CASSAZIONE – Contenzioso di Lavoro e competenza del Giudice Fallimentare

Competono al Giudice Fallimentare le controversie che interessano in primo luogo un diritto patrimoniale del lavoratore.

Nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo “status” del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, al fine di garantire la parità tra i creditori, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale.

Lo ha ribadito il giudice di legittimità in una recente ordinanza. (Cass. civ. Sez. L, Ord. 22 agosto 2022, n. 25055)

Obblighi di informazione e non solo, nei confronti dei lavoratori di nuova assunzione

Seguendo le impostazioni della direttiva UE 20191152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, lo Stato italiano emana il DLGS 27 giugno 2022 n.104 che impone condizioni trasparenti al rapporto di lavoro.

La disposizione di legge in esame, va ad innovare il precedente DLGS 26 maggio 1997 n.152 emanato sulla base di precedenti direttive comunitarie che disciplinavano la materia.

Il provvedimento amplia e specifica gli obblighi di informazione dei datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti, stabilisce i termini di durata massima del patto di prova, i principi generali dello svolgimento da parte del lavoratore di molteplici prestazioni in parallelo.

A chi si applica questa normativa?

La normativa si applica a tutti i lavoratori subordinati del settore privato e pubblico, nonché a tutti quei rapporti di lavoro che normalmente si definiscono para–subordinati.

In cosa consiste?

Si impone così nell’ambito della gran parte dei rapporti di lavoro l’obbligo di una comunicazione chiara, trasparente e preventiva, di informazioni in forma cartacea oppure informatica accessibili al lavoratore ed al datore di lavoro, che dovranno essere conservate per almeno cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro.

E nello specifico?

L’obbligo riguarda genericamente le condizioni di lavoro e nello specifico l’identità delle parti che instaurano il rapporto, il luogo di occupazione, la sede ed il domicilio del datore di lavoro, inquadramento, livello, qualifica del lavoratore, nel caso di rapporti a termine, la loro durata, nel caso di lavoratori somministrati, l’identità delle imprese utilizzatrici, la durata del periodo di prova, il diritto a ricevere la formazione erogata dal datore di lavoro, se prevista; la durata delle ferie e degli altri congedi retribuiti, le modalità di determinazione e di fruizione degli stessi, la procedura ed i termini del preavviso, l’importo iniziale della retribuzione con l’indicazione del periodo e delle modalità di erogazione, la programmazione dell’orario normale di lavoro, eventuali obblighi di prestazione dello straordinario e la sua retribuzione, informando il lavoratore di eventuali elementi di variabilità dell’orario, il contratto collettivo anche aziendale, applicato al rapporto con l’indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto, il sistema previdenziale applicato al rapporto di lavoro, le modalità della prestazione qualora la stessa sia organizzata mediante sistemi decisionali o di monitoraggio autorizzate (cd piattaforme).

Le modalità dell’informazione.

Per quanto riguarda le modalità di informazione, la legge stabilisce che l’obbligo è assolto mediante la consegna al lavoratore, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio dell’attività lavorativa, alternativamente:

  1. del contratto individuale di lavoro redatto per iscritto;
  2. della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 9-bis del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608. Quindi della comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro che viene comunicata all’Autorità competente.

Precisa la norma che, in ogni caso, le informazioni di cui al comma 1 eventualmente non contenute nei documenti di cui al comma 2, lettere a) e b), sono in ogni caso fornite per iscritto al lavoratore entro i sette giorni successivi all’inizio della prestazione lavorativa.

Altri obblighi di comunicazione incombono sul datore di lavoro in caso di risoluzione del rapporto. In tal caso, le informazioni citate, qualora non fornite all’atto dell’instaurazione del rapporto, vanno consegnate al lavoratore all’atto della cessazione del rapporto.

Ulteriori informazioni in merito alle informazioni da fornire sono accessibili per il tramite del sito internet del Ministero del Lavoro e per le pubbliche amministrazioni tramite il sito della funzione pubblica.

