Patent Box snellito per le imprese italiane negli USA

Riportiamo l’articolo di apparso su Italia Oggi il 02.09.20 del dott. Francesco Rizzo Marullo, Consulente fiscale autorizzato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e Consulente legale straniero per lo stato del Massachusetts, socio del Centro Studi, sulla semplificazione degli obblighi documentali della Patent Box Americana.

Il dott.Rizzo Marullo da oltre 10 anni si occupa a Boston non solo di fiscalità ma anche di internazionalizzazione delle imprese italiane ed europee che vogliono entrare nel mercato statunitense.

Il Fondo per le nuove competenze. Come ridurre l’orario di lavoro, facendo formazione.

Il fondo nuove competenze è stato istituito con il DL Rilancio n.34/2000 il quale prevede che imprese e sindacati mediante la contrattazione collettiva territoriale o aziendale possano rimodulare l’orario di lavoro , destinando parte dello stesso a percorsi formativi.

La norma è stata emanata al fine di consentire la graduale ripresa delle attività lavorative in conseguenza della pandemia.

Gli oneri delle ore di formazione ed i relativi ed i relativi contributi sono posti a carico di ANPAL.

I programmi sono aperti ai Fondi Paritetici Interprofessionali costituiti in base all’articolo 118 della legge 388/2000.

E’ in corso con il decreto di agosto il finanziamento del provvedimento e l’emanazione del relativo decreto interministeriale di attuazione.

6 settembre 2020.

Fabio Petracci.

LAVORO DEI RIDERS TRA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, FATTISPECIE PENALI E “COOPERATIVISMO DI PIATTAFORMA”

In un mondo del lavoro in trasformazione, le tradizionali categorie di sussunzione e
inquadramento sono fortemente in tensione, lungo le crepe che già si erano aperte negli ultimi
decenni. In particolare, vuoi per la forte visibilità, anche mediatica, dei lavoratori coinvolti,
vuoi per la forza delle istanze rivendicative espresse, il lavoro nel food delivery ha attirato
l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza, riportando viva l’attenzione sulla tematica,
di ordine più generale, del lavoro eseguito nell’ambito della c.d. economia delle piattaforme.
Sul fronte legislativo si segnala il recente d.l. n. 101/2019, meglio noto come “decreto
imprese”, convertito in l. n. 128/2019, che ha introdotto nell’ordinamento disposizioni
specifiche destinate ai riders, inquadrando il relativo rapporto di lavoro nell’ambito delle
collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 e recependo in tal modo
quanto affermato dalla Corte di Appello di Torino con la nota sentenza del 4 febbraio 2019.
Il decreto ha modificato l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015, che adesso recita: “A far data
dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai
rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente
personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione
della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
L’ultimo periodo della disposizione in commento induce a ritenere che il legislatore abbia
specificato una possibilità di applicazione della disposizione alla casistica dei lavoratori
dell’economia delle piattaforme digitali. In realtà, dalla lettura del capo V- bis, “Tutela del
lavoro tramite piattaforme digitali”, aggiunto al decreto 81/2015 dal d.l. 101/2019, si evince
che il rinnovato comma 2 d. lgs. 81/2015 non fa riferimento a tutti i lavoratori impegnati
nell’economia delle piattaforme, ma soltanto ai «lavoratori autonomi che svolgono attività di
consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a
motore di cui all’articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali» (articolo 47 bis,
comma 1, del d. lgs. n. 81/2015), aprendo una separazione tra i c.d. riders e tutti gli altri
lavoratori delle piattaforme.
Al netto della condivisibilità di questa scelta, si rileva, su un piano di tecnica normativa, che il
legislatore si è astenuto dal definire lo status giuridico della fattispecie concreta rappresentata
dai lavoratori delle piattaforme, o anche soltanto dai riders, evitando di entrare nel complesso
dibattito sulla sussunzione di questi ultimi come lavoratori subordinati oppure autonomi. Si è
invece limitato ad estendere ad un tipo di rapporto di lavoro ritenuto vulnerabile un insieme di
tutele predeterminato da un precedente intervento normativo.
Tralasciando gli effetti dirompenti che la perdita di rilevanza delle coordinate spazio – temporali ai fini della sussunzione della eteroorganizzazione può sortire sulla nozione della
subordinazione, si segnala che la Corte di Cassazione italiana con la sentenza 1663/2020 si è
orientata in maniera affatto diversa, qualificando i riders come lavoratori subordinati tout
court, alla luce di un’argomentazione che ha preso le mosse dalla nozione di dipendenza
economica.
In questo contesto, ancora non vi è stato un effettivo intervento delle parti sociali, il cui ruolo,
tuttavia, è stato ricordato anche dal legislatore, con la legge di modifica del d.lgs. 81/2015 in
relazione al tema della retribuzione. Nel momento in cui nella legge di conversione viene fatto
espresso divieto dell’impiego del cottimo, infatti, si afferma che spetta alla contrattazione
collettiva il compito di definire «criteri di determinazione del compenso complessivo che
tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del
committente» (comma 1, art. 47-quater). In assenza di tali contratti collettivi, la piattaforma
digitale dovrà riconoscere al rider «un compenso minimo orario parametrato ai minimi
tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle
organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale»
(comma 2, art. 47-quater, d.lgs. n. 81/2015).
Le parti, a ben vedere, si erano mosse in questo senso già prima che si fossero palesate queste
indicazioni, dal momento che il 18 luglio avevano stipulato, nel contesto della contrattazione
del settore della logistica, il c.d. accordo riders, siglato dalle datoriali Confetra; Fedit;
Assologistica; Federspedi; Confartigianato trasporti e dalle organizzazioni sindacali di
categoria Fita – CNA; Filt – CGIL; Fit – CISL e Uiltrasporti.
Questo si segnala per essere stato il primo che estende alla categoria l’applicazione in toto del
contratto collettivo della logistica, introducendo una declaratoria dedicata al lavoro dei riders,
definiti “lavoratori adibiti ad attività di logistica distributiva, comprese le operazioni
accessorie ai trasporti, attraverso l’utilizzo di cicli, ciclomotori e motocicli”. A questo profilo
professionale vengono associati livelli retributivi appositamente istituiti in aggiunta ai
preesistenti, i livelli I ed L a seconda che i lavoratori utilizzino, rispettivamente, biciclette
oppure ciclomotori e motocicli. Si tratta di retribuzioni mensili parametrate su quelle degli
altri lavoratori del settore, in ragione della maggior semplicità di guida dei mezzi utilizzati e
della mancata richiesta di qualifiche (per la figura del ciclofattorino non è richiesto il possesso
della patente B).
L’accordo, per quanto appropriato, ha trovato una scarsissima applicazione, dovuta alla
peculiare natura del mercato del lavoro in cui si colloca, che pone un rilevante problema in
tema di effettività degli accordi sindacali. I riders quasi mai si relazionano con un unico
datore di lavoro ma con un’applicazione dedicata ad una o più piattaforme i cui rappresentanti
non hanno mai partecipato alle trattative degli accordi né, conseguentemente, ne fanno
applicazione.
Un’eccezione, in questo panorama, è rappresentata dalla cooperativa di lavoro Food4me, nata
dall’idea di otto lavoratori con il supporto di CISL e Confcooperative Verona. Questa realtà,
ancora sperimentale, si ispira all’impostazione culturale e lavoristica rappresentata dal c.d.
cooperativismo di piattaforma, in circolazione già da qualche tempo con l’idea di invertire la
logica finora dominante, a favore di un sistema in cui i lavoratori gestiscono l’applicazione e
non il contrario, in modo da garantire condizioni lavorative dignitose e contrastare le
disuguaglianze economiche. Al momento tutti i soci lavoratori sono titolari di un contratto di
lavoro subordinato con retribuzione oraria e tutti gli altri istituti ad esso ascrivibili; l’orario di
lavoro, che dovrà essere articolato in base ai momenti di maggiore intensità dell’attività
commerciale, sarà probabilmente il primo tema della contrattazione di secondo livello, che si
direbbe improntata ad un clima di forte collaborazione tra le parti.
Questa realtà, meritoria, costituisce un’eccezione, in un contesto in cui la difficile esigibilità
delle tutele che pure sono state previste dall’ordinamento, conduce al sopruso e allo
sfruttamento. Questo è quanto emerge dal decreto con cui il 20 maggio il Tribunale di Milano,
sezione misure di prevenzione, ha disposto l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy, filiale
italiana di Uber, che eroga un servizio di food delivery tramite la app “uber eats”. L’ accusa è
quella di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera, c.d. caporalato.
La decisione, recentissima, è la prima che ascrive una condotta penalmente rilevante alla
gestione dei lavoratori da parte delle piattaforme, e la piattaforma ha immediatamente negato
le accuse: la prima udienza è prevista per il 22 ottobre.

