Alte professionalità

D.L. 80/2021 CONV. L. 113/2021: Area di elevata qualificazione

Il decreto legge 9 giugno 2021 n. 80 “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia”, convertito in legge 6 agosto 2021 n. 113, all’art. 3, prevede che i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, dei conservatori e degli istituti assimilati, siano inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali.

Alla contrattazione collettiva è demandata l’individuazione di un’ulteriore area per l’inquadramento del personale di elevata qualificazione.

Dispone altresì che le progressioni all’interno della stessa area avvengano, con modalità stabilite dalla contrattazione collettiva, in funzione delle capacità culturali e professionali e dell’esperienza maturata e secondo principi di selettività, in funzione della qualità dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito.

Fatta salva una riserva di almeno il cinquanta per cento delle  posizioni  disponibili  destinata  all’accesso dall’esterno, per le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, è prevista una procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul  possesso  di  titoli o competenze  professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi  rivestiti.

Il quadro normativo ed organizzativo delineato dal decreto legge pone una serie di aspetti applicativi che necessitano di un indirizzo per il corretto perseguimento delle finalità di rafforzamento delle pubbliche amministrazioni.

La disposizione relativa al numero delle aree, termine ragionevolmente assimilabile a quello di categorie, produce un ulteriore impatto nei comparti in cui le categorie non dirigenziali sono attualmente quattro (es. regioni ed enti locali), qualora si intendesse ridurle a tre.

I profili che necessitano di un approfondimento e di un indirizzo possono essere così individuati:

  1. declaratoria funzionale dell’area di elevata qualificazione;
  2. primo inquadramento nell’area di elevata qualificazione;
  3. accesso all’area di elevata qualificazione;
  4. rischio di appiattimento del personale ricompreso nelle altre aree, in particolare dei funzionari apicali che non trovassero collocazione nell’area di elevata qualificazione;

Va preliminarmente osservato che il decreto individua le condizioni per il riconoscimento delle professionalità presenti tra il personale non dirigenziale delle pubbliche amministrazioni, sinora “compresso” dall’istituzione della separata area dirigenziale, dalla quale lo separa un divario giuridicamente ed economicamente rilevante.

È quindi necessario porre attenzione alla fase istitutiva della nuova area e all’eventuale conseguente riassetto delle aree esistenti.

La qualifica di quadro, introdotta nel lavoro privato dalla legge n. 190/1985 con una novella dell’art. 2095 del c.c., avrebbe potuto trovare applicazione anche al pubblico impiego qualora le parti contrattuali l’avessero prevista.

La necessità di individuare figure professionali alle quali attribuire la gestione di unità organizzative di livello sub-dirigenziale e la responsabilità esterna degli atti, ha visto la quasi totalità dei comparti di contrattazione optare invece per incarichi a termine, conferiti ai funzionari dell’area apicale.

Sono stati introdotti così incarichi variamente definiti e disciplinati quali le posizioni organizzative, le specifiche responsabilità, i coordinamenti, ecc.

Una consolidata giurisprudenza ha tracciato i profili di tali incarichi stabilendo che il conferimento al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, assunti dall’Amministrazione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro. Con specifico riferimento alle posizioni organizzative, ma con valenza generale, è assodato che l’incarico non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell’incarico.

Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus la cui definizione – nell’ambito della classificazione del personale di ciascun comparto – è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva (ved. Cass. SS.UU. n. 16540/2008, 8836/2010, sez. lav. n. 6367/2015, 20855/2015, 2141/2017).

La giurisdizione è conseguentemente devoluta al giudice ordinario, il quale sottopone a sindacato i poteri esercitati dall’amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il profilo dell’osservanza delle regole di correttezza e buona fede, siccome regole applicabili anche all’attività di diritto privato, alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (ved. Cass. SS.UU. 9332/2002, 18017/2003, 1252/2004, sez. lav. 2836/2014).

È quindi esclusa la tutela amministrativa, non sussistendo una posizione di interesse legittimo, quanto piuttosto di diritto soggettivo o di interesse legittimo privato.

Diverso inquadramento giuridico implicano le progressioni con inquadramento all’area – o categoria – superiore.

Sul punto merita un richiamo la pronuncia del Consiglio di Stato Sez. V, 11 febbraio 2014, n. 647 in materia di progressione verticali riservate al personale interno.

Come è stato chiarito anche dalla più recente giurisprudenza (fra le ultime: Cassazione Civile SS.UU. n. 5699 dell’11 aprile 2012, n. 13796 del 1 agosto 2012), nel lavoro pubblico contrattualizzato, per procedure concorsuali ascritte al diritto pubblico e all’attività autoritativa dell’amministrazione si intendono anche i procedimenti concorsuali “interni” destinati a consentire l’inquadramento di dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, e cioè ad una progressione verticale, profilandosi, in tal caso, una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro.

Ciò comporta che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti ai concorsi nella pubblica amministrazione che comportino passaggio in aree funzionali o categorie più elevate.

Le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti della p.a., si riferiscono non solo a quelle strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso di personale dipendente a una fascia o ad un’area superiore, essendo il termine “assunzione” correlato alla qualifica che il candidato intende conseguire e non solo all’ingresso iniziale nella pianta organica dell’amministrazione.

Ne consegue una chiara distinzione tra gli incarichi conferiti con i poteri del privato datore di lavoro, che non comportano alcuna mutazione di inquadramento, e le progressioni verticali finalizzate all’inquadramento in una diversa area o categoria, ascrivibili agli atti autoritativi della p.a., assistiti dalle garanzie procedimentali della legge 241/90 e dai principi costituzionali dell’art. 97, ultimo comma.

L’individuazione dell’area di elevata qualificazione non può quindi esaurirsi nella mera stabilizzazione di una varietà di incarichi conferiti e gestiti secondo moduli di diritto privato.

Anche in sede di primo inquadramento, si ritiene imprescindibile la valutazione di requisiti e titoli nell’ambito di una procedura formalizzata in una graduatoria, con eventuale possibilità di scorrimento, individuando senz’altro quali requisiti il possesso della laurea attinente al profilo professionale e l’idoneità alla qualifica direttiva.

In analogia alla disciplina dei concorsi pubblici, poiché pur sempre di mutamento di area e di mansioni che si tratta, ciascun titolo dovrebbe concorrere a determinare l’esito valutativo, assicurando un bilanciamento come previsto dalle linee guida sulle procedure concorsuali (Direttiva n. 3/2018 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione).

Le linee guida prevedono inoltre che occorra evitare di escludere di fatto categorie di potenziali candidati meritevoli attribuendo un peso eccessivo a titoli che essi non possono avere. Per evitare questo rischio, si può stabilire un punteggio massimo a determinati titoli. Per quanto riguarda i titoli di servizio, essi non devono essere discriminatori, per esempio se si tratta di titoli di cui possono realisticamente essere in possesso soltanto, o quasi soltanto, determinate categorie di dipendenti.

Va infine evitato l’appiattimento con lo svuotamento delle mansioni più qualificanti l’area direttiva, composta da funzionari che fino ad oggi hanno rappresentato il livello più prossimo alla dirigenza.

L’accesso successivo all’area di elevata qualificazione dovrebbe essere disciplinata quale progressione tra aree, assumendo comunque quali requisiti l’idoneità alla qualifica o categoria direttiva (C o D, a seconda dei comparti) e la laurea attinente al profilo professionale da ricoprire.

In tale sede va senz’altro valorizzata quale titolo l’esperienza maturata dal personale apicale. Se è vero, infatti, che l’area di elevata qualificazione viene formalmente individuata solo ora, è altrettanto vero che le attività che richiedono una particolare qualificazione qualcuno fino ad oggi deve averle pur svolte.