In caso di uso di sistemi e piattaforme informatiche

Per quanto attiene l’utilizzo di sistemi e piattaforme informatiche, è prevista una specifica informativa atta a comprendere le caratteristiche gli scopi e le finalità dei sistemi in relazione alle modalità del rapporto di lavoro, i criteri di programmazione e quelli usati per valutare le prestazioni, le misure di controllo adottate per le decisioni automatizzate, gli eventuali processi di correzione ed il responsabile del sistema di gestione della qualità.

Eventuali modificazioni delle condizioni oggetto di informazione vanno comunicate al lavoratore entro 24 ore.

A fronte di queste informazioni, il lavoratore, direttamente, o per il tramite delle rappresentanze sindacali, ha il diritto di accedere ai dati e di richiedere ulteriori informazioni.

Lavoratori distaccati all’estero.

Specifiche previsioni normative sono previste per i lavoratori che effettuano la loro prestazione all’estero in qualità di distaccati.

In quest’ultimo caso, alle informazioni già indicate ne vanno aggiunte ulteriori che riguardano:

  1. a) il paese o i paesi in cui deve essere svolto il lavoro all’estero e la durata prevista;
  2. b) la valuta in cui verrà corrisposta la retribuzione;
  3. c) le eventuali prestazioni ulteriori in denaro o in natura inerenti agli incarichi svolti;
  4. d) ove sia previsto il rimpatrio, le condizioni che lo disciplinano;
  5. e) la retribuzione cui ha diritto il lavoratore conformemente al diritto applicabile dello Stato membro ospitante;
  6. f) le eventuali indennità specifiche per il distacco e le modalità di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio;
  7. g) l’indirizzo del sito internet istituzionale dello Stato membro ospitante in cui sono pubblicate le informazioni sul distacco.

Tale normativa non si applica ai pubblici dipendenti operanti all’estero, al personale addetto alla pesca ed alla navigazione.

Sanzioni per mancato adempimento.

Competente in tema di sanzioni per la violazione delle norme sull’informativa è l’ispettorato del lavoro cui vanno inviate eventuali denunce.

Sono previste sanzioni pecuniarie in base alle vigenti disposizioni di legge, nonché ipotesi di responsabilità dirigenziale nell’ambito del pubblico impiego e penalizzazioni, in tale ambito, della misurazione della performance.

Il decreto legislativo in esame tocca inoltre, sempre su delega della normativa comunitaria, ulteriori aspetti del rapporto di lavoro, imponendo limiti anche alla contrattazione collettiva.

Il decreto legislativo interviene anche sul patto di prova.

E’ stabilito in primo luogo come il periodo di prova non possa superare la durata di 6 mesi.

E’ previsto inoltre che, in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Rimangono invece invariate le norme concernenti le assunzioni nel pubblico impiego che continuano ad essere disciplinate dall’articolo 17 del  DPR 487/1994.

Cumulo di impieghi.

Un altro tema importante ed influente sul nostro diritto del lavoro è contenuto nell’articolo 8 “cumulo di impieghi” laddove è sancito come il datore di lavoro non possa vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa fuori orario, a meno che non sussistano ragioni concernenti la salute del lavoratore o ragioni concernenti conflitti di interessi anche non in violazione dell’articolo 2105 del codice civile.

La direttiva di cui riportiamo l’articolo 5 si profila meno restrittiva in quanto così sancisce:

Articolo 9

Impiego in parallelo

  1. Gli Stati membri provvedono affinché il datore di lavoro non vieti a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori della programmazione del lavoro stabilita con il primo né gli riservi un trattamento sfavorevole sulla base di tale motivo.
  2. Gli Stati membri possono stabilire condizioni per il ricorso a restrizioni di incompatibilità da parte dei datori di lavoro sulla base di motivi oggettivi quali la salute e la sicurezza, la protezione della riservatezza degli affari, l’integrità del servizio pubblico e la prevenzione dei conflitti di interessi.