Dott.ssa Laura Angeletti – Dottoranda ADAPT/UniBg

Gli ordini professionali come datori di lavoro pubblici. L’utilità di un regolamento per attenuare il rigore della normativa pubblica.

Avendo già prestato consulenza a diversi ordini professionali sul tema, sintetizzo alcuni punti relativi al rapporto di lavoro con gli ordini professionali.

Gli ordini professionali come datori di lavoro.

Gli ordini professionali sono a tutti gli effetti degli enti pubblici non economici.

Ciò significa che gli stessi, anche se di modeste dimensioni, applicano al personale la normativa prevista per gran parte degli enti pubblici che è contemplata nel Testo Unico del Pubblico Impiego DLGS 165/2001.

Le assunzioni.

In primo luogo, come enti pubblici, gli ordini professionali debbono assumere per concorso o comunque tramite procedure selettive.

La norma in questione prevede che le assunzioni nell’ambito della pubblica amministrazione siano esse a termine sia a tempo indeterminato debbano avvenire per il tramite di una procedura selettiva (concorso) disciplinata dall’art. 35 del DLGS n. 165/2001.

Quindi, come nelle pubbliche amministrazioni, previa redazione del piano del fabbisogno di personale si dovrà redigere il concorso per l’assunzione del personale in pianta stabile.

Prima di procedere al bando di concorso si renderà necessario determinare l’organico dell’ordine medesimo definendo le qualifiche e le categorie contrattuali per poi inserirlo nel piano triennale del fabbisogno di personale

Il piano triennale del fabbisogno di personale è stato introdotto con il DLGS 75/2017 (decreto Madia) e comporta l’elaborazione di un piano di spesa ed assunzioni senza il quale non si potrà procedere a bandire alcun concorso.

La modalità concreta per la predisposizione di tale piano è contenuta nel decreto 8 maggio 2018 del Ministro per la Pubblica Amministrazione. (Allegato 1)

Dovranno inoltre aver luogo tutti gli adempimenti in termini di sicurezza e benessere previsti dal DLGS 81/2008.

Il personale sarà trattato ed inquadrato secondo il contratto del Comparto Enti Pubblici non Economici.

Nell’instaurare rapporti a termine o di natura flessibile o di consulenza, gli ordini professionali subiranno le limitazioni stabilite per il settore del pubblico impiego.

In particolare per gli incarichi professionali e le consulenze.

Particolari limitazione nel ricorso a consulenze sono imposte agli ordini professionali, come del resto alle amministrazioni pubbliche dall’articolo 7 del DLGS 165/2001 

L’articolo 7 del DLGS 165/2001 fa divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione aventi ad oggetto prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed ai modi di lavoro.

Solo per specifiche esigenze cui le amministrazioni non possono far fronte con personale in servizio, esse possono conferire incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo ad esperti di particolare e comprovata specializzazione. In tal caso, devono ricorrere i seguenti requisiti:

a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente;

b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;

c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico; (43)

d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione.

Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Inoltre le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione.

Solo in casi del tutto eccezionali e sino alla soglia massima di euro 5.000.l’incarico può essere oggetto di affidamento diretto.

Il trattamento contrattuale per i dipendenti dagli ordini professionali sarà quello del Comparto Enti Pubblici Non Economici.

In tema di mansioni, agli ordini professionali troverà quindi piena applicazione l’articolo 52 DLGS 165/2001e quindi non sarà possibile la promozione alla categoria superiore per svolgimento di fatto delle mansioni superiori.

Inoltre il passaggio tra aree professionali sovraordinate, potrà avvenire esclusivamente mediante concorso.

In materia disciplinare troverà applicazione l’articolo 54 del DLGS 165/2001 che prevede la redazione di apposito codice di comportamento, l’articolo 54 bis che impone la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti e l’articolo 55bis e seguenti che disciplinano il procedimento disciplinare.

Importante lo stesso articolo sopraindicato, laddove impone ad ogni ente pubblico la costituzione di apposito Ufficio per i Provvedimenti Disciplinari al Personale dipendente.

Eccezioni e particolarità.

Ulteriore novità in tema e data dall’entrata in vigore del DL 124/2019 convertito nella legge 19.12.2019.

All’articolo 50 della predetta normativa comma 3 bis è stabilito che gli ordini e collegi professionali, tenendo conto delle loro peculiarità dovranno attenersi ai soli principi generali del DLGS 165/2001, emanando un loro regolamento. E’ inoltre escluso l’obbligo per gli ordini professionali di attenersi in tema di valutazione della Performance e nomina degli Organismi Interni di Valutazione a quanto previsto dal DLGS 150/2009 (legge Brunetta).

In pratica, gli ordini professionali non debbono apprestare il complesso sistema di Valutazione della Performance ed istituire a questo scopo gli Organismi Indipendenti di Valutazione.

Il punto che costituisce un’ulteriore novità, consente per le questioni non fondamentali di applicare una normativa più snella dopo aver approvato un proprio regolamento.

Il regolamento potrebbe essere un utile filtro per semplificare e razionalizzare l’applicazione del Testo Unico sul Pubblico Impiego a Strutture spesso abbastanza semplici e garantite economicamente dai contributi degli iscritti.

24 maggio 2020

Avvocato Fabio Petracci

Coronavirus

CORONAVIRUS – COVID 19 e rischi penali del datore di lavoro.

E’ insistente ed attuale la polemica che paventa una responsabilità penale del datore di lavoro, qualora il dipendente contragga sul posto di lavoro il contagio da COVID 19.

Alla base della discussione, troviamo l’articolo 42 comma 2 del DL 18/2020 che introduce questa particolare forma di contagio tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL.

La definizione di infortunio sul lavoro che ne dà la legge non rispetta la tradizionale differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale.

Si ritiene infatti nell’ambito della medicina legale come l’infortunio sul lavoro sia un evento traumatico e repentino che causa un problema di salute al lavoratore, nel mentre la malattia professionale consiste in una patologia connessa alle condizioni di lavoro.

Nel caso di specie, le condizioni di lavoro sono date dal contatto con il virus determinato dalla tipologia del lavoro.

Possiamo avere un contatto tipico e specifico, come nel caso del personale sanitario di qualsiasi qualifica e specie e del personale di soccorso e controllo delle disposizioni sanitarie, come pure un’esposizione che potremmo definire generica di chi è costretto a lavorare con il pubblico nell’ambito di una pandemia.

La malattia può avere una durata relativamente breve e comportare la definitiva guarigione, può comportare delle conseguenze talora permanenti o l’esito infausto del decesso.

La particolarità della pandemia.

Le cause e le circostanze materiali che determinano il contagio sono solo parzialmente acclarate, come pure i mezzi ed i dispositivi per prevenire il contagio.

Infortunio o più propriamente malattia contratta nell’ambito della prestazione, all’INAIL compete il relativo trattamento che può essere il pagamento delle giornate di assenza e le relative cure, come pure il risarcimento di danni permanenti o addirittura il danno e l’indennizzo  da decesso.

La responsabilità civile del datore di lavoro.

Accanto all’INAIL sussiste pur sempre la responsabilità del datore di lavoro per il danno differenziale e gli ulteriori pregiudizi alla salute, oltre ai danni di natura non patrimoniale.

Sino a qui anche se abbiamo citato una norma di legge che prima non c’era e legata all’emergenza, la situazione appare normale.