Dott. Fulvio Carli

Lvoro precario

Collaborazioni etero organizzate dal committente

La norma

  1. A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.10
  2. La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento:
    a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
    b) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
    c) alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
    d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289;7 8 12
    d-bis)  alle collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367; 5
    d-ter)  alle collaborazioni degli operatori che prestano le attività di cui alla legge 21 marzo 2001, n. 74 9.
  3. Le parti possono richiedere alle commissioni di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell’assenza dei requisiti di cui al comma 1. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.
  4. La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni. 6

Commento

  1. Tertium genus?

La norma richiamata, così come risultante dalla modifica di cui al d.l. 101/2019, conduce immediatamente l’attenzione sulla riflessione relativa alla dicotomia tra autonomia e subordinazione nel diritto del lavoro italiano.

Già in passato, con l’introduzione delle collaborazioni continuate e continuative, e, in seguito, delle collaborazioni a progetto, la demarcazione tra le due fattispecie diventava più sfumata, e si introduceva il concetto di “area grigia” tra le due categorie; questo, comunque, non ha mai condotto all’avallo, né nella dottrina, né nella giurisprudenza, della costruzione teorica di un tertium genus tra autonomia e subordinazione.

In tale dibattito, la norma in esame costituisce un punto di snodo, in quanto prevede l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni personali e continuative in cui le modalità di esecuzione della prestazione sono organizzate dal committente (c.d. collaborazioni etero-organizzate).

Rispetto ad essa, la recente pronuncia 1663/2020 della Corte di Cassazione ha fornito indicazioni rilevanti per posizionare la fattispecie all’interno della dialettica tra subordinazione e autonomia e interpretarla correttamente. La sentenza ha ad oggetto la conferma dell’applicabilità dell’art. 2, c. 1, e dunque della disciplina del lavoro subordinato, ai rapporti di lavoro dei ciclofattorini di Foodora e contiene chiarimenti su una serie punti critici sollevati dalla norma.

L’argomentazione inizia con una sintesi dei principali approdi raggiunti nel tempo dalla dottrina riguardo l’interpretazione dell’articolo 2 comma 1, che si ritiene utile riportare:

a) una prima via, che segue inevitabilmente il metodo qualificatorio, preferibilmente nella sua versione tipologica, è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta;

b) una seconda immagina l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’eteroorganizzazione e che troverebbe nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 il paradigma legale (teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato);

c) la terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo, dove tuttavia i modelli interpretativi si diversificano notevolmente essendo peraltro tutti riconducibili nell’ambito di una nozione ampia di parasubordinazione;

d) infine, vi è l’approccio “rimediale”, che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.”

Tra questi orientamenti, la Corte accoglie apertamente l’ultimo, affermando che l’intento del legislatore, quasi in un’ottica di riequilibrio dopo la soppressione delle collaborazioni a progetto, sia stato quello di individuare indici fattuali (personalità, continuità, etero-organizzazione)  tipici di situazioni di debolezza economica e contrattuali tale da meritare l’applicazione della disciplina della subordinazione, in maniera quasi automatica, e cioè “esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi».

Per l’individuazione di tali indici fattuali, la sentenza definisce il parametro della etero – organizzazione, in termini di «elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione d’impresa». La nozione, quindi, differisce dal coordinamento espresso dall’ all’art. 409, n. 3, c.p.c in quanto quest’ultimo è stabilito di comune accordo dalle parti, mentre nel caso in esame «è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato».

Attenta dottrina[1] ha delineato la differenza concettuale che sussiste tra questa nozione e quella della etero direzione, tipica della subordinazione: mentre quest’ultima è intrinseca al contratto e allo scambio con il salario, la eteroorganizzazione della prestazione è un elemento esterno rispetto alla struttura del contratto, in cui il lavoratore è, sì, tenuto ad adeguare la propria attività alla organizzazione del committente, ma il committente non ha il potere di conformare la prestazione mediante le proprie direttive.

La distanza tra la fattispecie in esame e il lavoro subordinato pone un interrogativo su come la legge applichi la disciplina del lavoro subordinato ad un lavoratore assoggettato al potere organizzativo ma non a quello direttivo. L’operazione è stata spiegata dalla dottrina nei termini di un allentamento dei «vincoli tipologici che presiedono alla dinamica fattispecie-effetti»[2] o, più direttamente, di separazione della fattispecie dagli effetti, in forza di una esigenza rimediale, cioè quella che la Corte afferma espressamente di adottare.

Questo significa che, posto che all’origine di una collaborazione etero-organizzata è ipotizzabile la stipulazione di un contratto di lavoro non subordinato, l’art. 2 prende in considerazione non un contratto, ma un rapporto di lavoro nei suoi caratteri fattuali, che presentino le caratteristiche della etero-organizzazione unilateralmente imposta dal “committente”. Questo carattere del rapporto di lavoro, evidentemente, viene ritenuto tanto equivalente alla dipendenza del lavoratore subordinato, da legittimare l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ad un rapporto non etero diretto.

Questa lettura risulta confermata da diversi passaggi della motivazione della sentenza, ad esempio quello in cui si afferma che “quando l’etero-organizzazione accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione rende il collaboratore comparabile ad un lavoro dipendente, si impone una protezione equivalente e quindi il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato”[3] e che non ha “decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, […] siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina” e, dunque, non risulta necessario neanche inquadrare la fattispecie in un tertium genus.

“Più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione. Si tratta, come detto, di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie.”[4]

  1. Quale disciplina applicabile?

In ordine al distinto problema della disciplina concretamente applicabile alle collaborazioni etero organizzate, è – nuovamente – opportuno prendere le mosse da quanto affermato dalla Corte, che, al punto 40, non esclude la applicabilità in via generale della disciplina del lavoro subordinato, in quanto «la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile» e che «in passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione». Tuttavia, al punto 41 precisa invece che «Non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese n Corte di Cassazione nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte.».

Da una analisi testuale della norma emerge che essa stessa, in realtà, circoscrive la portata dell’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero organizzate, dal momento che, al comma 2, si legge che la disposizione di cui al comma 1«non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore».

Da questo si evince chiaramente la natura derogabile della disciplina del lavoro subordinato applicabile alle collaborazioni, ben diversa da quella, imperativa, che caratterizza le norme dettate a protezione dei lavoratori subordinati. Tale derogabilità viene accordata «in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore», che non vengono ulteriormente circostanziate.

Posta questa differenza in termini di categorie generali, cercando di individuare quali siano i tratti della disciplina del lavoro subordinato incompatibili con il contratto di collaborazione etero-organizzata si può fare riferimento, in mancanza di indicazioni ulteriori,  alle norme relative all’esercizio di poteri datoriali che non siano quello organizzativo – l’unico al quale è sottoposto il collaboratore – come il potere direttivo e di conformazione di cui all’art. 2103 c.c., o il potere di controllo riconosciuto al datore di lavoro nei confronti del dipendente.

Proseguendo nell’analisi, il riferimento contenuto al comma 2 ai “trattamenti economici e normativi” non è sufficiente a ritenere estensibile ai collaboratori il trattamento contenuto nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro ai lavoratori dipendenti; in ogni caso, si ritiene applicabile l’art. 36 Cost. e, di conseguenza, il diritto alla retribuzione sufficiente mutuabile dal contratto collettivo nazionale di categoria.

Dott.ssa Laura Angeletti – Dottore di ricerca

 

[1] M.V. BALLESTRERO, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, in LLI, I, Vol. 6, No. 2, 2020

[2] A. PERULLI, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, WP CSDLE, It. n. 410/2020.

