art. 3 Cost.. Non era stato esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di motivazione.

Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui è processo.

Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 c.p.c., da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un approfondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931, ma altresì irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso.

Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613 del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22/04 – 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58″, in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti collettivi”. “La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato – già con il primo dei decreti delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonchè alla giurisdizione del giudice ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”.

In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100– 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego – salvo specifiche eccezioni – nell’area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa “devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, – attuativo della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali – il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina.

In proposito, non può non convenirsi con quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius “contrattualizzazione”) dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operatività dell’art. 58. Ed infatti – come già si è rilevato più sopra – il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell'”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del 1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5.

Tale norma – destinata, peraltro ad operare “a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui all’art. 72” (art. 68, comma 4) – è stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego).

Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perchè l’indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo, trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poichè la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è ormai venuta del tutto meno. E’ pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che – concepita in epoca precostituzionale – non può più essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare più possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma….”). Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento – ad es. sanzione disciplinare della retrocessione – la giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore – che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile.

V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio, più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione – peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perchè proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla giurisdizione amministrativa – era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni, giacchè le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata.

Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice amministrativo, anzichè a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria).

D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50(Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies – misure sul trasporto pubblico locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto, stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies è abrogato”.

Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.

L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria.

Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente.

Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorità competenti a giudicare delle mancanze relative.

Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo.

In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato).

Nè può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all’art. 36 Cost..

La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: “…Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce nè un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, nè un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost., comma 1) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)….” (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte – VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio – 10 aprile 2019: “La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una alternativa al licenziamento….”).

P.Q.M.

TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: – dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”, artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione) dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nei sensi meglio indicati nella motivazione che precede;

– dispone la sospensione di questo giudizio;

– ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle Parti di questo giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri;

– ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

– dispone, infine, l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.

Manda alla Cancelleria per gli anzidetti adempimenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della IV Sezione Civile – Lavoro di questa Corte, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019

RSA e RSU: gli accordi interconfederali

Le RSA sono previste dall’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori e sono costituite ad iniziativa dei lavoratori, maesclusivamente nell’ambito di organizzazioni sindacali aventi determinati requisiti di rappresentatività.

La Corte costituzionale, con sentenza del 3 luglio 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede che la Rappresentanza Sindacale Aziendale sia costituita anche da associazioni sindacali che, pur non avendo sottoscritto contratti collettivi applicati nell’azienda, abbiano partecipato alla trattativa.

Le RSU sono state introdotte dall’accordo interconfederale del 1993 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL. Da ultimo è intervenuto il T.U. sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, disciplina specificatamente le rappresentanze sindacali nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, prevedendo che ha stabilito che dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza (o RSU o RSA).

L’iniziativa per la costituzione di RSU e per la presentazione di liste elettorali spetta sia alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2010, del Protocollo 31 maggio 2013 e dello stesso T.U., che alle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva interessata. In alternativa, le stesse facoltà sono riconosciute alle associazioni sindacali che hanno aderito formalmente al contenuto degli accordi di cui sopra e la cui lista elettorale, nelle aziende con più di 60 dipendenti, è corredata da un numero di firme dei lavoratori impiegati in quell’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto (oppure almeno tre firme nelle imprese di dimensione compresa tra 16 e 59 dipendenti). Nel caso di rinnovi successivi, l’iniziativa può essere esercitata anche dalle RSU già esistenti.

Le RSU vengono elette mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti.

Le RSU subentrano alle RSA e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e all’esercizio delle funzioni loro spettanti.

Di seguito il Testo Unico sulla Rappresentanza Confindustria – firmato da Cgil, Cisl e Uil a Roma il 10 gennaio 2014:

“PARTE PRIMA MISURA E CERTIFICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA AI FINI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE DI CATEGORIA