Si pone invece la difficoltà interpretativa e l’originalità della stessa di fronte ad uno scenario scientifico e di prevenzione in piena evoluzione e denso ancora di incertezze.

Quindi se i virologi non sono ancora in grado unanimemente di consigliarci senza ombra di dubbio l’uso della mascherina, al datore di lavoro ed intendiamo qui il datore di lavoro onesto e diligente, è affidato il compito più gravoso di individuare cause e mezzi protettivi, laddove i dubbi non sono ancora chiariti.

In primo luogo, incombe sul datore di lavoro una responsabilità civile come parte contrattuale.

Egli, in base all’articolo 2087 del codice civile è obbligato a garantire ai propri prestatori di lavoro, il massimo possibile della sicurezza.

Essendo il rapporto di lavoro a tutti gli effetti un contratto, egli deve garantire tale adempimento e provare, qualora citato in causa, di aver fatto tutto il possibile per adempiere a tale obbligo.

In caso contrario, non ci sarà sanzione alcuna in senso tecnico, ma esclusivamente il risarcimento di danni anche cospicui.

La responsabilità penale del datore di lavoro.

Scatta comunque anche la responsabilità penale per lesioni o morte sul lavoro.

Quivi normalmente la responsabilità è dovuta a colpa.

La colpa consiste allorquando si accerti la sua negligenza, imprudenza, inosservanza di leggi e regolamenti, ordine e discipline.

In entrambi i casi sia di responsabilità civile che penale è necessario che la fattispecie di danno possa essere fatta risalire alla condotta accertata attraverso il cosiddetto nesso causale che lega l’evento al rapporto di lavoro.

A differenza della responsabilità civile, la responsabilità penale è esclusivamente personale (articolo 29 Costituzione).

Ciò significa che ne risponde soltanto di persona chi incaricato o delegato di assicurare tutte le cautele imposte.

La responsabilità civile, a differenza di quella penale, poggia su di una norma generale data dall’articolo 2097 del codice civile che non impone soltanto il rispetto di tutte le norme vigenti in materia, ma che come norma di chiusura generale impone al datore di lavoro anche la ricerca e la definizione di ogni cautela nominata ed innominata al fine di garantire salute e benessere ai propri dipendenti.

Su tale base una volta affermata la responsabilità civile del datore di lavoro, la responsabilità penale dovrà conseguire esclusivamente al mancato rispetto di norme a ciò delegate.

In una situazione del tutto inusuale ed anomala, dove la scienza non è ancora in grado di dettare i suoi principi al legislatore, l’ipotesi di responsabilità penale, fatto salvo il caso di violazione delle norme vigenti e l’accertamento del contagio in ambito lavorativo, prova che compete al lavoratore, la responsabilità penale appare abbastanza remota.

Il nesso causale, il contagio deve essere stato contratto sul posto di lavoro o in occasione di lavoro.

Altrettanto difficile sarà per il lavoratore dimostrare di aver contratto il virus sul posto di lavoro.

Egli dovrebbe disporre di una tracciabilità dei contatti, oppure dovrebbe ricorrere ad elementi presuntivi atti a dimostrare la contagiosità del posto di lavoro, come ad esempio l’alta percentuale di contagi in una determinata unità produttiva.

Qualche possibile soluzione.

Un’altra via da percorrere per avere da una parte certezza e dall’altra un incentivo a rispettare le regole, potrebbe essere rinvenibile sulla scorta del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Non va dimenticato che al fine di garantire l’effettivo rispetto della normativa concordata da sindacati e datori di lavoro al punto 13 è prevista l’esistenza di un apposito Comitato Aziendale per applicare e verificare le regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e degli RLS.

Per una maggior certezza, si potrebbe affidare a questi organismi un’apposita attività di certificazione che metta al riparo gli imprenditori seri da rischi penali.

Annullare del tutto l’ipotesi penale potrebbe rappresentare un incentivo al mancato rispetto delle regole.

Fabio Petracci.

Alte professionalità

Ricercatori e quadri: lavoratori della conoscenza e alte professionalità

Sempre più frequentemente, in un contesto di lavoro in trasformazione, si riflette sull’allontanamento del paradigma produttivo dall’impianto concettuale giuslavoristico classico, basato sul lavoro manuale e ripetitivo, in favore della crescente rilevanza di professioni basate sulla conoscenza e caratterizzate da un alto valore aggiunto di tipo immateriale.

Il tema dell’emersione del lavoro basato sulla conoscenza, sulle capacità relazionali, organizzative e di coordinamento, è una questione risalente che ha trovato la prima espressione storica e sindacale nel ben noto processo che ha condotto al riconoscimento legale della categoria dei quadri.

Una vicenda analoga nelle premesse, ma che ha avuto sviluppi completamente diversi, è quella del lavoro di ricerca: la professione che, forse più di tutte, si nutre di conoscenza e produce conoscenza,  la più lontana dal lavoro mansionistico a cui è ispirato l’impianto normativo degli anni ’70 del secolo scorso. I ricercatori non hanno mai esercitato un’azione collettiva, paragonabile a quella dei quadri, che potesse culminare nel riconoscimento della professione; eppure, oggi, l’universo dei ricercatori pone, all’interprete e allo studioso di lavoro e di organizzazione, tematiche che sono, almeno in parte, assimilabili a quelle già sollevate dai quadri.

Entrambe le professioni sopra indicate, adottando la prospettiva che proviene dagli studi di organizzazione, possono essere ricondotte alla tipologia dei “lavori della conoscenza” secondo il significato dell’espressione dato da Peter Drucker[1]: lavoratori altamente qualificati, che svolgono un lavoro non manuale, volto alla produzione di output tendenzialmente intangibili.

Questi lavoratori sono stati definiti come «coloro che producono conoscenza nuova a mezzo di conoscenza, accrescendone il valore sociale (offrendo un servizio), il valore economico (creando reddito e patrimonio) e il valore intrinseco e diffusivo (che non è appropriabile e che non è una merce): ossia producono conoscenze a mezzo di conoscenze[2]».

La categoria dei “lavoratori della conoscenza” comprende artisti, scienziati, ricercatori e insegnanti, membri delle professioni ordinistiche, consulenti, persone che svolgono funzioni di governance in istituzioni ed enti pubblici e privati, imprenditori e figure manageriali intermedie; tutti, rispetto al passato, esprimono la propria professionalità non tanto nell’esercizio del ruolo di comando, quanto, piuttosto, nell’attività di immissione di conoscenze ed esperienze nelle strutture operative, di coordinamento e di garanzia del raggiungimento di risultati. Ad eccezione delle professioni ordinistiche, svolte in regime di libera professione, tutte queste occupazioni si esercitano nelle organizzazioni[3].

Nonostante i frequenti riconoscimenti formali circa l’importanza della conoscenza e del sapere per la crescita economica e per la qualità sociale di un Paese, queste professioni condividono, nella propria espressione quotidiana concreta, la necessità di fronteggiare ostacoli e difficoltà di non poco momento.

Tendenzialmente, si tratta di professioni poco definite, difficilmente riconoscibili dall’esterno e scarsamente rappresentate, con i relativi effetti in termini di deficit di tutela.

La natura immateriale dell’output rende l’attività difficilmente comprensibile da parte di chi non faccia parte del settore[4] e questo, a livello gestionale, si traduce nella difficoltà di promuovere e misurare la prestazione; inoltre, sono professioni articolate in processi complessi, che richiedono la sinergia di una pluralità di attori: dunque, il risultato finale è solitamente l’esito di una pluralità di sforzi coordinati.

Gli studiosi[5] ascrivono alle professioni della conoscenza altri due fattori critici e cioè la circostanza che spesso sono svolte da persone insufficientemente formate e che sono caratterizzate da un alto grado di instabilità occupazionale. Rispetto alle professioni oggetto di indagine in questa sede, occorre operare qualche distinguo: il tema dell’insufficiente formazione non sembra porsi rispetto ad alcuna delle due categorie esaminate; quello dell’instabilità occupazionale caratterizza principalmente i ricercatori, mentre, rispetto ai quadri risulta difficile generalizzare.