[3] Cassazione, al par. 26 della sentenza Foodora

[4] Sul dibattito tra la configurazione come norma di fattispecie oppure di disciplina si vedano F. MARTELLONI, Le collaborazioni etero-organizzate al vaglio della Cassazione: un allargamento del raggio d’azione della tutela giuslavoristica, in LLI, 2020, 1, a p. 9; R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Giuffrè, p. 371; A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 272/2015; A. ZOPPOLI, La collaborazione eterorganizzata, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 296/2016, p. 6; A. OCCHINO, Autonomia e subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015, in Var. Temi DL, 2016, 2, 203 ss., spec. P. 211 e 240; S. CIUCCIOVINO, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine tra autonomia e subordinazione, in RIDL., 2016, I, 3, p. 321; P. TOSI, in Le collaborazioni organizzate dal committente nel “decreto crisi”, http://csdle.lex.unict.it/.

Il preposto. Una nuova figura di responsabile operativo della sicurezza

Con la legge 215/2021 è stato convertito in legge il DL 146/2021 mirato al rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tra le norme rilevanti in materia, l’articolo 13 del decreto legge apporta numerose modifiche al DLGS 81/2008

A modifica dell’articolo 18 di quest’ultima disposizione di legge, è posta a carico dei datori di lavoro la formale individuazione della figura del preposto in ambito aziendale per l’effettuazione della concreta attività di vigilanza, mediante una specifica figura professionale cui la legge riconosce un particolare trattamento economico e normativo demandato ai contratti ed agli accordi collettivi di settore.

Andranno quindi adeguatamente chiariti l’ambito e le modalità di applicazione di tale normativa.

I primi obblighi che balzano all’attenzione sono quello della nomina formale di un preposto cui dovrà far seguito un incremento stipendiale in ragione delle maggiori responsabilità attribuite dalla legge.

Sul punto, andrebbero individuati i casi in cui si rende necessaria ed inderogabile la nomina del preposto. Un tanto potrebbe anche essere chiarito senza ulteriori interventi normativi nel documento di valutazione dei rischi.

Per quanto riguarda l’obbligo di integrazione retributiva, va notato che con la nuova previsione di legge si ampliano le competenze di questa nuova figura professionale cui dovrebbe corrispondere una diversa declaratoria contrattuale. Per quanto riguarda i nuovi compiti attribuiti al preposto, gli è conferito il potere di interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti, in caso di mancata attuazione delle disposizioni o di persistenza dell’inosservanza.

Quindi un potere decisionale autonomo ed immediato destinato ad influire, come già rilevato, sulla declaratoria professionale nel contratto.

Nella sostanza l’intera vigilanza comportamentale è ora attribuita ad una figura ben individuata come quella del preposto.

Rilevante diviene questa previsione nel caso di appalto, laddove l’articolo 36 del Testo Unico sulla Sicurezza è integrato prevedendo un’integrazione che stabilisce la nomina del preposto e la comunicazione al committente anche in caso di affidamento di lavori in appalto.

Fabio Petracci

I limiti di età per il collocamento a riposo nel pubblico impiego si applicano alle partecipate?

Il Decreto Presidente della Repubblica 29/12/1973 n.1092 stabilisce testualmente all’articolo 4 che gli impiegati civili di ruolo e non di ruolo sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età; gli operai sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età, se uomini, e del sessantesimo anno di età, se donne.

La norma non opera cenno alcuno ai dipendenti dalle partecipate.

Successivamente, l’articolo 1 della legge 70/1975 nello stabilire che lo stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge, esclude dall’applicazione della stessa gli enti pubblici economici, gli enti locali e territoriali e loro consorzi, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli enti ospedalieri e gli enti ecclesiastici, le università e gli istituti di istruzione, gli istituti di educazione, le opere universitarie, le scuole di ostetricia autonome, gli osservatori astronomici e vulcanologici, gli istituti geologici, le deputazioni di storia patria e in genere le accademie e gli istituti culturali di cui al decreto legislativo 27 marzo 1948, n. 472, e successive modificazioni, salvo quelli compresi nella parte VII della tabella allegata alla presente legge, gli ordini e i collegi professionali, le camere di commercio e gli enti di patronato per l’assistenza dei lavoratori, la Cassa per il Mezzogiorno.

La tabella allegata alla presente legge contiene l’elenco degli enti individuali e classificati, sulla base delle funzioni esercitate, in categorie omogenee, senza pregiudizio per le soppressioni o fusioni di enti che dovessero intervenire per effetto di successive leggi di riforma.

Nella tabella allegata non vi è cenno alcuno alle partecipate.

Ancora di seguito, il decreto legge 24/06/2014, n. 90- Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione – all’articolo 1 Misure urgenti in materia di lavoro pubblico – stabilisce che salvo quanto previsto dal comma 3, i trattenimenti in servizio in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto sono fatti salvi fino al 31 ottobre 2014 o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore. I trattenimenti in servizio disposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e non ancora efficaci alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge sono revocati.

Attualmente il decreto legislativo, 19/08/2016 n° 175 all’articolo 19, stabilisce ai primo comma che, salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi.

Aggiunge quindi al secondo comma che le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei princìpi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei princìpi di cui all’articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Pare quindi che la specialità normativa delle predette società si limiti alle procedure di assunzione per la selezione ed il contenimento dell’organico.

Si ritiene pertanto che nelle società partecipate non vadano applicati i limiti di età per la risoluzione del rapporto.

 

Art. 19
Gestione del personale

Articolo 1 legge 70/1975

Lo stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge.

Sono esclusi dall’applicazione della presente legge gli enti pubblici economici, gli enti locali e territoriali e loro consorzi, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli enti ospedalieri e gli enti ecclesiastici, le università e gli istituti di istruzione, gli istituti di educazione, le opere universitarie, le scuole di ostetricia autonome, gli osservatori astronomici e vulcanologici, gli istituti geologici, le deputazioni di storia patria e in genere le accademie e gli istituti culturali di cui al decreto legislativo 27 marzo 1948, n. 472, e successive modificazioni, salvo quelli compresi nella parte VII della tabella allegata alla presente legge, gli ordini e i collegi professionali, le camere di commercio e gli enti di patronato per l’assistenza dei lavoratori, la Cassa per il Mezzogiorno.

La tabella allegata alla presente legge contiene l’elenco degli enti individuali e classificati, sulla base delle funzioni esercitate, in categorie omogenee, senza pregiudizio per le soppressioni o fusioni di enti che dovessero intervenire per effetto di successive leggi di riforma.

Autorità Portuale di Trieste – Pregiudicata la posizione professionale dei responsabili di area

Si è conclusa nell’ambito dell’Autorità Portuale di Trieste la trattativa per il contratto di secondo livello cui ha partecipato anche la delegazione di CIU UNIONQUADRI composta dall’avvocato Deborah Toscano, dall’ingegner Vanna Gentilli e dal dottor Sergio Nardini che hanno seguito l’intera trattativa.

Su di un punto è emerso un forte contrasto tra la nostra delegazione e l’Autorità Portuale nonché con le altre organizzazioni sindacali. L’Autorità Portuale di Trieste, infatti, nonostante la ferma e motivata opposizione di CIU UNIONQUADRI, ha introdotto per i funzionari di livello apicale l’istituto delle posizioni organizzative che tra l’altro è in fase di superamento nell’ambito delle amministrazioni pubbliche dove di recente è stata introdotta l’area delle Alte professionalità con incarichi similari a quelli dirigenziali.

In tal modo è stata immotivatamente pregiudicata la posizione retributiva e professionale dei responsabili di area.

A suo tempo interpellato, il Centro Studi di CIU UNIONQUADRI aveva fornito il seguente parere:

Sommario parere in merito all’inquadramento proposto nella piattaforma rivendicativa della Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale.

Quesito

Mediante la piattaforma rivendicativa contratto di secondo livello è introdotto al punto 12.3 un trattamento economico di posizione organizzativa da assegnarsi previa una ricognizione – analisi di responsabilità e professionalità destinate ai lavoratori – quadri  che svolgono compiti caratterizzati da elevata responsabilità.