Per la misura e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono i dati associativi (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e i dati elettorali ottenuti (voti espressi) in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie. Il datore di lavoro provvederà, alle condizioni e secondo le modalità contenute nel presente accordo, ad effettuare la rilevazione del numero delle deleghe dei dipendenti iscritti alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del presente Accordo. La delega dovrà contenere l’indicazione della organizzazione sindacale di categoria e del conto corrente bancario al quale il datore di lavoro dovrà versare il contributo associativo. Il contributo associativo non potrà essere inferiore ad un valore percentuale di una retribuzione convenzionale costituita dal minimo tabellare in vigore, nel mese di gennaio di ciascun anno, che ogni singolo Ccnl individuerà. Il lavoratore che intenda revocare la delega, dovrà rilasciare apposita dichiarazione scritta e la revoca, ai fini della rilevazione del numero delle deleghe, avrà effetto al termine del mese nel quale è stata notificata al datore di lavoro. La raccolta delle nuove deleghe dovrà avvenire mediante l’utilizzo di un modulo suddiviso in due parti, la prima delle quali, contenente l’indicazione del sindacato beneficiario del contributo, sarà trasmessa al datore di lavoro e la seconda, sempre a cura del lavoratore, sarà inviata al medesimo sindacato. Le imprese accetteranno anche le deleghe a favore delle organizzazioni sindacali di categoria che aderiscano e si obblighino a rispettare integralmente i contenuti del presente Accordo nonché dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo 31 maggio 2013. Il numero delle deleghe viene rilevato dall’Inps tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali (Uniemens). Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, tramite apposita convenzione, definiranno con l’Inps l’introduzione nelle dichiarazioni mensili Uniemens di un’apposita sezione per la rilevazione annuale del numero delle deleghe sindacali relative a ciascun ambito di applicazione del Ccnl. Per questo scopo, le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo procederanno a catalogare i contratti collettivi nazionali di categoria, attribuendo a ciascun contratto uno specifico codice, che sarà comunicato anche al Cnel. Le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo attribuiranno uno specifico codice identificativo a tutte le organizzazioni sindacali di categoria interessate a partecipare alla rilevazione della propria rappresentanza per gli effetti della stipula dei contratti collettivi nazionali di lavoro e ne daranno tempestiva informativa all’Inps, alla Confindustria e al Cnel. Ciascun datore di lavoro, attraverso il modulo Uniemens, indicherà nell’apposita sezione, il codice del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato e il numero delle deleghe ricevute per ogni singola organizzazione sindacale di categoria con relativo codice identificativo nonché la forma di rappresentanza presente nelle unità produttive con più di quindici dipendenti. Ulteriori dati potranno essere rilevati secondo le modalità definite nella convenzione con l’Inps. In forza della specifica convenzione, l’Inps elaborerà annualmente i dati raccolti e, per ciascun contratto collettivo nazionale di lavoro, aggregherà il dato relativo alle deleghe raccolte da ciascuna organizzazione sindacale di categoria relativamente al periodo gennaio – dicembre di ogni anno. Il numero degli iscritti, ai fini delle rilevazioni della rappresentanza di ciascuna organizzazione sindacale di categoria su base nazionale, sarà determinato dividendo il numero complessivo delle rilevazioni mensili, effettuate in virtù delle deleghe, per dodici. Per l’anno 2014 si rileveranno le deleghe relative al secondo semestre. I dati raccolti dall’Inps saranno trasmessi – previa definizione di un protocollo d’intesa con i firmatari del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo – al Cnel che li pondererà con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle Rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni. I dati degli iscritti rilevati dall’Inps in relazione alle unità produttive che superino i quindici dipendenti e in cui siano presenti Rsa ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale saranno trasmessi, entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello di rilevazione, al Cnel. Per consentire la raccolta dei dati relativi ai consensi ottenuti dalle singole organizzazioni sindacali di categoria in occasione delle elezioni delle Rsu Nei singoli luoghi di lavoro, copia del verbale di cui al punto 19 della sezione terza della Parte Seconda del presente accordo dovrà essere trasmesso a cura della Commissione elettorale al Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo). L’invio dei verbali è previsto sia per le rappresentanze sindacali unitarie che verranno elette successivamente all’entrata in vigore del presente accordo sia per quelle elette antecedentemente ancora validamente in carica. Il Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) raccoglierà tutti i dati relativi alle Rsu validamente in carica alla data del 31 luglio di ogni anno, desumendoli dai singoli verbali elettorali pervenuti al Comitato medesimo, raggruppandoli per ciascuna organizzazione sindacale di categoria, e li trasmette al Cnel entro il mese di gennaio dell’anno successivo a quello di rilevazione. Il Cnel provvederà a sommare ai voti conseguiti da ciascuna organizzazione sindacale di categoria, il numero degli iscritti risultanti nelle unità produttive con più di 15 dipendenti ove siano presenti Rsa ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale. Entro il mese di aprile il Cnel provvederà alla ponderazione del dato elettorale con il dato associativo – con riferimento ad ogni singolo Ccnl – secondo quanto previsto ai punti 4 e 5 del Protocollo d’Intesa 31 maggio 2013, ossia determinando la media semplice fra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu sul totale dei votanti, quindi, con un peso del 50% per ciascuno dei due dati. Effettuata la ponderazione, il Cnel comunicherà alle parti stipulanti il presente accordo il dato di rappresentanza di ciascuna organizzazione sindacale di categoria relativo ai singoli contratti collettivi nazionali di lavoro. I dati sulla rappresentanza saranno determinati e comunicati dal Cnel entro il mese di maggio dell’anno successivo a quello della rilevazione e, per l’anno 2015, saranno utili, oltre che per il raggiungimento della soglia del 5%: a) per la verifica della maggioranza del 50%+1, per tutti i rinnovi contrattuali che saranno sottoscritti dopo la comunicazione effettuata dal Cnel; b) ai fini della misurazione delle maggioranze relative alle piattaforme di rinnovo per i contratti che scadono dal novembre 2015. Successivamente e di regola, i dati comunicati dal Cnel saranno validamente utilizzabili, oltre che per il raggiungimento della soglia del 5% anche per la determinazione della maggioranza del 50%+1: a) ai fini della sottoscrizione dei Ccnl, in base all’ultimo dato disponibile; b) ai fini della presentazione delle piattaforme, in base al dato disponibile sei mesi prima della scadenza del contratto.