Inoltre, la scarsa riconoscibilità del lavoro svolto, tendenzialmente, ostacola la formazione dell’identità professionale dei lavoratori. Per quanto riguarda il lavoro di ricerca, la questione si pone in termini peculiari: la professione dei ricercatori è tra le meno conosciute e comprese sul piano della percezione sociale e istituzionale, eppure i lavoratori di questo settore traggono fortemente la propria identità professionale dal senso di appartenenza alla comunità scientifica di riferimento. Il fatto di essere altamente specializzati, in un dominio circoscritto e ben definito del sapere scientifico, distingue nettamente i ricercatori e gli scienziati da tutti gli altri lavoratori della conoscenza e li pone a metà strada tra questi ultimi e i professionisti specialisti.

Infine, la preponderante componente specialistica della professione caratterizza anche la natura dell’attività svolta: generalmente, i lavoratori della conoscenza, e in particolare i quadri, svolgono attività basate sulla comunicazione, sul coordinamento di risorse umane e materiali, sulla capacità di impostare progetti e piani di lavoro, di farli rispettare, di curare l’aspetto relazionale e interpersonale dell’ambiente lavorativo. Questo per i ricercatori, invece, diventa vero soltanto quando essi arrivano a ricoprire posizioni di coordinamento, di strutture e/o di laboratori, e spesso, quando ciò accade, ridimensionano la propria attività di scienziati.

Una volta individuate le analogie e tracciate le distinzioni, si può proporre qualche spunto di riflessione in tema di emersione e riconoscimento della professione: il passaggio più critico, si ritiene, è il corretto inserimento di queste professionalità nella propria sede naturale di espressione, cioè le organizzazioni.

Il passaggio risulta difficoltoso perché, sebbene le organizzazioni abbiano bisogno di avvalersi delle potenzialità di queste risorse, non sempre riescono a valorizzarle in quanto dispongono principalmente di strumenti organizzativi e giuridici ispirati ad un tipo di lavoro parcellizzabile, misurabile nel risultato e pienamente controllabile dal datore di lavoro, e quindi poco adatto alla gestione del lavoro della conoscenza. Costituiscono un esempio di questa situazione sia i sistemi di inquadramento tradizionali, analitici e tendenzialmente rigidi dei contratti collettivi nazionali più applicati, sia il quasi esclusivo utilizzo del fattore temporale per la determinazione quantitativa della retribuzione, o, ancora, la rigida struttura gerarchica e la descrizione statica delle mansioni.

Da questo punto di vista, per far emergere le alte professionalità, con particolare riferimento alle professioni in analisi, si potrebbe prendere le mosse da una ricostruzione innovativa della categoria dei quadri. Proprio partendo dalla scarsità di informazioni che la legge 190/1985 ci consegna sulle caratteristiche della categoria[6], la si può interpretare in un’accezione più adatta alle nuove esigenze organizzative. Dalla disposizione di legge, infatti, l’interprete desume soltanto che il Quadro è colui che svolge “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa” e che la contrattazione collettiva determina i requisiti di appartenenza alla categoria, “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa”. La legge, inoltre, nulla dice su quali debbano essere le funzioni con rilevante importanza ai fini della realizzazione degli obiettivi aziendali, cioè le funzioni strategiche.

La storia ci tramanda una figura del Quadro ben definita, rispetto ad alcune caratteristiche, dal momento che

l’identità originaria della classe di lavoratori autrice della propulsione da cui è derivato il riconoscimento è stata quella dei “capi intermedi”, nel senso di figure di raccordo e coordinamento tra il vertice dell’organizzazione, cioè i dirigenti, e la base, cioè gli impiegati e gli operai. Questo carattere originario è stato recepito nella quasi totalità dei contratti collettivi ed è ormai connaturato alla percezione sociale della figura del quadro. Tuttavia, non si tratta di una situazione immutabile né, soprattutto, esclusiva; anche alla luce della parziale valorizzazione conseguita negli anni da questi lavoratori, si potrebbe sfruttare la potenzialità delle parti sociali di adattare gli istituti tipici della contrattazione alle trasformazioni che intervengono nelle relazioni lavoristiche, definendo in maniera diversa, e più ampia, l’ambito di appartenenza della categoria dei quadri.

Si potrebbe, allora, esplorare la nozione, in sé polivalente, di “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”, scindendone il legame, apparentemente indissolubile, con la funzione di coordinamento e direzione di altri dipendenti sotto ordinati gerarchicamente; parallelamente, dovrebbe essere arricchita con contenuti specialistici e con quelle che sono oggi, e forse saranno in futuro, le funzioni strategiche per le attività produttive, sulla base delle specificità di queste ultime. Se si aderisse a questa prospettiva, gran parte dei professionisti della conoscenza, e segnatamente, per quello che ci più interessa, i ricercatori, entrerebbe a far parte a pieno titolo della categoria dei quadri. Infatti, in un contesto come quello attuale, in cui l’innovazione tecnologica e lo sviluppo sperimentale stanno diventando sempre più essenziali per la gestione e per la sopravvivenza del mondo produttivo che conosciamo, quali funzioni possono essere ritenute più strategiche di quelle relative alla ricerca e sviluppo?

Una siffatta lettura della categoria consentirebbe di valorizzare le specificità delle diverse realtà produttive e di gestire le risorse umane in maniera funzionale agli obiettivi che si vogliono conseguire: diverse professioni, a seconda dei contesti e delle priorità aziendali, sarebbero qualificate come strategiche e diversi professionisti verrebbero qualificati come quadri. Questo, senza voler sminuire il valore ancora importante della figura del “quadro direttivo”, consentirebbe anche di rivitalizzare una categoria che probabilmente ha risentito del mancato aggiornamento della propria fisionomia tradizionale, rischiando di diventare obsoleta pur possedendo importanti potenzialità.

Autore

Laura Angeletti

Laurea Magistrale con lode in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, il 12 dicembre 2016, con una tesi in diritto del lavoro (Relatore Prof. Pasqualino Albi)

Diploma di Allievo Ordinario in Scienze Giuridiche, con lode, presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il 20 febbraio 2017, con una tesi in diritto sindacale (Relatore Prof. A. Niccolai)

Attualmente: corso di dottorato industriale in diritto del lavoro e delle relazioni industriali in collaborazione con ADAPT (Associazione per gli studi internazionali e comparati in materia di lavoro e relazioni industriali) presso l’Università degli studi di Bergamo, con una tesi di sul riconoscimento giuridico e contrattuale del lavoro di ricerca non accademico.

Internship aziendale, nell’ambito del dottorato industriale, presso la Ripartizione Organizzazione e Risorse Umane della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (attività di ricerca sul campo per la stesura della tesi e supporto legale alle attività della Ripartizione).

Pratica forense presso lo studio legale Albi  di Pisa e lo studio legale Molinari – Fraccaro di Trento.

Esperienze di ricerca svolte presso Università europee (visiting student):

29 Luglio – 16 Agosto 2013 – London School of Economics and Political Sciences (Londra)

Summer School: Introduction to International Human Rights: Theory, Law and Practice

Marzo – Aprile 2014 École Normale Supérieure de Paris (Parigi)

Diritto della Concorrenza dell’Unione Europea

Marzo – Aprile 2015; ottobre – novembre 2016 – Universidad de Castilla La Mancha (Toledo)

Diritto del Lavoro (stesura della tesi di laurea)

Tirocini:

Settembre – Dicembre 2015

Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (New York City, NY)

Periodo di tirocinio presso l’ufficio della Rappresentanza Permanente d’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite: collaborazione all’organizzazione della settantesima sessione dell’Assemblea Generale (UNGA70) e alle attività della Terza Commissione (Human Rights).