E’ affermato nel documento che nell’operare sarà data attuazione all’articolo 4 e seguenti del CCNL che disciplina la classificazione dei quadri.

I dipendenti che mi pongono il quesito sono per la gran parte responsabili d’area ed a tale titolo percepiscono un’indennità mensile pari a euro 400 per 14 mensilità.

Mi viene rivolto il seguente quesito:

Può la contrattazione di secondo livello individuare le nuove posizioni organizzative ed eventualmente con quali limiti?

Soluzione

Partiremo dal CCNL di categoria che all’articolo 4.2 riconosce e disciplina la categoria dei quadri delle Autorità Portuali.

La norma prevede che appartengono alla categoria “quadri” quei lavoratori che, in relazione al modello organizzativo adottato dalle singole Autorità Portuali (organigramma della segreteria tecnico-operativa) sono responsabili di strutture organizzative complesse di line o di staff, comprendenti generalmente più unità organizzative;

Il contratto collettivo quindi, passa a disciplinare la suddivisione della categoria in Quadri A ed in Quadri B.

Esso definisce la figura del Quadro A come lavoratori che, con qualifica di quadro, svolgono funzioni direttive ed adempiono con continuità, in collaborazione con i responsabili ovvero autonomamente, a rilevanti compiti caratterizzati da un elevato livello qualitativo, da alte e consolidate specializzazioni per la risoluzione di problematiche interdisciplinari di notevole complessità;

Nella successiva categoria dei quadri B sono collocati i dipendenti che comunque ricoprono le attribuzioni di quadro.

Vi sono quindi comprese attività che comportano compiti di direzione, coordinamento, promozione e controllo, attività che siano svolte con carattere di continuità, con ampia autonomia decisionale – nell’ambito di indirizzi a carattere generale – e con conseguente assunzione di piena responsabilità per il funzionamento, l’attuazione e lo sviluppo dei programmi della struttura e/o delle funzioni cui sono preposti. Stabilisce la norma come tale il quadro abbia la responsabilità di porzioni strategiche di attività dell’Autorità Portuale. Secondo la normativa lo stesso quadro fornisce contributi originali al Segretario Generale e/o al dirigente dell’A.P. dal quale dipende, anche in termini propositivi, per la definizione degli obiettivi ed in ordine all’attuazione dei fini istituzionali dell’Autorità Portuale. Aggiunge la norma che esso risponde, conseguentemente, del raggiungimento degli obiettivi di piano e del budget delle unità (centro di costo – profitto) ai quali è preposto ed alla cui definizione ha contribuito. Il quadro assume inoltre, poteri di rappresentanza esterna dell’A.P., sia per la trattazione degli affari di competenza, sia attraverso l’esercizio di funzioni delegate, di procure, relative anche ad incarichi diversi, ivi compresi quelli relativi alla sicurezza del lavoro o, comunque, previsti da normative particolari, conferiti dagli organi dell’A.P.

All’interno della categoria, come sopra definita, dei quadri delle Autorità Portuali si individuano come già esposto per le due fasce professionali (A e B) differenti trattamenti retributivi tabellari.

Dunque l’unica differenza tra quadro A e quadro B corrisponde nell’ampiezza di poteri e di responsabilità.

Sempre nell’ambito della contrattazione collettiva di settore, esamineremo l’autonomia concessa alla contrattazione di secondo livello.

La materia è disciplinata in primo luogo da numerosi accordi interconfederali ed in ogni caso, il contratto collettivo (Sezione 6) permette in tema di mansioni la deroga da parte della contrattazione di secondo grado è ammessa solo in casi tassativi.

La deroga quindi è prevista laddove le mansioni pur essendo esigibili non siano esemplificate nella classificazione e non possano essere dedotte in via analogica.

Dall’esame svolto seppure in termini sommari si deduce che:

La differenziazione dei quadri in categoria A e categoria B è prevista dalla contrattazione collettiva ed è basata proprio sull’importanza delle mansioni e sul grado di responsabilità ed autonomia;

La contrattazione collettiva è derogabile da parte di quella di secondo grado solo in casi del tutto tassativi e limitati.

Ne deriva che:

La caratteristica principale della qualifica di quadro A è data dall’importanza delle funzioni rispetto a quelle ordinarie e basiche di quadro. Quindi istituire una posizione organizzative generalizzata a tutti i quadri ed in casi particolari addirittura ai funzionari, significa vanificare la disciplina contrattuale che stabilisce l’esistenza di due livelli di quadri basata proprio sull’importanza delle mansioni.

Suggerimenti operativi

 Si suggeriscono pertanto le seguenti linee di condotta:

 Qualora si ritenga compatibile con gli interessi degli iscritti, che per la gran parte sono inquadrati nella categoria Quadro A e ricoprono le attribuzioni di capo area, insistere perché le posizioni organizzative possano essere istituite separatamente nella categoria Quadro A dove dovrebbero coincidere con la qualifica di responsabile di Area e nell’ambito della categoria B dove comunque dovrebbero avere attribuzioni e compensi inferiori.

Qualora non interessi l’attribuzione di posizioni organizzative, fare presenti le riserve sopra formulate, e quindi avviare un parallelo ragionamento in relazione ai nuovi inquadramenti nell’ambito del pubblico impiego, anche in ragione del fatto che si vorrebbe considerare l’Autorità Portuale di Sistema come un ente pubblico non economico soggetto al DLGS 165/2001 Testo Unico del Pubblico Impiego.

In tale prospettiva il DL 80/2021 (Brunetta) prevede l’istituzione contrattuale di un’area riservata alle Elevate Professionalità, dove non esistono le posizioni organizzative, ma incarichi a tempo da attribuirsi ad ogni lavoratore, come avviene per la dirigenza pubblica.

La nuova legge restringe le posizioni organizzative alla sola categoria inferiore dei funzionari.

Quindi, si potrebbe ipotizzare incarichi a tempo determinato normalmente di responsabile di Area o equiparati per i quadri A, posizioni organizzative per Quadri B e Funzionari.

 Fabio Petracci

Corte Costituzionale n. 88/2022, pensione reversibilità per nipoti maggiorenni inabili

La decisione della Corte arriva in ragione della sollevazione della questione di legittimità costituzionale da parte della Suprema Corte di Cassazione con riferimento all’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818 nella parte in cui non include, tra i soggetti ivi elencati, anche i maggiori orfani e interdetti dei quali risulti provata la vivenza a carico degli ascendenti.
La Corte Costituzionale sottolinea che la ratio della reversibilità dei trattamenti pensionistici consiste nel farne proseguire, almeno parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento da parte dei soggetti a lui legati da determinati vincoli familiari, garantendosi, così, ai beneficiari la protezione dalle conseguenze che derivano dal decesso del congiunto.
Si realizza in tal modo, anche sul piano previdenziale, una forma di ultrattività della solidarietà familiare proiettando il relativo vincolo la sua forza cogente anche nel tempo successivo alla morte.
Ciò posto, il rapporto di parentela tra l’ascendente e il nipote maggiorenne, orfano e inabile al lavoro, subisce un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto a quello con il nipote minorenne, con conseguente fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
Se, infatti il legame sotteso al rapporto tra nonno e nipote minorenne, come presupposto per l’accesso al trattamento pensionistico di reversibilità, deve essere ritenuto meritevole di tutela, analoga valutazione di meritevolezza, collegata al fondamento solidaristico, non può non riguardare anche il legame familiare tra l’ascendente e il nipote, maggiore di età, orfano e inabile al lavoro.
La relazione appare in tutto e per tutto assimilabile a quella che si instaura tra ascendente e nipote minore di età, per essere comuni ai due tipi di rapporto la condizione di minorata capacità del secondo e la vivenza a carico del primo al momento del decesso di questo.
È illogico, e ingiustamente discriminatorio, che i soli nipoti orfani maggiorenni e inabili al lavoro viventi a carico del decuius siano esclusi dal godimento del trattamento pensionistico dello stesso, pur versando in una condizione di bisogno e di fragilità particolarmente accentuata: tant’è che ad essi è riconosciuto il medesimo trattamento di reversibilità in caso di sopravvivenza ai genitori, proprio perché non in grado di procurarsi un reddito a cagione della predetta condizione.
Non viene nemmeno accolta la tesi della difesa erariale relativa alla differenziazione dovuta alla limitata durata nel tempo della prestazione in favore dei nipoti minori (fino alla maggiore età) e della (in astratto) più lunga durata dell’aspettativa di vita del nipote maggiorenne inabile al lavoro.
Tale differenza non è dirimente ai fini della spettanza di un diritto che ha matrice solidaristica, a garanzia delle esigenze minime di protezione della persona.
Deve, in conclusione, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 38 del d.P.R. n. 818 del 1957, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non include tra i destinatari diretti ed immediati della pensione di reversibilità i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati.