PARTE SECONDA REGOLAMENTAZIONE DELLE RAPPRESENTANZE IN AZIENDA

Sezione prima. Regole generali sulle forme della rappresentanza in azienda

Le parti contraenti il presente accordo concordano che in ogni singola unità produttiva con più di quindici dipendenti dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza. Nel caso di unità produttive con più di quindici dipendenti ove non siano mai state costituite forme di rappresentanza sindacale, le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo concordano che, qualora non si proceda alla costituzione di rappresentanze sindacali unitarie ma si opti per il diverso modello della rappresentanza sindacale aziendale: a) dovrà essere garantita l’invarianza dei costi aziendali rispetto alla situazione che si sarebbe determinata con la costituzione della rappresentanza sindacale unitaria; b) alla scadenza della rsa, l’eventuale passaggio alle Rsu potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni sindacali che rappresentino, a livello nazionale, la maggioranza del 50%+1 come determinata nella parte prima del presente accordo. In tutti i casi in cui trova applicazione l’art. 2112 del Codice civile e che determinino rilevanti mutamenti nella composizione delle unità produttive interessate, ferma restando la validità della Rsu in carica fino alla costituzione della nuova Rsu, si procederà a nuove elezioni entro tre mesi dal trasferimento. Sezione seconda. Modalità di costituzione e di funzionamento delle Rappresentanze sindacali unitarie Premessa Le seguenti regole in materia di Rappresentanze sindacali unitarie, riprendono la disciplina contenuta nell’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 con gli adeguamenti alle nuove intese interconfederali. Le seguenti regole trovano applicazione per le procedure di costituzione delle nuove Rsu e per il rinnovo di quelle già esistenti.

1. Ambito e iniziativa per la costituzione Rappresentanze sindacali unitarie possono essere costituite nelle unità produttive nelle quali il datore di lavoro occupi più di 15 dipendenti, a iniziativa delle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo interconfederale. Ai fini del computo del numero dei dipendenti i lavoratori con contratto di lavoro a part time saranno computati in misura proporzionale all’orario di lavoro contrattuale mentre i lavoratori con contratto a tempo determinato saranno computati in base al numero medio mensile di quelli impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro. Hanno potere di iniziativa anche le organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del Ccnl applicato nell’unità produttiva ovvero le associazioni sindacali abilitate alla presentazione delle liste elettorali ai sensi del punto 4, sezione terza, a condizione che abbiano comunque effettuato adesione formale al contenuto dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo. L’iniziativa di cui al primo comma può essere esercitata, congiuntamente o disgiuntamente, da parte delle associazioni sindacali come sopra individuate. La stessa iniziativa, per i successivi rinnovi, potrà essere assunta anche dalla Rsu ove validamente esistente.