Notoriamente, la giurisprudenza anche di legittimità sul punto è alquanto restrittiva arrivando ad elaborare un concetto di concorrenzialità potenziale ed ipotetico che comporta il licenziamento.

Ne deriva che l’introduzione di questa nuova disposizione di legge potrebbe comportare nuovi indirizzi giurisprudenziali sul punto.

Lavori con tempistiche variabili.

A seguito dei maggiori doveri di informazione che incombono sul datore di lavoro, il decreto legislativo in questione impone un dovere di informazione e predeterminazione, almeno di massima, dei termini temporali della prestazione. Diversamente, stabilisce la norma come il lavoratore possa lecitamente rifiutare la prestazione.

Il datore di lavoro inoltre deve in questi casi, informare il lavoratore dell’ammontare delle ore minime garantite, su base settimanale, stabilite dal contratto collettivo.

Ulteriore normativa impone al datore di lavoro in caso di revoca le prestazioni già fissate e comunicate al lavoratore di riconoscere in ogni caso al lavoratore il pattuito.

E ribadito inoltre il ruolo della formazione, dal momento che essa se prevista dalla legge o dalla contrattazione, deve essere garantita a tutti i lavoratori in maniera gratuita e svolgersi durante l’orario di lavoro.

Fabio Petracci

Lvoro precario

In vigore il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 83/2022)

1. Premessa; 2. Procedure di insolvenza e PNRR; 3. Struttura del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza mediante l’approfondimento del decreto legislativo n. 83/2022.

  1. PREMESSA

Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), ovvero il D.lgs. n.14/2019, è entrato in vigore il 15 luglio 2022 mediante il D.Lgs. n. 83/2022, recante “modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.

Il governo italiano, sempre mediante il decreto legislativo sopracitato, ha inserito all’interno del CCII le disposizioni del D.L. 118/2021 in materia di composizione negoziata della crisi e ha dato attuazione alla direttiva (UE) 2019/1023 (Direttiva Insolvency) del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 – riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione – e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza).

La modifica più rilevante riguarda gli “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili”, i quali acquistano un ruolo più significativo rispetto al passato. Inoltre, la composizione negoziata sostituisce definitivamente l’OCRI (organismi di composizione della crisi d’impresa).  Ancora, tra gli obblighi dei creditori qualificati, viene aggiornata la “transazione fiscale”. Rientra tra le novità più importanti l’accantonamento del sistema di allerta, il quale era previsto nella stesura originaria del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. n. 14/2019).

  1. PROCEDURE DI INSOLVENZA E PNRR

La crisi dovuta all’emergenza pandemica ha provocato lo slittamento di quasi due anni dalla data originariamente prevista (15 agosto 2020) per l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Dall’altra parte però, tale ritardo ha consentito di allineare il CCII alle modifiche introdotte in sede di attuazione della sopraccitata Direttiva comunitaria del 2019.

Tra gli obiettivi prioritari del PNRR (il piano nazionale di ripresa e resilienza) vi sono gli interventi di modifica al Codice dell’insolvenza di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

“In merito, negli allegati al PNRR il Governo prevede di apportare modifiche al c.d. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza:

  • Attuando la direttiva UE n. 1023/2019, relativa alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione;
  • Rivedendo gli accordi di risoluzione extragiudiziale al fine di incentivare le parti a farne un maggior uso; potenziando i meccanismi di allerta;
  • Specializzando gli uffici giudiziari e le autorità amministrative competenti per le procedure concorsuali;
  • Implementando la digitalizzazione delle procedure anche attraverso la creazione di una apposita piattaforma online.

Il Piano prevede che la riforma possa essere attuata entro il quarto trimestre 2022”.