Avv. Alberto Tarlao

Articolo 2112 codice civile – trasferimento d’azienda.

Si applica solo ad un complesso economico o anche ad una generica attività economica? Ed in particolare anche nell’ambito dell’impresa sociale?

L’articolo 2112 del codice civile stabilisce che, nel caso di trasferimento d’azienda, il dipendente transita all’acquirente conservando i diritti maturati presso il precedente datore di lavoro, verificandosi in pratica una cessione del relativo contratto di lavoro, dove muta esclusivamente il soggetto datore di lavoro.

La norma stessa precisa inoltre come il trasferimento d’azienda di per sé non giustifichi il licenziamento del lavoratore, per cui la regola è quella della continuazione del rapporto di lavoro.

Il termine “trasferimento d’azienda” di cui all’articolo 2112 del codice civile porterebbe a restringere la fattispecie al solo trasferimento del complesso di beni ed attività definito come azienda.

In realtà, la Direttiva 2001/23/CE sulla tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento della proprietà di un’impresa, nel chiarire l’ambito di applicazione della stessa, fa riferimento a tutti i rapporti di lavoro senza distinzione per quanto riguarda le imprese, pubbliche o private, che esercitano un’attività economica a scopo lucrativo o non lucrativo.

Tale previsione è stata fatta propria dall’articolo 32 DLGS 276/2003 che ha stabilito come deve intendersi  per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda.

La giurisprudenza della Suprema Corte (Cassazione Civile n.29422/2017) e quella comunitaria tendono comunque ad estendere l’oggetto dell’istituto del trasferimento d’azienda anche a complessi produttivi che non rivestono propriamente le caratteristiche dell’azienda, ma si limitano a costituire un complesso di beni produttivi.

La Corte di Giustizia della Comunità Europea (Corte di giustizia CE, sentenza 26 settembre 2000, C-175/99, Mayeur e con riferimento a vicende diverse dal trasferimento d’impresa, sentenza 16 ottobre 2003, Commissione c. Italia,) ha ritenuto  irrilevante, alla luce della giurisprudenza comunitaria  che, ai fini dell’applicabilità della direttiva CE 77/187, l’attività sia esercitata non a fini di lucro e nell’interesse pubblico.

Già in precedenza la Suprema Corte ( Cassazione n.8262/2010 ) aveva evidenziato come non osti alla configurabilità del trasferimento ex articolo 2112 del codice civile la mancanza di un fine di lucro.

Queste considerazioni si incrociano con le disposizioni del DLGS n.112/2017 che disciplina l’impresa sociale de in particolare all’articolo 12 la cessione d’azienda nell’ambito di tale settore, prevedendo rigorosi adempimenti senza alcuna deroga alle previsioni di cui all’articolo 2112 del codice civile.

Fabio Petracci

Appalto pubblico

  1. Appalto pubblico; 2. Le procedure di appalto: D.lgs. 50/2016; 3. Disciplina amministrativa: l’articolo 120 C.P.A; 4. Ricorrente principale: procedura di impugnazione; 5. Come agire nei confronti del ricorrente principale: ricorso incidentale paralizzante o escludente; 6. Analisi dal punto di vista applicativo.

 

  1. APPALTO PUBBLICO

L’appalto in generale è un contratto “col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro” ex articolo 1655 C.C.

Diversamente è l’appalto pubblico, il quale trova la sua disciplina, nonché il procedimento, nell’articolo 120 del codice del processo amministrativo (C.P.A) e nel D.lgs. 50/2016, quest’ultimo noto anche come “Codice degli appalti” ovvero “Codice dei contratti pubblici”.

 

  1. LE PROCEDURE DI APPALTO: D.LGS. 50/2016

Le procedure di appalto sono quelle attraverso cui l’amministrazione individua un soggetto con cui stipulare un contratto oppure individua un contraente. Una disciplina molto dettagliata si trova nel D.lgs. 50/2016 ed è una normativa che quasi integralmente deriva dalle direttive dell’UE. L’amministrazione, quando deve individuare il contraente per stipulare un contratto, in specie quando il contratto supera alcune soglie di valore, deve seguire determinate procedure in cui, quasi sempre, vi è un atto, detto bando di gara o lettera d’invito, in cui viene indicata tutta una serie di requisiti per poter partecipare alla gara. Solo successivamente, le imprese partecipanti, entro i termini previsti dal bando, presentano le loro offerte.

In genere, i partecipanti presentano sempre due buste chiuse: l’amministrazione apre per prima quella con la documentazione amministrativa per valutare che tutti i partecipanti sono in possesso dei requisiti per partecipare e infine emette dei provvedimenti di ammissione o esclusione. In quella con l’offerta tecnica invece, i partecipanti fanno la vera e propria offerta, preciseranno a che prezzi e a che condizioni sono in grado di fornire le prestazioni che l’amministrazione desidera.

Dopo questa fase, l’amministrazione aprirà la busta con le offerte tecniche solo delle imprese ammesse.

 

  1. DISCIPLINA AMMINISTRATIVA: L’ARTICOLO 120 C.P.A

L’articolo 120 C.P.A si applica alle procedure di affidamento, di pubblici lavori, servizi e forniture, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative, i provvedimenti adottati dall’Autorità nazionale anticorruzione, sempre in materia di affidamento di appalti pubblici.

L’ANAC (Autorità nazionale anti corruzione) svolge un’attività di ausilio nelle procedure di appalto, come ad esempio viene segnalato all’ANAC con l’esclusione dell’impresa dalle successive gare quando quest’ultima rilascia delle dichiarazioni false o è gravemente inadempiente nei precedenti contratti pubblici viene.

Siamo nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ergo vi è la sola tutela degli interessi legittimi e il giudice ha giurisdizione fino al provvedimento di aggiudicazione. Dopo di ciò, l’amministrazione stipula il contratto con l’aggiudicatario. E dal contratto in poi la giurisdizione è del giudice ordinario.

La peculiarità della disciplina è che il termine per proporre ricorso è dimezzato e per le materie ex art 120 C.P.A non è possibile proporre ricorso straordinario davanti al Presidente della Repubblica.

Vi può sorgere dei problemi tra il provvedimento amministrativo di aggiudicazione e il contratto, in specie, le conseguenze sul contratto a causa del successivo annullamento del provvedimento di aggiudicazione. Vi erano infatti, diversi casi in cui la sentenza accoglieva il ricorso e annullava il provvedimento di aggiudicazione, ma il contratto era stipulato ed eseguito. Il contratto ha effetto tra le parti e i terzi, ossia quelli che hanno proposto ricorso per l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione e non possono rivolgersi al giudice per far valere eventuali cause di invalidità del contratto. Secondo la Cassazione, solo l’amministrazione poteva agire dinanzi al giudice ordinario per chiedere l’annullamento del contratto stipulato, facendo valere un vizio del consenso. Ne conseguenze che il ricorrente non ha una tutela effettiva, anche se il provvedimento di aggiudicazione era annullato. Per arginare ciò, l’articolo 120 C.P.A ha previsto un rito veloce.