2. Composizione Alla costituzione della Rsu si procede mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti. Nella definizione dei collegi elettorali, al fine della distribuzione dei seggi, le associazioni sindacali terranno conto delle categorie degli operai, impiegati e quadri di cui all’art. 2095 del Codice civile, nei casi di incidenza significativa delle stesse nella base occupazionale dell’unità produttiva, per garantire un’adeguata composizione della rappresentanza. Nella composizione delle liste si perseguirà un’adeguata rappresentanza di genere, attraverso una coerente applicazione delle norme antidiscriminatorie.

3. Numero dei componenti Il numero dei componenti le Rsu sarà pari almeno a: a) 3 componenti per la Rsu costituita nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti; b) 3 componenti ogni 300 o frazione di 300 dipendenti nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti; c) 3 componenti ogni 500 o frazione di 500 dipendenti nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero di cui alla precedente lett. b).

4. Diritti, permessi, libertà sindacali, tutele e modalità di esercizio I componenti delle Rsu subentrano ai dirigenti delle Rsa nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti; per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3° della legge n. 300/1970. Sono fatte salve le condizioni di miglior favore eventualmente già previste nei confronti delle associazioni sindacali dai Ccnl o accordi collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della Rsa, diritti, permessi e libertà sindacali. Nelle stesse sedi negoziali si procederà, nel principio dell’invarianza dei costi, all’armonizzazione nell’ambito dei singoli istituti contrattuali, anche in ordine alla quota eventualmente da trasferire ai componenti della Rsu. In tale occasione, sempre nel rispetto dei principi sopra concordati, le parti definiranno in via prioritaria soluzioni in base alle quali le singole condizioni di miglior favore dovranno permettere alle organizzazioni sindacali con le quali si erano convenute, di mantenere una specifica agibilità sindacale. Sono fatti salvi in favore delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie il Ccnl applicato nell’unità produttiva, i seguenti diritti: a) diritto a indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite, spettanti a ciascun lavoratore ex art. 20, Legge n. 300/1970; b) diritto ai permessi non retribuiti di cui all’art. 24, Legge n. 300/1970; c) diritto di affissione di cui all’art. 25 della Legge n. 300 del 1970.

5. Clausola di armonizzazione Le Rsu subentrano alle Rsa e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge.

6. Durata e sostituzione nell’incarico I componenti della Rsu restano in carica per tre anni, al termine dei quali decadono automaticamente. In caso di dimissioni, il componente sarà sostituito dal primo dei non eletti appartenente alla medesima lista. Le dimissioni e conseguenti sostituzioni dei componenti le Rsu non possono concernere un numero superiore al 50% degli stessi, pena la decadenza della Rsu con conseguente obbligo di procedere al suo rinnovo, secondo le modalità previste dal presente accordo. Il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente della Rsu ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito.

7. Decisioni Le decisioni relative a materie di competenza delle Rsu sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo che recepisce i contenuti dell’Accordo interconfederale 28 giugno 2011. Le Rsu costituite nelle unità produttive di imprese plurilocalizzate potranno dare vita a organi o a procedure di coordinamento fissandone espressamente poteri e competenze. 8. Clausola di salvaguardia Le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo o che, comunque, aderiscano alla disciplina in essi contenuta partecipando alla procedura di elezione della Rsu, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire Rsa ai sensi dell’art. 19, della Legge 20 maggio 1970, n. 300. In particolare, le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque ad essi aderiscano, si impegnano a non costituire Rsa nelle realtà in cui siano state o vengano costituite Rsu. Il passaggio dalle Rsa alle Rsu potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo 31 maggio 2013. Sezione terza. Disciplina della elezione della Rsu

1. Modalità per indire le elezioni Almeno tre mesi prima della scadenza del mandato della Rsu, le associazioni sindacali di cui al punto 1, sezione seconda, del presente accordo, congiuntamente o disgiuntamente, o la Rsu uscente, provvederanno ad indire le elezioni mediante comunicazione da affiggere nell’apposito albo che l’azienda metterà a disposizione della Rsu e da inviare alla Direzione aziendale. Il termine per la presentazione delle liste è di 15 giorni dalla data di pubblicazione dell’annuncio di cui sopra; l’ora di scadenza si intende fissata alla mezzanotte del quindicesimo giorno.