  1. STRUTTURA DEL CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA MEDIANTE L’APPROFONDIMENTO DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 83/2022

Come ben esplicitato dal dossier di documentazione della Camera dei deputati – Servizi Studi, di cui si riporta qui di seguito, “il decreto legislativo n. 83 del 2022, che è stato emanato dopo aver acquisito i pareri favorevoli delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato sullo schema di decreto A.G. 374, si compone di due capi.

Il Capo I (articoli da 1 a 45) provvede ad attuare la Direttiva n. 2019/1023 attraverso modifiche al Codice della crisi e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

Alcune modifiche sono di coordinamento, in quanto conseguono a soppressioni, modifiche o introduzione di alcuni istituti del Codice, come la soppressione degli organismi di composizione della crisi di impresa (OCRI) e l’introduzione dei quadri di ristrutturazione preventiva.

Numerose sono le modifiche di carattere sostanziale.

Gli articoli da 1 a 5 del decreto legislativo n. 83 del 2022 apportano alcune modificazioni alle disposizioni generali, di cui al Titolo I del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in particolare:

  • La definizione di quadri di ristrutturazione preventiva, intesi come strumenti finalizzati a permettere la ristrutturazione in una fase precoce, prevenire l’insolvenza ed evitare la liquidazione;
  • La necessità che l’imprenditore predisponga un assetto organizzativo, amministrativo e contabile idoneo a rilevare tempestivamente e ad affrontare lo stato di crisi, con l’indicazione dei segnali d’allarme che vanno considerati indice di una possibile crisi;
  • La procedura di informazione e consultazione dei sindacati nell’ambito di un quadro di ristrutturazione preventiva;
  • La creazione di un’apposita sezione dedicata alla crisi d’impresa sui siti internet dei Ministeri della giustizia e dello sviluppo economico per favorire l’accesso degli utenti, in particolare debitori, rappresentanti dei lavoratori e PMI, alle informazioni su strumenti e procedure per la soluzione delle crisi.

L’articolo 6 sostituisce integralmente il Titolo II, originariamente dedicato alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, per inserirvi le disposizioni già in vigore a seguito degli interventi d’urgenza operati nel corso del 2021 (i già citati d.l. n. 118/2021 e d.l. n. 152/2021) per la realizzazione degli obiettivi del PNRR.

Il nuovo Titolo II disciplina l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, il cui obiettivo è superare la situazione di squilibrio dell’impresa prima che si arrivi all’insolvenza. Viene quindi disciplinata una procedura stragiudiziale, da attivare presso la Camera di commercio, che prevede il coinvolgimento di un esperto che affianca l’imprenditore commerciale (o agricolo), a garanzia dei creditori e delle altre parti interessate. L’esperto, nominato da una apposita commissione, è una figura professionale (si tratta prevalentemente di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro) dotata di precedenti esperienze nel campo della soluzione di crisi d’impresa, incaricata di valutare le ipotesi di risanamento, individuare entro 180 giorni una soluzione adeguata e redigere, al termine dell’incarico, una relazione che verrà inserita nella piattaforma unica nazionale e comunicata all’imprenditore. Nel corso della procedura è prevista l’applicazione di agevolazioni fiscali e di misure protettive a favore dell’imprenditore per limitare le possibilità di azione nei suoi confronti da parte dei creditori e precludere il pronunciamento di sentenze di fallimento o di stato di insolvenza.

Una specifica disciplina è inoltre dettata per l’applicazione del nuovo istituto ai gruppi di imprese e alle imprese di minori dimensioni.

Gli articoli da 7 a 13 intervengono sul Titolo III al fine di recepire la direttiva con riferimento al procedimento unitario per l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva. In particolare, vengono regolati i rapporti tra procedure pendenti nei confronti del medesimo debitore e domande di accesso ai diversi strumenti di composizione della crisi.