Un rimedio a tale problematica è la previsione della CLAUSOLA DI STAND STILL, la quale impone all’amministrazione di fermarsi dopo l’aggiudicazione di modo tale da permettere agli interessati di proporre ricorso:

  • Il contratto va stipulato entro 60 giorni dopo l’aggiudicazione (regola generale);
  • il contratto non può comunque essere stipulato prima di 35 giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione (clausola stand still);
  • l’amministrazione, la stazione appaltante deve comunicare immediatamente, entro 5 giorni, a tutti i partecipanti i vari provvedimenti (aggiudicazione, eventuale esclusione, decisione di non aggiudicare l’appalto, la data di stipula del contratto) perché dalla comunicazione decorre il termine per rivolgersi al giudice. Queste comunicazioni vanno fatte via PEC, dove viene indicato il soggetto aggiudicatario e il termine dilatorio per la stipulazione del contratto;
  • dall’invio dell’ultima PEC, l’amministrazione aspetta 35 giorni prima di stipulare perché il termine per proporre ricorso al TAR è di 30 giorni;
  • se viene notificato un eventuale ricorso, contro l’aggiudicazione, il periodo di stand still viene prolungato;
  • negli appalti il ricorrente deve proporre la domanda cautelare in quanto tutela sia il ricorrente che l’amministrazione. In questo caso l’amministrazione deve attendere i successivi 20 giorni, purché intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado, o almeno la sentenza di primo grado;
  • l’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa se il giudice con ordinanza si dichiara incompetente, cessa anche se il giudice fissa l’udienza di discussione senza concedere l’azione cautelare, oppure quando il ricorrente rinuncia all’esame della domanda cautelare.
  1. PROCEDURA DI IMPUGNAZIONE

Tutti gli atti della procedura di gara sono impugnabili ex art 120 C.P.A e in alcuni casi si impugna direttamente il bando di gare ossia l’atto di avvio della procedura; ad es. quando quest’ultimo contiene delle clausole immediatamente escludenti che impediscono a un soggetto di partecipare, il bando è immediatamente lesivo e va impugnato subito nei 3 giorni, altrimenti lo si impugna alla fine assieme all’aggiudicazione.

Si può impugnare inoltre, quando il bando non ci sia, ergo non viene indetta una procedura di gara. Il d.lgs. 50/2016 prevede che quando l’amministrazione stipula un contratto sopra una certa soglia deve pubblicare l’avviso del contratto stipulato, e allora i 30 giorni iniziano dal giorno di pubblicazione. Se non vi è stato nemmeno questo avviso di aggiudicazione, il termine è di 6 mesi dal giorno successivo alla data di stipulazione del contratto.

In materia di appalti se la stazione appaltante fruisce del patrocinio dell’avvocatura dello Stato, come accade in FVG, ergo o è un’amministrazione statale o un’altra amministrazione, il ricorso deve essere notificato sia all’avvocatura, altrimenti è inammissibile, che alla sede reale dell’amministrazione, così da poter applicare la clausola di stand still.

Il giudice deve fissare un’udienza d’ufficio, e deve fissarla entro 45 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione in giudizio delle parti intimate.

Se la controversia ha un valore economico importante, si può consentire il superamento dei limiti dimensionali del ricorso, ma oltre le 35 pagine. Risulta pacifico che se i tempi sono tutti dimezzati anche gli atti debbano essere chiari e sintetici.

Da precisare, per quanto riguarda i nuovi atti attinenti alla medesima procedura di gara che, in materia di appalti, non può scegliere deve fare motivi aggiunti ex articolo 43 C.P.A, a differenza della regola generale, secondo cui per i nuovi atti il ricorrente può scegliere se proporre un ricorso autonomo o motivi aggiunti.

La sentenza deve essere redatta in forma semplificata ovvero quando al giudice pare evidente l’esito del giudizio.

Il TAR deposita la sentenza entro 30 giorni dall’udienza di discussione, a differenza del termine ordinario di 45 giorni. Le parti possono chiedere la pubblicazione anticipata del dispositivo che avviene entro 2 gironi dall’udienza.

Le stesse regole esposte si applicano anche in appello dinanzi al Consiglio di Stato.

Si ha inefficacia del contratto ex art. 121 C.P.A quando vi è un contratto stipulato nelle more del giudizio amministrativo sul provvedimento di aggiudicazione. Il caso più frequente è il mancato rispetto della clausola stand still. Tuttavia, vi sono delle volte in cui il contratto non viene dichiarato inefficace per esigenze imperative connesse a un interesse generale.

Ex articolo 124 C.P.A, nel ricorso in materia di appalti, il ricorrente, oltre a dover inesorabilmente proporre domanda cautelare, deve sempre inserire nel ricorso l’istanza di conseguire l’aggiudicazione del contratto, altrimenti il giudice potrà non consentirgli di ottenere il risarcimento danni.

 

  1. COME AGIRE NEI CONFRONTI DEL RICORRENTE PRINCIPALE: RICORSO INCIDENTALE PARALIZZANTE O ESCLUDENTE

Il ricorso incidentale paralizzante o escludente è il più comune del ricorso indentale nel processo amministrativo ed è quel ricorso presente soprattutto in materia degli appalti, ma prima di procedere, è opportuno spendere qualche parola per quello “ordinario”.

Con il ricorso incidentale ex articolo 42 C.P.A, il controinteressato chiede al giudice di annullare il provvedimento amministrativo già impugnato dal ricorrente oppure un provvedimento connesso rispetto a quello già impugnato dal ricorrente, però per parti o per motivi diversi rispetto a quelli indicati dal ricorrente. Da aggiungere una premessa ossia il ricorrente notifica il ricorso alle altre parti entro 60 giorni, lo deposita entro i successivi 30 giorni e poi le parti intimate possono costituirsi entro 60 giorni (termine non perentorio).

Le parti intimate giocano in difesa, nel senso che cercheranno di dimostrare nei loro atti processuali che il ricorso non può essere accolto, o per ragioni di rito o per ragioni di merito.

In alcuni casi però, le parti intimate, possono avere interesse a proporre un ricorso incidentale ex articolo 42 C.P.A, il quale si occupa di tutti i casi in cui c’è giurisdizione del giudice amministrativo, sia che si tratti di tutelare un interesse legittimo sia che si tratti di tutelare un diritto soggettivo.

Nella giurisdizione generale di legittimità il ricorso incidentale lo può presentare soltanto il controinteressato e non l’amministrazione resistente, quest’ultima può presentare, se c’è una giurisdizione esclusiva, una domanda riconvenzionale.

In altre parole, il ricorso incidentale può essere chiesto solo dal controinteressato e non dall’amministrazione, perché il controinteressato chiede a sua volta che il provvedimento amministrativo impugnato sia annullato per parti o motivi diversi, l’amministrazione non può, ovviamente, chiedere al giudice di annullare un proprio provvedimento; l’amministrazione se ritiene di aver compiuto degli atti illegittimi li annulla in autotutela, visto che non può fare causa a sé stessa.

Il controinteressato con il ricorso incidentale se lo ritiene, nei 60 giorni dalla notifica del ricorso principale, può proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale.

Il controinteressato è un soggetto che, dal provvedimento che il ricorrente vuole far annullare, ha tratto vantaggio, ergo egli intende mantenere tale vantaggio; un interesse, dunque, totalmente contrario a quello del ricorrente. Normalmente il controinteressato si costituisce con una memoria con la quale cerca di convincere il giudice a non accogliere il ricorso; in alcuni casi però, il controinteressato può avere interesse a presentare un ricorso incidentale, con il quale chiede al giudice di annullare il provvedimento amministrativo già impugnato dal ricorrente, oppure un provvedimento connesso rispetto a quello già impugnato dal ricorrente però per parti o per motivi diversi rispetto a quelli indicati dal ricorrente.