2. Quorum per la validità delle elezioni Le organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti il presente accordo favoriranno la più ampia partecipazione dei lavoratori alle operazioni elettorali. Le elezioni sono valide ove alle stesse abbia preso parte più della metà dei lavoratori aventi diritto al voto. Nei casi in cui detto quorum non sia stato raggiunto, la Commissione elettorale e le organizzazioni sindacali operanti all’interno dell’azienda prenderanno ogni determinazione in ordine alla validità della consultazione in relazione alla situazione venutasi a determinare nell’unità produttiva.

3. Elettorato attivo e passivo Hanno diritto di votare tutti gli apprendisti, gli operai, gli impiegati e i quadri non in prova in forza all’unità produttiva alla data delle elezioni. Hanno altresì diritto al voto i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato che prestino la propria attività al momento del voto. Ferma restando l’eleggibilità degli operai, impiegati e quadri non in prova in forza all’unità produttiva, candidati nelle liste di cui al successivo punto 4, la contrattazione di categoria, che non abbia già regolato la materia in attuazione dell’Accordo del 20 dicembre 1993, dovrà regolare l’esercizio del diritto di elettorato passivo dei lavoratori non a tempo indeterminato.

4. Presentazione delle liste All’elezione della Rsu possono concorrere liste elettorali presentate dalle: a) organizzazioni sindacali di categoria aderenti a confederazioni firmatarie del presente accordo oppure dalle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva; b) associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo a condizione che: 1) accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo, dell’Accodo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013; 2) la lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti. Nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti la lista dovrà essere corredata da almeno tre firme di lavoratori. Non possono essere candidati coloro che abbiano presentato la lista ed i membri della Commissione elettorale. Ciascun candidato può presentarsi in una sola lista. Ove, nonostante il divieto di cui al precedente comma, un candidato risulti compreso in più di una lista, la Commissione elettorale di cui al punto 5, dopo la scadenza del termine per la presentazione delle liste e prima di procedere alla affissione delle liste stesse ai sensi del punto 7, inviterà il lavoratore interessato a optare per una delle liste. Il numero dei candidati per ciascuna lista non può superare di oltre 2/3 il numero dei componenti la Rsu da eleggere nel collegio.

5. Commissione elettorale Al fine di assicurare un ordinato e corretto svolgimento della consultazione, nelle singole unità produttive viene costituita una Commissione elettorale. Per la composizione della stessa ogni organizzazione abilitata alla presentazione di liste potrà designare un lavoratore dipendente dall’unità produttiva, non candidato.

6. Compiti della Commissione La Commissione elettorale ha il compito di: a) ricevere la presentazione delle liste, rimettendo immediatamente dopo la sua completa integrazione ogni contestazione relativa alla rispondenza delle liste stesse ai requisiti previsti dal presente accordo; b) verificare la valida presentazione delle liste; c) costituire i seggi elettorali, presiedendo alle operazioni di voto che dovranno svolgersi senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale; d) assicurare la correttezza delle operazioni di scrutinio dei voti; e) esaminare e decidere su eventuali ricorsi proposti nei termini di cui al presente accordo; f) proclamare i risultati delle elezioni, comunicando gli stessi a tutti i soggetti interessati, ivi comprese le associazioni sindacali presentatrici di liste.

7. Affissioni Le liste dei candidati dovranno essere portate a conoscenza dei lavoratori, a cura della Commissione elettorale, mediante affissione nell’albo di cui al punto 1, almeno otto giorni prima della data fissata per le elezioni.

8. Scrutatori È in facoltà dei presentatori di ciascuna lista di designare uno scrutatore per ciascun seggio elettorale, scelto fra i lavoratori elettori non candidati. La designazione degli scrutatori deve essere effettuata non oltre le 24 ore che precedono l’inizio delle votazioni.