Pubblicazioni:

L. ANGELETTI, Ricerca ed innovazione responsabile in Italia. Accordo AIRI-CNR per la RRI, in Bollettino ADAPT 15 luglio 2019, n. 27

L. ANGELETTI, Trasferimento tecnologico in Italia: qualcosa si muove, in Bollettino ADAPT, 26 marzo 2018

L. ANGELETTI, Insussistenza del fatto e licenziamento: una rassegna ragionata, in Diritto delle Relazioni Industriali, 3/2018

L. ANGELETTI, R. BERLESE, V. GUGLIOTTA, Introduzione a”Il lavoro 4.0. La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative“, a cura di A. CIPRIANI, A. GRAMOLATI, G. MARI, Firenze University Press, 2018

L. ANGELETTI, Obbligo formativo nell’esercizio dello ius variandi datoriale. Una nuova nozione di “equivalenza delle mansioni”?  in BollettinoAdapt, 22 gennaio 2018

L. ANGELETTI, Nota a Trib. Roma, sez. Lav., 1 dicembre 2015, Trattamenti economici accessori tra contratti collettivi e giurisprudenza, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2/2016

L. ANGELETTI, Nota a Cass. Civ., Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 41, Responsabilità civile del magistrato: cenni ricostruttivi di un complicato rapporto con l’azione penale, da un lato e con la responsabilità dello Stato, dall’altro in Danno e Responsabilità, 4/2014

L. ANGELETTI, Nota a Cass. Civ., Sez. III, 28 gennaio 2014, n. 1762, ll danno esistenziale a cinque anni dalle Sentenze di San Martino: il dibattito sui nomina juris, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 4/2014

L. ANGELETTI, Appunti di comparazione tra la legislazione sull’immigrazione italiana e quella britannica. Trattamento riservato ai richiedenti asilo provenienti da ex-colonie del paese che riceve la domanda: sono previste misure particolari? in F. Biondi dal Monte e M. Melillo (a cura di), Diritto di asilo e protezione internazionale: storie di migranti in Toscana, Pisa University Press, Pisa, 2014

L. ANGELETTI, Nota redazionale a Cassazione Civile, Sez. III, 28 febbraio 2013, n. 22585, in collaborazione con l’Osservatorio sul danno alla persona – Lider Lab – Scuola Superiore Sant’Anna, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 1/2014


[1] F. BUTERA, S. DI GUARDO, Il modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza, Fondazione Irso Working Paper, 1/2009

[2]F. BUTERA, S. BAGNARA, R. CESARIA, S. DI GUARDO, Knowledge Working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Milano, Mondadori Università, 2008

[3] F. BUTERA, A. FAILLA, Professionisti in azienda, Milano, ETAS LIBRI, 1992

[4] F. BUTERA, S. DI GUARDO, Il modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza, Fondazione Irso Working Paper, 1/2009: “se ci sediamo accanto a un ricercatore o ad un manager, spesso non capiamo quello che fa, qual è il suo outpunt, se sta ripetendo una procedura o sta generando nuova conoscenza”, p. 6

[5]

[6] A. GARILLI, Le categorie dei prestatori di lavoro, Jovene, 1988, p. 253

Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno all’immagine a favore della Pubblica amministrazione pari ad almeno 6 mensilità. La Corte Costituzionale boccia la norma.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001)  

cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.

Coronavirus

La tecnologia come primo “vaccino” per mediare al conflitto tra il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto alla riservatezza dei dati personali

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci sta ancora arrecando dei danni ma è proprio dal male che bisogna trarne giovamento per migliorarsi ancora di più. Anche le attività produttive sono ad un bivio: trarne insegnamenti ed evolversi con lo scopo di agganciare la domanda di beni e di servizi oppure arrestare definitivamente le proprie attività lavorative.

Il famoso virus Covid-19 hanno fatto nascere uno sconto, di sicuro epocale, tra la voglia di riaprire i capannoni delle imprese italiane e gli uffici degli studi professionali e il pericolo di danneggiare la salute dei lavoratori dipendenti e dei collaboratori al netto della salvaguardia della privacy.

Questi tre diritti (diritto al lavoro, diritto alla salute e diritto alla riservatezza dei dati personali) sono entrati, come mai prima, in conflitto tra loro da quando è stato imposto – in via eccezionale – la misurazione della temperatura di ogni singolo lavoratore all’atto del suo ingresso nel posto di lavoro (si veda il Protocollo sanitario del 14 marzo 2020 siglato dal Governo Italiano e dalle Parti Sociali)

Stiamo assistendo ad un infinito dibattito che  vede confrontarsi il mondo dell’impresa e quello del sindacato con le Istituzione politiche in cui finora non si è fatta una sintesi.

Per mediare a tutto questo vi è già un primo “vaccino” che si chiama tecnologia. Se soltanto pensiamo all’introduzione dei braccialetti elettronici per opera del colosso Amazon e all’adozione delle politiche sanitarie nello stabilimento dell’Ilva sappiamo perfettamente che – in questa emergenza sanitaria di tipo epocale – la tecnologia, a differenza dei due casi prima citati, può davvero rappresentare una svolta per la ripresa delle attività di imprese e di professionisti senza violare nessuno diritto costituzionalmente garantito ad ogni cittadino italiano (Articoli 1, 3, 4, 35 e 36 per il diritto al lavoro – Articolo 32 per il diritto alla salute oltre al Testo Unico per la sicurezza sul lavoro – Articoli 13, 14 e 15 della Costituzione, art. 5 della Legge n. 300/1970 e Regolamento U.E. n. 679/2016 per il diritto alla riservatezza dei dati personali).

E’ da considerare che la prima medicina, utile per la ripresa economica e per la tenuta sociale del nostro Paese, è rappresentata da un dispositivo tecnologico (il cosiddetto “wearable device”) che misura la temperatura, la pressione e il battito cardiaco da far indossare da ogni singolo lavoratore. Chiaramente è opportuno che all’ingresso del luogo di lavoro venga effettuata in primis la misurazione con il termo-scanner da parte del datore di lavoro che rimane sempre moralmente, penalmente e civilmente responsabile nei confronti del proprio personale dipendente. Un altro aspetto rilevante che emerge da questa situazione emergenziale è che tale dovere morale dovrà essere rispettato anche da ogni singolo lavoratore.

Ancora si potrebbe – come avanzato da tutti coloro che credono nella tecnologia – introdurre, a prescindere dagli eventi eccezionali, anche un’altra tecnologia e ossia la “blockchain” che per il tramite degli “smart contracts” potrà trattare i dati sanitari riservati dei lavoratori trasmessi dai “wearable device” in maniera anonima.

Chiaramente l’umanità attende il secondo ed ultimo vero “vaccino” che sia in grado di sconfiggere questo virus e pertanto sarà determinante  il comportamento di ogni singolo lavoratore che, in quanto cittadino modello, ha il dovere di garantire l’incolumità di ogni singolo collega di lavoro.

Come detto al principio dell’articolo, dalle situazioni di malessere possiamo trarne insegnamento per l’avvenire e finora il popolo Italiano ha dato dimostrazione di possedere coscienza civica che si spera rimanga intatta nel tempo e che si avvicini all’educazione civica del Giappone.

di Antonino ALFANO

I consorzi europei di infrastrutture di ricerca (ERIC) e la mobilità Risorse Umane

Cosa sono gli ERIC

Gli ERIC (European Research Infrastructures Consortium) sono consorzi di diritto europeo costituiti, su iniziativa delle comunità scientifiche, da un gruppo di Paesi e per decisione della Commissione Europea. Gli ERIC costituiscono quindi una rete basata sulla collaborazione e integrazione del tessuto della ricerca in entità uniche, competitive, per qualità e dimensioni, a livello internazionale che permettono di mobilitare grandi risorse con la massima elasticità. Gli ERIC tendono a fare dell’Europa scientifica una nazione integrata collegando università, cliniche e centri di ricerca. Una prova delle capacità di risposta degli ERIC a situazioni estese e complesse come l’epidemia COVID19 si può vedere nell’iniziativa di CERIC-ERIC (Central European Research Infrastructure Consortium – basato nell’Area di Ricerca di Trieste) di aprire una via d’accesso rapida alle infrastrutture consortili per chi necessita di analisi su materiali utili a combattere il virus. A questa iniziativa sono seguite quelle della maggior parte  degli altri ERIC.

Attualmente sono operativi o in fase di costituzione  25 ERIC di cui 6 nell’area biomedica, 8 in quella ambientale, 6 dedicati alle scienze umane e sociali; 3 per la fisica, ingegneria e per lo studio di materiali avanzati[1]

Le sedi legali degli ERIC sono ubicate in 10 paesi e nel prossimo futuro è prevedibile un aumento degli Stati membri e dei paesi associati che ospiteranno un ERIC. Agli ERIC possono aderire paesi extra UE (es. Israele, Norvegia, Svizzera).