Con il ricorso incidentale il controinteressato diventa ricorrente a sua volta, in quanto presenta anche lui un ricorso e chiede al giudice di annullare un provvedimento amministrativo. In tal caso, il controinteressato fa valere a sua volta dei vizi del provvedimento impugnato e richiede l’annullamento in parte, al fine di mantenere lo stesso assetto di interessi ovvero al fine di restare comunque in una posizione utile al mantenere il bene della vita che aveva già ottenuto. Il ricorso in generale in genere viene presentato nelle procedure comparative, concorsi appalti.

In caso di accoglimento del ricorso incidentale, il controinteressato mantiene la situazione di vantaggio già verificata in virtù dei provvedimenti impugnati.

Come introdotto all’inizio, il ricorso incidentale più comune nel processo amministrativo è il ricorso incidentale cd. paralizzante o escludente. Paralizzante nel senso che, se si riesce a dimostrare con il ricorso incidentale la mancanza in capo al ricorrente delle condizioni dell’azione, allora il ricorso viene deciso per primo, in quanto pone delle questioni pregiudiziali ex articolo 276 C.P.C che, appunto, vengono decise per prime.

L’art. 276 C.P.C si applica al processo amministrativo perché vi è un preciso rinvio, infatti esso disciplina la modalità attraverso la quale il giudice deve decidere l’esito del giudizio. “La decisione è deliberata in segreto nella camera di consiglio. Ad essa possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione”.

Nel processo amministrativo di solito c’è una sola udienza, più precisazione l’udienza di discussione in cui partecipano i difensori delle parti, il collegio giudicante e il segretario di udienza. Finita la discussione di solito fanno tutte le discussioni chiamate in quella giornata e poi si riuniscono in segreto nella camera di consiglio dove sono presenti solo i giudici e in tale occasione decidono l’esito della causa: “Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa”.

Il collegio decide gradatamente, ergo prima le questioni pregiudiziale proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e solo successivamente, se sussistono i presupposti, decide il merito della causa.

I presupposti sono: la giurisdizione, la competenza, le condizioni dell’azione (interesse e legittimazione ad agire), tempestività della notifica e del deposito, e verificare che l’interesse ad agire perduri al momento della decisone.

Col ricorso incidentale paralizzante il controinteressato presenta un ricorso incidentale con cui asserisce che il ricorrente non doveva proprio essere ammesso alla procedura comparativa, ergo l’amministrazione avrebbe dovuto escludere la sua offerta e i provvedimenti dell’amministrazione vengono impugnati per la parte in cui non hanno escluso l’offerta del ricorrente principale.

Se il controinteressato riesce a dimostrare che l’offerta del ricorrente doveva essere proprio esclusa in radice. Se questo ricorso incidentale si rivela fondato il ricorso principale del ricorrente principale sarà inammissibile per difetto di interesse ad agire, in quanto il ricorrente principale se doveva essere escluso del tutto dalla selezione non ha interesse a contestare gli esiti di una selezione di cui non avrebbe dovuto prendere parte.

 

  1. ANALISI DAL PUNTO DI VISTA APPLICATIVO

È intuitivo che nelle gare vi è un soggetto che si aggiudica l’appalto a discapito di tutti gli altri partecipanti. Poniamo il caso che un soggetto, che non abbia vinto, propone ricorso. In tal caso, l’aggiudicatario diventa il controinteressato nel ricorso: il ricorrente (soggetto che ha perso) propone ricorso e solleva una serie di vizi, asserisce che la gara si sia svolta in maniera illegittima per una serie di ragioni o che ad essere illegittimità è l’ammissione dell’offerta dell’aggiudicatario; l’aggiudicatario (controinteressato) si vede notificare il ricorso. Egli ha tutto l’interesse a mantenere il bene della vita, e in molti casi presenta un ricorso incidentale con cui asserisce che l’offerta del ricorrente non doveva essere ammessa, ergo il ricorrente era privo dei requisiti per partecipare alla procedura.

In questi casi, il giudice amministrativo, almeno fino a poco tempo fa, sosteneva che la questione proposta dal controinteressato, che si configurava come ricorrente incidentale, è pregiudiziale ex art. 276 C.P.C perché se dovesse essere accolto il ricorso incidentale, ossia il ricorso principale viene dichiarato inammissibile, viene meno l’interesse ad agire del ricorrente principale ovvero è carente l’interesse. È evidente che in questo modo il ricorso principale non viene preso in considerazione perché non si valuta se è legittima o meno l’aggiudicazione disposta in favore all’aggiudicatario o l’ammissione dell’offerta dell’aggiudicatario. L’aggiudicatario gode, dunque, di un vantaggio, rispetto agli altri partecipanti nel processo amministrativo, solo perché è aggiudicatario.

Potrebbe essere che il ricorso principale sia fondato e quindi, ad essere illegittima non sia solo l’ammissione del ricorrente principale, ma anche l’aggiudicazione in favore dell’aggiudicatario.

A tale problematica è intervenuta l’Adunanza plenaria 4/2011 (CDS), la quale si distingue per la sua rilevanza perché è una delle prime che fornito delle interpretazioni sia per il C.P.A che per il processo amministrativo vero e proprio. Si è espressa sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale. L’Adunanza Plenaria era giunta alla conclusione che si doveva valutare prima il ricorso incidentale se ha natura paralizzante rispetto al ricorso principale.

Rispetto al problema dell’eventuale vantaggio di cui gode il controinteressato aggiudicatario, qui emerge la posizione di difendere la necessità di valutare prima il ricorso incidentale in relazione al principio che il processo amministrativo è un processo di diritto soggettivo e non di diritto oggettivo, ossia si asserisce che il processo è finalizzato a tutelare la situazione giuridica soggettiva del ricorrente che è un interesse legittimo, ma viene detto diritto soggettivo perché è funzionale alla tutela dell’interesse delle parti e non è di diritto oggettivo, in quanto quest’ultimo non è funzionale a tutelare la legittimità dell’attività amministrativa, ergo, se il ricorrente non può ottenere l’aggiudicazione dell’appalto perché doveva essere escluso, si dichiara il ricorso inammissibile senza guardare il merito del ricorso. Anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura, ad es. i ricorrenti sono soltanto due, ed entrambi sostengono che l’altro concorrente doveva essere escluso, il giudice potrebbe accogliere entrambi i ricorsi e disporre la ripetizione della gara. In tal caso si realizza un interesse strumentale in capo al ricorrente grazie a cui è possibile ripetere la procedura selettiva, ergo, si possa partecipare nuovamente ad essa.

Vi è il dubbio se l’interesse strumentale costituisca un interesse ad agire sufficiente per ottenere dal TAR una sentenza nel merito.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha risposto negativamente, infatti o il ricorrente dimostra che può ottenere subito l’aggiudicazione dell’appalto oppure egli non è legittimato ossia non ha interesse a proporre ricorso che gli dichiara inammissibile.

Su tale posizione però, il TAR Piemonte, sez II, (Ordinanza 208/2012) rimette la questione con un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE in quanto pone il quesito del contrasto con l’art. 267 TFUE, il quale prevede che se un giudice nazionale dubita della compatibilità di una disposizione legislativa rispetto a una norma proveniente dall’UE può rimette la questione alla Corte di giustizia. Se i giudici, compreso quello amministrativo, ritengono che una legge sia in contrasto con una disposizione normativa dell’UE devono disapplicare la legge.

La Corte di giustizia dell’UE si è espressa il 4 Luglio 2013, con una prima sentenza riguardante una procedura con solo due offerte da due soggetti, dando ragione al TAR Piemonte e non all’ Adunanza Plenaria, asserendo che se le offerte sono due devono essere valutate entrambe, ergo sia il ricorso principale che quello incidentale, ma solo se i vizi che entrambi sollevano riguardano la stessa fase procedimentale (simmetria escludente).