9. Segretezza del voto Nelle elezioni il voto è segreto e diretto e non può essere espresso per interposta persona.

10. Schede elettorali La votazione ha luogo a mezzo di scheda unica, comprendente tutte le liste disposte in ordine di presentazione e con la stessa evidenza. In caso di contemporaneità della presentazione l’ordine di precedenza sarà estratto a sorte. Le schede devono essere firmate da almeno due componenti del seggio; la loro preparazione e la votazione devono avvenire in modo da garantire la segretezza e la regolarità del voto. La scheda deve essere consegnata a ciascun elettore all’atto della votazione dal Presidente del seggio. Il voto di lista sarà espresso mediante crocetta tracciata sulla intestazione della lista. Il voto è nullo se la scheda non è quella predisposta o se presenta tracce di scrittura o analoghi segni di individuazione.

11. Preferenze L’elettore può manifestare la preferenza solo per un candidato della lista da lui votata. Il voto preferenziale sarà espresso dall’elettore mediante una crocetta apposta a fianco del nome del candidato preferito, ovvero scrivendo il nome del candidato preferito nell’apposito spazio della scheda. L’indicazione di più preferenze date alla stessa lista vale unicamente come votazione della lista, anche se non sia stato espresso il voto della lista. Il voto apposto a più di una lista, o l’indicazione di più preferenze date a liste differenti, rende nulla la scheda. Nel caso di voto apposto ad una lista e di preferenze date a candidati di liste differenti, si considera valido solamente il voto di lista e nulli i voti di preferenza.

12. Modalità della votazione Il luogo e il calendario di votazione saranno stabiliti dalla Commissione elettorale, previo accordo con la Direzione aziendale, in modo tale da permettere a tutti gli aventi diritto l’esercizio del voto, nel rispetto delle esigenze della produzione. Qualora l’ubicazione degli impianti e il numero dei votanti lo dovessero richiedere, potranno essere stabiliti più luoghi di votazione, evitando peraltro eccessivi frazionamenti anche per conservare, sotto ogni aspetto, la segretezza del voto. Nelle aziende con più unità produttive le votazioni avranno luogo di norma contestualmente. Luogo e calendario di votazione dovranno essere portati a conoscenza di tutti i lavoratori, mediante comunicazione nell’albo esistente presso le aziende, almeno 8 giorni prima del giorno fissato per le votazioni.

13. Composizione del seggio elettorale Il seggio è composto dagli scrutatori di cui al punto 8, parte terza, del presente Accordo e da un Presidente, nominato dalla Commissione elettorale.

14. Attrezzatura del seggio elettorale A cura della Commissione elettorale ogni seggio sarà munito di un’urna elettorale, idonea ad una regolare votazione, chiusa e sigillata sino alla apertura ufficiale della stessa per l’inizio dello scrutinio. Il seggio deve inoltre poter disporre di un elenco completo degli elettori aventi diritto al voto presso di esso.

15. Riconoscimento degli elettori Gli elettori, per essere ammessi al voto, dovranno esibire al Presidente del seggio un documento di riconoscimento personale. In mancanza di documento personale essi dovranno essere riconosciuti da almeno due degli scrutatori del seggio; di tale circostanza deve essere dato atto nel verbale concernente le operazioni elettorali.

16. Compiti del Presidente Il Presidente farà apporre all’elettore, nell’elenco di cui al precedente punto 14, la firma accanto al suo nominativo.

17. Operazioni di scrutinio Le operazioni di scrutinio avranno inizio subito dopo la chiusura delle operazioni elettorali di tutti i seggi dell’unità produttiva. Al termine dello scrutinio, a cura del Presidente del seggio, il verbale dello scrutinio, su cui dovrà essere dato atto anche delle eventuali contestazioni, verrà consegnato – unitamente al materiale della votazione (schede, elenchi, ecc.) – alla Commissione elettorale che, in caso di più seggi, procederà alle operazioni riepilogative di calcolo dandone atto nel proprio verbale. La Commissione elettorale al termine delle operazioni di cui al comma precedente provvederà a sigillare in un unico piego tutto il materiale (esclusi i verbali) trasmesso dai seggi; il piego sigillato, dopo la definitiva convalida della Rsu Sarà conservato secondo accordi tra la Commissione elettorale e la Direzione aziendale in modo da garantirne la integrità e ciò almeno per tre mesi. Successivamente sarà distrutto alla presenza di un delegato della Commissione elettorale e di un delegato della Direzione.