Gli ERIC di tutta Europa hanno dato vita al Forum ERIC per rafforzare il coordinamento e la collaborazione all’interno della loro comunità.

L’Italia è protagonista nello sviluppo degli ERIC, è infatti presente nella maggior parte degli ERIC e ospita la sede istituzionale di alcuni di essi.[2]

Le normative sugli ERIC

Gli ERIC sono regolati da due Regolamenti Europei: il n° 723/2009 modificato dal n° 1261/2013. [3]

Gli articoli rilevanti per quanto riguarda le problematiche delle Risorse Umane sono, all’interno del citato Regolamento, l’art. 10 che stabilisce “Lo statuto deve contenere….. la politica in materia di occupazione, comprese le pari opportunità” e l’Art.15 che fissa la gerarchia delle norme che regolano la costituzione e il funzionamento degli ERIC: il diritto comunitario in materia,  la legge dello Stato in cui l’ERIC ha la sua sede legale per le questioni che non sono disciplinate (o lo sono parzialmente) da norme comunitarie; lo statuto dell’ERIC e le relative norme di attuazione.

Caratteristiche giuridiche dell’ERIC 

Ai sensi del regolamento ERIC, un ERIC è un soggetto giuridico dotato di personalità giuridica e piena capacità di agire riconosciuto in tutti gli Stati membri. Esso deve essere costituito da almeno tre Stati: uno Stato membro e altri due paesi, che possono essere Stati membri o paesi associati. Possono farne parte Stati membri, paesi associati, paesi terzi diversi dai paesi associati e organizzazioni intergovernative, che contribuiscono congiuntamente alla realizzazione degli obiettivi dell’ERIC.

Come già accennato, il diritto applicabile è il diritto dell’Unione e il diritto dello Stato della sede legale o della sede operativa per quanto riguarda talune questioni amministrative, tecniche e di sicurezza. Lo statuto e le sue disposizioni di attuazione devono essere conformi al diritto applicabile. 

L’ERIC è considerato un organismo o un’organizzazione internazionale ai sensi delle direttive sull’IVA e sulle accise e può pertanto beneficiare delle relative esenzioni. Essendo inoltre considerato un’organizzazione internazionale ai sensi della direttiva sugli appalti pubblici, l’ERIC può adottare regole proprie in materia di appalti.

Gli ERIC non hanno scopo di lucro, ma posso svolgere alcune limitate attività di carattere economico strettamente connesse alla sua funzione principale 

La struttura di governance dell’ERIC è flessibile e consente di definire nello statuto i rispettivi diritti ed obblighi, gli organi e le relative competenze e altre disposizioni interne.

Il regolamento ERIC è direttamente applicabile negli Stati membri, e gli Stati membri  devono adottare misure amministrative adeguate per ospitare un ERIC o aderirvi, e garantire l’esenzione dall’IVA e dalle accise a norma del regolamento ERIC. Inoltre, essendo un nuovo tipo di soggetto giuridico, l’ERIC deve essere assimilato nei regimi normativi e amministrativi nazionali, questo ha sollevato diverse questioni pratiche che riguardano, ad esempio, un registro europeo e il collegamento con i registri nazionali (come camere di commercio o registri di associazioni) nei quali inserire gli ERIC, con le relative conseguenze per lo status del personale.

I Consorzi sono entità private con un fine “pubblico” in quanto destinate a preservare l’eccellenza scientifica comunitaria; possiedono poi diversi caratteri tipici di enti di diritto internazionale.  Nella realtà pratica, non essendo prevista, nelle legislazioni nazionali, una categoria speciale per gli ERIC in quanto soggetto giuridico, restano interrogativi in merito al loro carattere pubblico o privato; questione che ha ovvi riflessi sulla gestione delle Risorse Umane.

La Carta Europea dei Ricercatori

Prima di proseguire nell’esame degli ERIC sotto il profilo delle Risorse Umane, occorre fare un cenno alla Raccomandazione della Commissione Europea  dell’11 marzo 2005 riguardante la “Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori”[4]. Questo documento individua i “ricercatori” secondo la definizione del “Manuale di Frascati” e cioè: «Professionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati” La Raccomandazione riguarda chi svolge qualsiasi attività professionale nella R&S, sia nel campo della «ricerca di base», della «ricerca strategica», della «ricerca applicata», dello sviluppo sperimentale e del «trasferimento delle conoscenze». Sono comprese l’innovazione e le attività di consulenza, supervisione e insegnamento, la gestione delle conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale, la valorizzazione dei risultati della ricerca o il giornalismo scientifico.

Particolarmente interessante è il riconoscimento del “Valore della mobilità”: “I datori di lavoro e/o i finanziatori devono riconoscere il valore della mobilità geografica, intersettoriale, inter/trans-disciplinare e virtuale nonché della mobilità tra il settore pubblico e privato, come strumento fondamentale di rafforzamento delle conoscenze scientifiche e di sviluppo professionale in tutte le fasi della carriera di un ricercatore. Dovrebbero pertanto integrare queste opzioni nell’apposita strategia di sviluppo professionale e valutare e riconoscere pienamente tutte le esperienze di mobilità nell’ambito del sistema di valutazione/avanzamento della carriera.”

Le Risorse Umane degli ERIC

Nei prossimi dieci anni si prevede che il numero di ERIC raggiunga le 50 unità. In questa fase iniziale, gli ERIC impiegano direttamente oltre 500 persone (il principale datore di lavoro è l’ESS-ERIC basato in Svezia) ma questo numero potrebbe presto salire ben oltre i 1.000 con i Consorzi in cui lo staff di R & S è previsto essere assunto direttamente. Questo numero può salire a circa 10.000 unità nei prossimi 10 anni se le condizioni di lavoro saranno allettanti in termini di mobilità e salari all’interno dell’area di ricerca dell’UE.

La fase di avviamento della maggior parte degli ERIC è ancora basata su personale di R & S distaccato (principalmente part-time) dai paesi partecipanti attraverso le loro istituzioni di ricerca: il numero di questo personale è stimato essere superiore al migliaio, ma è già visibile la tendenza verso l’occupazione diretta,  funzionale a una maggior efficienza operativa.

Gli Statuti degli ERIC – Politiche sulle Risorse Umane

Dalla lettura degli statuti dei vari ERIC [5]1 emerge che, nella maggioranza dei casi, alla politica per il Personale  è dedicato solo un generico richiamo al principio di “pari opportunità” e qualcuno accenna a criteri di “trasparenza e pubblicità” nelle procedure di selezione del personale. Spesso si rimanda per i dettagli alle regolamentazioni interne.

Troviamo però alcuni esempi di più ampia articolazione delle politiche in materia di occupazione.

Il primo è lo statuto di DARIAH (Digital Research Infrastructure for the Arts and Humanities), che articola ampiamente la politica in materia di occupazione. Nell’Art. 28 oltre al doveroso richiamo alla. “politica di pari opportunità”,  e a una serie di principi per definire le responsabilità e garantire la trasparenza nei processi di selezione e reclutamento, sono fissati due principi interessanti sotto il profilo della mobilità:  la  “non discriminazione fra il personale impiegato direttamente e il personale distaccato” e l’attribuzione dei contratti di lavoro alla normativa nazionale del paese nel cui territorio è impiegato il personale.

Il secondo è quello di SHARE  (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) il cui statuto non solo richiama le pari opportunità e l’attribuzione dei contratti alle norme nazionali, ma accenna anche a come agevolare la mobilità con queste parole: “Fatti salvi i requisiti della legislazione nazionale, ciascuna Parte contraente deve, all’interno della propria giurisdizione, facilitare la circolazione e la residenza dei cittadini dei paesi della Parte contraente coinvolti nei compiti dell’ERIC-SHARE e dei familiari di tali cittadini”

Qualche indicazione sulle responsabilità in materia di occupazione è contenuta nello statuto di LIFEWATCH-ERIC.