Nel 2018 è la stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che si rivolge nuovamente alla Corte di giustizia, chiedendo come deve comportarsi se vi sono più imprese che vi partecipano e non abbiano solo due offerte ammesse. La Corte di giustizia ha risposto che in materia di appalti, anche se il ricorso incidentale paralizzante o escludente dovesse essere fondato, bisogna comunque valutare la fondatezza o meno del ricorso principale, dando così rilievo all’effettività della disciplina volta ad individuare, nel rispetto della libera concorrenza, la migliore offerta con cui l’amministrazione decide di stipulare un contratto (Sent. 5 settembre 2019).

Da questa evoluzione e sempre più spesso nei processi amministrativi, si è formata un’opzione per le parti di chiedere al Consiglio di Stato di rivolgersi alla Corte di giustizia per ottenere un’interpretazione in via pregiudiziale.

Anche il legislatore ha tentato svariati modi per snellire il contenzioso e uno di questi è stato una modifica all’art. 120 C.P.A, ma tale procedura super accelerata in materia di ammissione delle offerte è stata abrogata con una decreto legge di Aprile, convertito in legge a Giugno del 2019, il c.d decreto SBLOCCA CANTIERI, il quale “contiene una serie di norme per ridurre regolamenti e controlli nella gestione degli appalti pubblici e semplificare l’attività edilizia in generale, a partire dalle costruzioni sismiche, per le quali è necessaria la preventiva autorizzazione della Sovrintendenza dell’Ufficio tecnico regionale, e per finire alle distanze tra edifici (secolare DM 1444/1968)”.

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste

Alte professionalità

In vista dell’area delle Elevate Professionalità nelle Pubbliche Amministrazioni

Intervento dell’avv. Fabio Petracci , Centro Studi di CIU Unionquadri, in occasione del Convegno Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego.

Vedrò di sollevare alcuni quesiti per favorire ed avviare la discussione.

Stiamo trattando delle categorie delle alte professionalità nell’ambito del Pubblico Impiego, dove un grosso nucleo di professionalità appaiono  compresse nel cosiddetto inquadramento delle categorie non dirigenziali e dove si è voluto individuare il motore della macchina amministrativa esclusivamente nella dirigenza.

Ciò avviene, nonostante nell’organizzazione del lavoro privato presenti ormai e da tempo nuove forme di organizzazione che vede sempre più protagonisti lavoratori altamente qualificati che svolgono un lavoro non manuale volto alla produzione di output tendenzialmente intangibili.

Da molto tempo, sono emerse e si sono consolidate nuove istanze del ceto medio che dopo la marcia dei 40.000 e la lotta al livellamento retributivo, ora è alle prese con l’accentramento della ricchezza e la scomparsa di molte forme di mobilità sociale.

L’emergere di queste istanze ha trovato trova una seppur parziale risposta nel mondo del lavoro con la legge 190/85 che riconosce la categoria dei quadri intermedi, modificando l’articolo 2095 del codice civile.

Sul piano del lavoro pubblico, nonostante l’epocale riforma degli anni 90 che ha voluto introdurre la disciplina del lavoro privato nelle pubbliche amministrazioni un simile fermento non si è mai verificato.

Allorquando con la legge 421/1992 si delineava il nuovo assetto dell’impiego pubblico, nessun ostacolo normativo si frapponeva alla piena applicazione dell’articolo 2095 del codice civile che vede le categorie dei lavoratori suddivise in operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Il tema era toccato sotto l’aspetto dello spazio contrattuale collettivo dall’articolo 40 del DLGS 165/2001 che prevedeva l’esistenza di una specifica e distinta disciplina nell’ambito dei contratti collettivi di comparto per coloro che svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi.

Con il DLGS 150/2009 l’articolo 40 era semi abrogato, restando la semplice previsione della possibilità per i contratti collettivi di istituire apposite sezioni per specifiche professionalità.

Trattandosi di un mondo del lavoro ormai collocato nell’ambito del diritto civile, ci si chiede il perché di questa differenziazione.

In primis, potremmo ritenere come l’organizzazione del lavoro pubblico, nonostante la riforma, non appaia in grado di fare propria la nuova organizzazione del lavoro della conoscenza nonché le istanze sociali ormai maturate.

Ove un tanto non fosse vero, potremmo azzardarci a ritenere l’esistenza nell’ambito del pubblico impiego di un deficit di pluralismo e libertà sindacale se non addirittura una certa sudditanza delle scelte legislative rispetto ad un ruolo anomalo del sindacato.

Nell’ambito di questa consolidata situazione, si inserisce l’esigenza straordinaria di una Pubblica Amministrazione altamente qualificata imposta dal PNRR.

E’ stata quindi introdotta per legge una ulteriore area professionale dove collocare le Elevate Professionalità.

Il contratto collettivo delle Funzioni Centrali ha recepito questa previsione meglio definendo quest’ambito di inquadramento.

Resta aperta la definizione dei criteri per l’accesso a quest’area di inquadramento.

Di fronte a questo improvviso mutamento di rotta che impone il riconoscimento de Elevate Professionalità serve focalizzare la nostra attenzione sui criteri di selezione degli appartenenti all’area professionale ad evitare trascinamenti ed automatismi, evitando pure che la nuova area automaticamente assorba anomale situazioni individuali e collettive già consolidate.

E’ necessario quindi creare una reale posizione retributiva e normativa per quanti verranno a far parte dell’area delle elevate professionalità.

Va attentamente verificata l’analoga ed inferiore area dei funzionari che ricalca per certi versi talune caratteristiche della nuova area delle Elevate Professionalità per verificare se vi sia un disegno di una Pubblica Amministrazione nel suo complesso totalmente professionalizzata.

Bisognerà ragionare oltre l’ipotesi prevista per il contratto delle amministrazioni centrali per poter tradurre la riforma nelle diverse amministrazioni, principalmente locali, dove esistono situazioni spesso difformi.

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In vigore il codice alfanumerico unico per indicare i CCNL con attribuzione affidata al CNEL

A partire da febbraio 2022, è in vigore l’attuazione del codice alfanumerico unico per indicare i CCNL (Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro), la cui attribuzione è demandata al CNEL.

Secondo l’articolo 16-quater del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 (cioè il Decreto Semplificazioni), è stato istituito il codice alfanumerico unico per l’indicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) nel settore privato.

Tale disposizione, come annunciato dalla Circolare INPS numero 170 del 12/11/2021, prevede che, in sede di acquisizione del contratto collettivo nell’archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro, nelle comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro per le denunce retributive mensili all’INPS, il dato relativo al contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL) che viene applicato al lavoratore, venga indicato attraverso il codice alfanumerico unico attribuito dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

Tale informazione sul contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al lavoratore subordinato era precedentemente trasmessa attraverso il flusso di denuncia Uniemens.

Questo passaggio da Uniemens INPS a Codice alfanumerico unico ha previsto un periodo di transizione in cui era consentito utilizzare anche il codice INPS, per dare modo ai datori di lavoro, ai consulenti, agli intermediari, nonché ai loro applicativi utilizzati per suddette denunce di adeguarsi alla nuova direttiva istituita.

Per consentire una progressiva transizione verso la nuova modalità relativo al codice alfanumerico unico per i CCNL, come appena accennato, c’è stata una fase di passaggio di durata bimestrale (Dicembre 2021 e Gennaio 2022) in cui l’invio del dato poteva essere effettuato o con il nuovo codice alfanumerico unico del CNEL o con il codice INPS.

Da febbraio 2022 invece, la trasmissione di tali dati avviene solo ed esclusivamente per mezzo del codice alfanumerico unico del CNEL.

Dott. Gilberto Roma