18. Attribuzione dei seggi Ai fini dell’elezione dei componenti della Rsu, il numero dei seggi sarà ripartito, secondo il criterio proporzionale, con applicazione del metodo dei resti più alti, in relazione ai voti conseguiti dalle singole liste concorrenti. Nell’ambito delle liste che avranno conseguito un numero di voti sufficiente all’attribuzione di seggi, i componenti saranno individuati seguendo l’ordine dei voti di preferenza ottenuti dai singoli candidati e, in caso di parità di voti di preferenza, in relazione all’ordine nella lista.

19. Ricorsi alla Commissione elettorale La Commissione elettorale, sulla base dei risultati di scrutinio, procede alla assegnazione dei seggi e alla redazione di un verbale sulle operazioni elettorali, che deve essere sottoscritto da tutti i componenti della Commissione stessa. Trascorsi 5 giorni dalla affissione dei risultati degli scrutini senza che siano stati presentati ricorsi da parte dei soggetti interessati, si intende confermata l’assegnazione dei seggi di cui al primo comma e la Commissione ne dà atto nel verbale di cui sopra, che sarà trasmesso al comitato provinciale dei Garanti (o analogo organismo costituito per lo scopo di rilevare i risultati elettorali). Ove invece siano stati presentati ricorsi nei termini suddetti, la Commissione deve provvedere al loro esame entro 48 ore, inserendo nel verbale suddetto la conclusione alla quale è pervenuta. Copia di tale verbale e dei verbali di seggio dovrà essere notificata a ciascun rappresentante delle associazioni sindacali che abbiano presentato liste elettorali, entro 48 ore dal compimento delle operazioni di cui al comma precedente e notificata, a mezzo raccomandata con ricevuta ovvero a mezzo posta elettronica certificata, nel termine stesso, sempre a cura della Commissione elettorale, al Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) e alla Associazione industriale territoriale, che, a sua volta, ne darà pronta comunicazione all’azienda.

20. Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) Contro le decisioni della Commissione elettorale è ammesso ricorso entro 10 giorni ad apposito Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo). Tale Comitato è composto, a livello provinciale, da un membro designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali, presentatrici di liste, interessate al ricorso, da un rappresentante dell’associazione industriale locale di appartenenza, ed è presieduto dal Direttore della Dtl o da un suo delegato. Il Comitato si pronuncerà entro il termine perentorio di 10 giorni.

21. Comunicazione della nomina dei componenti della Rsu La nomina dei componenti della Rsu, una volta definiti gli eventuali ricorsi, sarà comunicata per iscritto alla Direzione aziendale per il tramite della locale organizzazione imprenditoriale d’appartenenza a cura delle organizzazioni sindacali di rispettiva appartenenza dei componenti.

22. Adempimenti della Direzione aziendale La Direzione aziendale metterà a disposizione della Commissione elettorale l’elenco dei dipendenti aventi diritto al voto nella singola unità produttiva e quanto necessario a consentire il corretto svolgimento delle operazioni elettorali.