Problematiche nella gestione del personale degli ERIC

Sinteticamente tracciato il quadro normativo di riferimento, è ora il caso di soffermarsi sui profili critici legati alla gestione delle risorse umane, riconducibili, innanzitutto, alla forte mobilità che caratterizza il personale degli ERIC (ricercatori, tecnici e amministrativi).

Problematiche normative

Problematica è, innanzitutto, la mancanza di uniformità tra le regole giuslavoristiche, previdenziali, fiscali dei diversi paesi, senza dimenticare le norme sull’immigrazione. Questa diversità crea una serie di ostacoli a quella mobilità che, come detto, è fortemente richiamata dalla Carta dei Ricercatori ed è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di ciascun ERIC.

Gli ostacoli non sono in linea generale differenti da quelli che devono affrontare aziende e lavoratori in mobilità internazionale e che si possono cosi sintetizzare

  • Fisco: Non esiste una norma comune europea che uniformi il trattamento fiscale delle persone in mobilità all’interno dell’Unione, ma ogni paese ha stipulato un accordo del genere con tutti gli altri: il numero degli accordi esistenti è quindi nell’ordine di svariate centinaia. Per fortuna, per la parte che più direttamente ci interessa, la generalità di questi accordi prevede la non imponibilità (o la non acquisizione della “residenza fiscale”) dei redditi di persone che restino in un paese diverso dal proprio per meno di 183 gg. Oltre questo limite temporale, il reddito prodotto nel paese (retribuzioni, bonus ecc..) sarà tassabile secondo le regole interne al Paese stesso. Resta un problema di cumulabilità  di tali redditi con quelli prodotti nel paese di origine. Il cittadino italiano, per esempio, non perde praticamente mai la residenza fiscale in Italia, a meno che non si liberi di ogni fonte di reddito o bene fiscalmente rilevante. Ne deriva che il lavoratore italiano che lavora in un Paese X,  producendo un reddito regolarmente tassato, debba denunciare tale reddito in Italia; questo si cumulerà con le altre fonti (di reddito) e per evitare che il reddito prodotto all’estero sia sottoposto a doppia imposizione dovrà  procurarsi una documentazione che attesti le imposte pagate nel Paese X,
  • Previdenza obbligatoria: è uno dei pochi campi in materia di lavoro dove esistono regolamenti europei (fin dagli anni 70 del ‘900):il n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU L 166 del 30.4.2004, pag. 1), e il N. 000/2009 settembre 2009 (GU L 284 del 30.10.2009, pag. 1) che stabilisce le modalità di applicazione del precedente. 883/2004 [6]. In estrema sintesi la normativa prevede:
    • – un lavoratore distaccato da un paese all’altro dell’Unione rimane soggetto alla legislazione del primo Stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona distaccata. 
    • – Oltre il limite dei ventiquattro mesi il lavoratore sarà sottoposto alle regole previdenziali del paese di distacco.

– al termine dell’attività lavorativa la pensione del lavoratore sarà calcolata con il criterio della “totalizzazione dei periodi” così definita dalla Circolare INPS 88/2010:“I periodi di assicurazione, di attività subordinata, di attività autonoma o di residenza maturati sotto la legislazione di uno Stato membro si aggiungono a quelli maturati sotto la legislazione di qualsiasi altro Stato membro, nella misura necessaria, ai fini dell’applicazione dell’articolo 6, a condizione che tali periodi non si sovrappongano.”

A complicare le cose sono intervenute norme interne italiane (D.Lgs 2 febbraio 2006 n. 42 e la L. 24 dicembre 2007, n. 247 all’Art 1. 76 ) che hanno disposto, nell’interpretazione della già citata circolare INPS 88/2010 che i periodi maturati all’estero in Paesi comunitari e in Paesi legati all’Italia da convenzioni bilaterali di sicurezza sociale devono essere conteggiati, a prescindere dal limite di 3 anni previsto dall’articolo 1, comma 76, lettera a), della legge 24 dicembre 2007 n. 247, rispettando, invece, il periodo minimo necessario per l’applicazione della normativa comunitaria (1 anno) o delle singole convenzioni bilaterali”

Da tutto quanto sopra si evince che la normativa in materia di previdenza obbligatoria non agevola la mobilità dei lavoratori, soprattutto in una realtà come quella degli ERIC dove la mobilità è naturalmente “spinta”.

  • Previdenza Complementare: In questo campo non esiste una regolamentazione che uniformi i sistemi, ma la UE ha previsto l’istituto dello IORP, un tipo di fondo pensione integrativo basato in uno dei paesi dell’Unione e  alimentabile con contributi provenienti da tutti i paesi dell’EEA. Su iniziativa della Commissione Europea è stato creato un Consorzio che ha recentemente fatto nascere il Fondo pensione integrativo RESAVER destinato a tutti i lavoratori della ricerca. RESAVER IORP è operativo in Italia dopo l’approvazione dell’autorità di vigilanza COVIP.
  • Assistenza sanitaria: i regolamenti comunitari di sicurezza sociale n. 883/04 e 987/08  gli assistiti dai diversi servizi sanitari possono usufruire dell’assistenza nei paesi europei (e convenzionati) a condizione di possedere una attestazione rilasciata dal servizio del paese di origine.
  • normative sull’immigrazione da paesi extra-UE: le norme che prevedono un iter agevolato per la concessione di visti ed ingressi ai ricercatori extra-comunitari valgono solo per i ricercatori in senso stretto. Questo potrebbe creare problemi in caso di mobilità di personale tecnico o amministrativo, eventualità possibile data la natura transnazionale degli ERIC

Problematiche economiche: La mobilità dei lavoratori ha un evidente impatto sui loro trattamenti economici, i principali punti critici sono:

  • mobilità tra paesi con grande differenza negli standard e costo della vita e/o nei trattamenti fiscali e previdenziali:  è evidente che le differenze ora enunciate comportano adeguamenti nel trattamento economico del personale in mobilità tenendo conto delle differenze di costo vita e il disagio connesso alla nuova sede.
  • lavoro del coniuge/compagno/a: è chiaro il peso che la rinuncia del compagno/a ad un lavoro retribuito (e magari anche gradito) ha sulla disponibilità del lavoratore in mobilità,che deve trovare un tornaconto economico o di prospettive di carriera 
  • scuole per i figli: la possibilità o meno di garantire ai figli un’istruzione adeguata e in continuità/prospettiva con quella nazionale è ugualmente importante
  • sistemazione logistica: non diversamente da sopra, per quanto riguarda la destinazione in una sede attrattiva o meno per clima, livello di vita, sicurezza, facilità di spostamento.
  • rientro alla sede di origine: èuna fase delicata della mobilità, che va programmata e gestita con la massima attenzione, tenendo conto sia dello sviluppo di carriera che del trattamento economico.

Problematiche contrattuali

Non esiste un Contratto Collettivo di Lavoro specifico per gli ERIC, come non esiste al momento in Italia un Contratto Collettivo destinato al mondo della ricerca “privata” (cioè quella che esula dalla categoria degli Enti Pubblici di Ricerca).  Troviamo così istituzioni che applicano il CCNL Metalmeccanici, altre il CCNL Chimici/Farmaceutici o per il settore Terziario; mentre le due Fondazioni basate in provincia di Trento (Fondazione Bruno Kessler e Fondazione Edmund Mach)  applicano un loro contratto provinciale, altre ancora, come  l’Istituto Italiano di Tecnologia non applicano alcun contratto collettivo, ma si sono date un proprio regolamento e, attenendosi a questo, regolano i rapporti con i dipendenti sulla base di contratti individuali.

Soluzioni gestionali e prospettive

In questo momento, come abbiamo accennato nel punto precedente, non esistono contratti collettivi o linee guida uniformi che regolino la gestione del personale degli ERIC e ciascun consorzio opera indipendentemente dagli altri.

Il rapporto di lavoro con i dipendenti diretti è regolato in Italia da contratti individuali che richiamano i regolamenti interni di ciascun consorzio. Ci sono state iniziative comuni ma  non sono andate oltre alcune indicazioni operative per affrontare le problematiche sopra esaminate. In particolare è stato suggerito,  in assenza di norme coordinate a livello europeo, di utilizzare mobilità brevi, che consentano di mantenere la situazione fiscale e previdenziale del paese di origine  e di non affrontare le problematiche economiche legate a una presenza stabile in un altro paese.