Altri interventi di recepimento della direttiva riguardano:

  • La disciplina dell’apertura del concordato preventivo, con particolare riferimento al giudizio di ammissibilità del tribunale, che viene differenziato a seconda che si tratti di concordato liquidatorio o di concordato in continuità aziendale, e ponendo limiti più stringenti nel primo caso;
  • La semplificazione delle procedure di verifica giudiziale che portano alla sentenza di omologazione del concordato e alla sentenza di omologazione degli accordi di ristrutturazione;
  • Gli effetti della revoca dell’omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, prevedendosi che in caso di accoglimento del reclamo proposto avverso la sentenza di omologazione la corte d’appello possa confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante;
  • La concessione di misure cautelari e protettive, che possono essere richieste anche nel corso delle trattative e prima del deposito della domanda di omologazione ma dalle quali sono sempre esclusi i diritti di credito dei lavoratori; vengono inoltre dettate norme in ordine alla durata, alla proroga o alla revoca delle misure stesse.

Gli articoli da 19 a 25 del decreto legislativo modificano il Titolo IV del Codice, in materia di strumenti di regolazione della crisi. Le principali disposizioni a carattere innovativo sono volte a:

  • Predisporre un nuovo strumento (piano di ristrutturazione soggetto a omologazione) per il debitore che si trovi in stato di crisi o di insolvenza, prevedendo che lo stesso debitore possa prevedere il soddisfacimento dei creditori, previa suddivisione in classi degli stessi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei;
  • Prevedere sia la possibilità di conversione del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione in concordato preventivo, che l’ipotesi inversa;
  • Adeguare alle disposizioni della Direttiva la disciplina del concordato preventivo, sia in continuità aziendale – attraverso la gestione diretta dell’imprenditore o indiretta, secondo quanto previsto dal piano di ristrutturazione, nell’interesse dei creditori e a tutela dei lavoratori – sia di liquidazione – conformando la relativa procedura ai principi di efficienza, pubblicità, trasparenza e celerità;
  • Sancire il principio generale della facoltatività della suddivisione in classi;
    modificare la disciplina della moratoria dei creditori privilegiati nel concordato in continuità aziendale, al fine di limitare a 6 mesi la possibilità di dilazionare il pagamento dei crediti di lavoro;
  • Prevedere, in caso di concordato in continuità, l’omologazione anche in assenza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie;
  • Disciplinare i rapporti esistenti tra i creditori ed il debitore nei contratti pendenti e in corso di esecuzione durante le trattative del concordato in continuità aziendale;
  • Inserire nella disciplina sulla convocazione dei creditori anche il piano di concordato tra i documenti da comunicare ai creditori prima delle operazioni di voto;
  • Introdurre specifiche disposizioni sul concordato in continuità aziendale, con le quali si dispone che quest’ultimo sia approvato se tutte le classi votano a favore;
  • Precisare il contenuto delle verifiche compiute dal tribunale nell’ambito del giudizio di omologazione, nonché le regole dell’omologazione tramite ristrutturazione trasversale e le regole del giudizio di convenienza;
  • Stabilire il termine di dodici mesi dalla presentazione della domanda per la conclusione del giudizio di omologazione;
  • Estendere al commissario giudiziale e al liquidatore giudiziale, analogamente a quanto disposto per il curatore, la possibilità di revoca e sostituzione;
  • Sospendere il diritto di recesso dei soci fino all’attuazione del piano nel caso in cui il piano preveda il compimento di operazioni di trasformazione, fusione e scissione;
  • Introdurre nel Codice una nuova Sezione VI-bis contenente disposizioni specifiche sui quadri di ristrutturazione preventiva da parte delle società, recependo i principi di cui all’articolo 12 della Direttiva, al fine di favorire la continuità delle attività aziendali.

Gli articoli da 26 a 34 apportano limitate modifiche nel Titolo V relativo alla liquidazione giudiziale, riguardanti:

  • La possibilità per ciascun creditore di chiedere la sostituzione del curatore e la liberazione del debitore da qualsivoglia causa di ineleggibilità o decadenza a seguito di esdebitazione;
  • L’efficientamento delle procedure di insolvenza e la riduzione della loro durata;
  • La liquidazione controllata del debitore sovraindebitato solo a fronte di debiti scaduti pari ad almeno 50 mila euro.