PARTE TERZA TITOLARITÀ ED EFFICACIA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE DI CATEGORIA E AZIENDALE

Il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale. Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni sindacali firmatarie del presente Accordo e dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel. Nel rispetto della libertà e autonomia di ogni Organizzazione sindacale, le Federazioni di categoria – per ogni singolo Ccnl – decideranno le modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni con proprio regolamento. In tale ambito, e in coerenza con le regole definite nella presente intesa, le Organizzazioni sindacali favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie. Ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’articolo 19 e seguenti della Legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del Ccnl definito secondo le regole del presente accordo. Fermo restando quanto previsto al secondo paragrafo, in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+1. I contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle Organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza, come sopra determinata, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice – le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto – saranno efficaci ed esigibili. La sottoscrizione formale dell’accordo, come sopra descritta, costituirà l’atto vincolante per entrambe le Parti. Il rispetto delle procedure sopra definite comporta che gli accordi in tal modo conclusi sono efficaci ed esigibili per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici nonchè pienamente esigibili per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa. Conseguentemente le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti. La contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge. I contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, operanti all’interno dell’azienda, se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali convenute con il presente Accordo. In caso di presenza delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ex art. 19 della Legge n. 300/70, i suddetti contratti collettivi aziendali esplicano pari efficacia se approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati ai sensi della presente intesa. Ai fini di garantire analoga funzionalità alle forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, come previsto per le rappresentanze sindacali unitarie anche le rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, quando presenti, durano in carica tre anni. Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali con le modalità sopra indicate devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione sindacale espressione di una delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti. I contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative così definite esplicano l’efficacia generale come disciplinata nel presente accordo.

PARTE QUARTA DISPOSIZIONI RELATIVE ALLE CLAUSOLE E ALLE PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO E ALLE CLAUSOLE SULLE CONSEGUENZE DELL’INADEMPIMENTO

Le parti firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 ovvero del presente Accordo convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate. Pertanto i contratti collettivi nazionali di categoria, sottoscritti alle condizioni di cui al Protocollo d’intesa 31 maggio 2013 e del presente accordo, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto. I medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa. Le disposizioni definite dai contratti collettivi nazionali di lavoro, al solo scopo di salvaguardare il rispetto delle regole concordate nell’accordo del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e nel presente accordo, dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa. I contratti collettivi aziendali, approvati alla condizioni previste e disciplinate nella parte terza del presente accordo, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori.

CLAUSOLE TRANSITORIE E FINALI Le parti firmatarie della presente intesa si impegnano a far rispettare le regole qui concordate e si impegnano, altresì, affinché le rispettive organizzazioni di categoria ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto pattuito nel presente accordo. In via transitoria, e in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia disciplinata dalla parte quarta del presente accordo, le parti contraenti concordano che eventuali comportamenti non conformi agli accordi siano oggetto di una procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale. A tal fine, le organizzazioni di categoria appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a richiedere alle rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato composto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro, che riveste la carica di Presidente, individuato di comune accordo o, in mancanza di accordo, a sorteggio fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo, entro 30 giorni, dalle parti stipulanti il presente accordo. Nella decisone del collegio, che dovrà intervenire entro dieci giorni dalla sua composizione, dovranno essere previste le misure da applicarsi nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro in caso di inadempimento degli obblighi assunti con il presente accordo e, in particolare, dell’obbligo di farne rispettare i contenuti alle rispettive articolazioni, a tutti i livelli. Viene poi istituita, a cura delle parti firmatarie del presente accordo, una Commissione Interconfederale permanente con lo scopo di favorirne e monitorarne l’attuazione, nonché di garantirne l’esigibilità. La Commissione sarà composta, pariteticamente, da sei membri, designati da Confindustria e dalle tre organizzazioni sindacali più rappresentative al momento della composizione della Commissione, tra esperti in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Un settimo componente della Commissione Interconfederale, che assumerà funzioni di Presidente, sarà individuato fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo. La Commissione potrà avvalersi della consulenza di esperti. Ai componenti non spetta alcuna indennità. La Commissione è nominata per un triennio e i suoi membri possono essere confermati una sola volta. Fatte salve le clausole che disciplinano l’esigibilità per i singoli contratti collettivi nazionali di categoria, la Commissione Interconfederale stabilisce, con proprio regolamento, da definire entro tre mesi dalla stipula del presente accordo, le modalità del proprio funzionamento ed i poteri di intervento per garantire l’esigibilità dei contenuti del presente accordo, definendo ogni controversia anche attraverso lo svolgimento di un giudizio arbitrale. La Commissione Interconfederale provvede all’autonoma gestione delle spese relative al proprio funzionamento, nei limiti degli stanziamenti previsti da un apposito fondo istituito a tale scopo dalle parti stipulanti il presente accordo. Il presente accordo potrà costituire oggetto di disdetta e recesso ad opera delle parti firmatarie, previo preavviso pari a 4 mesi”.