Il crescere del numero degli ERIC, oltre alla difficoltà, comune a tutte le Istituzioni di  di gestire il “lavoro di ricerca” con contratti “industriali”, sta facendo emergere la necessità di un inquadramento comune che regoli le risorse umane che operano in un ambito così particolare e importante sia per la cultura che per l’economia del nostro Paese e qualche segnale di crescente interesse per la redazione di un contratto collettivo per la Ricerca “privata” si sta manifestando.

In realtà i problemi normativi e gestionali che riguardano le risorse umane impiegate negli ERIC necessiterebbero, per essere risolti, di un complesso di principi comuni a livello comunitario che, se è troppo ottimistico immaginare come un “Contratto Collettivo Europeo” (esistono esempi di accordi transnazionali siglati dalla Confederazione Europea dei Sindacati ETUC e dalle sue articolazioni, ma riguardano aziende multinazionali che regolano in modo comune specifiche tematiche come la Formazione o la Sicurezza sul lavoro), potrebbero portare almeno alla emanazione di linee guida comuni a tutti gli ERIC. Ma anche un’eventuale “contratto” comune non sarebbe sufficiente a sviluppare l’enorme potenziale di produzione scientifica degli ERIC nel loro complesso. Il “lavoro di ricerca” per le sue dimensioni, per la specificità degli obiettivi e le caratteristiche umane e culturali delle persone potrebbe essere un ottimo terreno su cui sperimentare da parte dell’Unione regolamentazioni più omogenee, che rendano reale un mercato comune e aperto del lavoro, abbattendo gli ostacoli alla mobilità delle persone, senza suscitare troppe apprensioni e sucettibilità sovraniste nei Paesi membri.

Al momento, l’unico segnale positivo è quello dello IORP nel campo della previdenza integrativa, che per il mondo della ricerca ha dato vita a RESAVER-IORP che, sia pure tra molte difficoltà, sta operando e sviluppando in molti paesi.

Purtroppo, non sembra che l’Unione abbia compreso appieno la rilevanza strategica delle risorse umane per il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che si attendono dagli ERIC.

La “Seconda relazione sull’applicazione del regolamento (CE) n. 723/2009 del Consiglio, del 25 giugno 2009, relativo al quadro giuridico comunitario applicabile ad un consorzio per un’infrastruttura europea di ricerca (ERIC)” [7]del 6.7.2018 recita infatti: “Gli ERIC svolgono un ruolo importante nella deframmentazione della ricerca europea, grazie alla creazione, in modo armonizzato e strutturale, di infrastrutture di ricerca europee che sviluppano e offrono servizi nell’intera Unione, promuovendo la trasparenza nella raccolta dei dati, l’accessibilità delle informazioni e degli strumenti, e la conservazione di dati e servizi per gli utenti. Ciò non è solo inteso a migliorare il sostegno alle comunità scientifiche, ma può anche favorire politiche basate su elementi concreti in settori quali sanità, energia, ambiente e politiche di innovazione sociale e culturale.”, ma quando prende in esame le problematiche che devono affrontare gli ERIC per operare in piena efficienza cita principalmente questioni legate al trattamento fiscale dei consorzi o le modalità di registrazione nei diversi paesi citando solo di sfuggita le risorse umane.

Il Forum ERIC ha invece dimostrato di aver presente la rilevanza dei temi legati alle Risorse Umane che ha così sintetizzato, dopo una recente ricerca sui temi più rilevanti per  la comunità degli ERIC , al punto “3 Occupazione, distacco, assunzioni”: “Le sfide nell’area delle risorse umane all’interno degli ERIC vanno da: attrazione e fidelizzazione dei talenti per profili specifici, mobilità, assunzioni e processi di assunzione…”

Sarà compito dunque degli ERIC stessi, nei propri paesi, mantenere attivo lo scambio di informazioni per impostare politiche omogenee e per proporre alle autorità competenti le modifiche alle regole nazionali che ostacolano la mobilità. Il Forum ERIC a livello europeo, oltre a tenere le fila delle informazioni provenienti dai diversi paesi, dovrà sensibilizzare le Direzioni Generali della Commissione Europea interessate (Ricerca; Lavoro) sui punti critici che ostacolano la mobilità e stimolare l’introduzione di nuove regole che rendano effettiva la mobilità del personale della ricerca.

In questo modo gli ERIC potranno affrontare in modo attivo, e innovativo i temi che sono stati esaminati, cominciando dal rafforzare, con adeguati specialisti, la funzione dedicata, dato che al momento, secondo la ricerca sopra citata: “…la maggior parte degli ERIC non ha nel proprio team un membro dello staff dedicato alle risorse umane.”

di Andrea Gino CRIVELLI


[1] per dettagli vedi il sito www.eric-forum.eu

[2] vedi l’articolo del prof. Carlo Rizzuto sul Sole-24ore del 12/4/2020 https://www.ilsole24ore.com/art/la-ricerca-e-efficace-se-lascia-liberi-fare-non-se-guidata-dall-alto-ADRDeGJ

[3] https://eur-lex.europa.eu/

[4] https://cdn4.euraxess.org/sites/default/files/brochures/eur_21620_en-it.pdf

5  reperibili sul sito www.eric-forum.eu

[6] https://eur-lex.europa.eu/

[7] www.eric-forum.eu

Coronavirus

Tutela del consumatore, scrive l’avvocato Laura Aramini del Centro Studi Viaggi annullati per coronavirus: il settore turistico in bilico tra richieste di rimborsi e voucher Avv. Laura Aramini (Konsumer): “Il vettore deve procedere al rimborso o emettere un voucher, ma si tratta di una misura che tutela il venditore, non certo il consumatore”

Tra i primi effetti dell’emergenza da covid-19 sull’economia italiana va indubbiamente segnalata la cancellazione di viaggi e vacanze. L’impossibilità di spostarsi, ma anche la paura di entrare in contatto con estranei e focolai, ha portato migliaia di persone a disdire le prenotazioni nel breve periodo, ma anche quelle effettuate per i mesi estivi.

Molti turisti hanno lamentato la difficoltà di ottenere il rimborso da parte dell’agenzia o del portale presso il quale avevano effettuato l’acquisto, che avevano offerto soltanto di posticipare le date o di emettere un voucher. In effetti, ci troviamo oggi a vivere in una situazione che non si era mai verificata prima e, per questo, genera incertezza in diversi campi.

Con il decreto-legge del 2 marzo 2020, è stato stabilito all’art. 28 il diritto al rimborso in favore di chi abbia acquistato un biglietto o un pacchetto turistico, senza poter effettuare il viaggio o la vacanza per motivazioni connesse all’epidemia derivante da COVID 19. – Ha dichiarato l’Avvocato Laura Aramini, dell’associazione KonsumerIl vettore, dunque, entro quindici giorni dalla comunicazione effettuata dal cliente, dovrà procedere al rimborso del corrispettivo versato o emettere un voucher di pari importo,utilizzabile entro un anno dall’emissione. Questo, dunque, non dovrebbe lasciare spazio ad equivoci, ma la questione dei voucher sembrerebbe, di fatto, tutelare solo il venditore e non certo l’acquirente.”

Secondo Konsumer, questa norma, contenuta in un decreto-legge della cui legittimità secondo diversi costituzionalisti c’è da dubitare, impedisce ai consumatori di poter recuperare il denaro speso, consistente  talvolta in i somme ingenti, obbligandoli a fruire di viaggi in tempi da loro non scelti che, magari, non si sposano con i loro impegni o con il desiderio di restare a casa in un momento così particolare.

Dopo aver attentamente studiato la disposizione,Konsumer ha deciso di mettere le sue sedi a disposizione di tutti i passeggeri e turisti che vogliono ottenere l’immediato rimborso del prezzo pagato, in quanto crede che siano casi in cui  il cliente abbia diritto a ricevere la restituzione di quanto versato, senza dover attendere  un voucher.