Gli articoli 35 e 36 intervengono sulle disposizioni relative ai gruppi di imprese, di cui al Titolo VI, allo scopo di rafforzare la già prevista prevalenza della continuità aziendale sulla liquidazione dell’impresa, purché risulti che in tal modo venga maggiormente soddisfatto l’interesse dei creditori. Quando sia accertata tale circostanza, è infatti prevista la limitazione per i creditori dissenzienti della possibilità di opporsi e si dispone che il piano venga omologa dal tribunale. Acquistano inoltre rilievo nella procedura i vantaggi compensativi che derivano alle singole imprese dalla presentazione di un piano unico per l’intero gruppo di imprese.

Le modifiche recate dagli articoli 37 e 38 al Titolo VII, in materia di liquidazione coatta amministrativa, riguardano in particolare:

  • la figura del commissario liquidatore, che viene maggiormente uniformata a quella del curatore, sia sotto il profilo professionale, sia avendo riguardo al procedimento da osservare per una sua eventuale revoca;
  • l’eliminazione dei creditori pubblici qualificati dai soggetti che devono riferire all’autorità di vigilanza circa l’esistenza di segnali di allarme.

Gli articoli 39 e 40 e gli articoli da 41 a 44 apportano modifiche di coordinamento, rispettivamente, al Titolo IX (disposizioni penali) e al Titolo X (disposizioni di attuazione), motivate dall’esigenza di correggere i riferimenti alle procedure di allerta di cui al Titolo II, che è stato integralmente riscritto dal decreto in esame. In particolare, viene eliminato il reato di falso nelle attestazioni dei componenti dell’OCRI, organismo soppresso a seguito della suddetta riscrittura.

Infine, il Capo II dello schema di decreto legislativo (articoli da 46 a 51) con finalità di coordinamento:

  • abroga alcune disposizioni contenute nei decreti – legge n. 118 e n. 152 del 2021, in conseguenza dell’inserimento nel corpo del Codice delle corrispondenti norme;
  • abroga parzialmente il decreto legislativo n. 147 del 2020, correttivo del Codice, le cui modifiche, che non sono mai entrate in vigore, risultano ora superate dall’attuazione della direttiva e dall’intervento in commento;
  • coordina il contenuto del decreto legislativo n. 270 del 1999, relativo all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, operando un aggiornamento dei richiami normativi interni;
  • prevede l’entrata in vigore del decreto legislativo il giorno dell’entrata in vigore del Codice ossia il 15 luglio 2022;
  • afferma l’invarianza finanziaria del provvedimento, con l’unica eccezione dei costi connessi all’istituzione della piattaforma telematica nazionale per la composizione negoziata della crisi d’impresa, peraltro già coperti in base alla normativa vigente”.

A cura della Sig.na Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
Centro Studi Corrado Rossitto di CIU UNIONQUADRI

SENTENZA CASSAZIONE – La prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i rapporti non dotati di stabilità reale.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione allunga i termini di prescrizione anche nelle grandi aziende che superano il numero di dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18 legge 300/70.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 6.9.2022 n.26246 in riforma a sentenza della Corte d’Appello di Brescia ha statuito come dopo le riforme che hanno reso solo eventuale il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente anche nelle aziende che superano le dimensioni previste dall’articolo 18 legge 300/70, abbiano comportato l’estensione a queste ultime del regime di decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ai crediti retributivi di lavoro si applica la prescrizione quinquennale siccome disposto dagli articoli 2948 n.4, 2955 n.2, 2956 n.1, del codice civile.

Nel 1966, la Corte Costituzionale( Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63),  dichiarava l’illegittimità di questi articoli nella parte in cui prevedevano il decorrere della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.

La Corte anche tenendo in considerazione il principio di irrinunciabilità della retribuzione in forza dell’articolo 36 della Costituzione e del fondato dubbio che il lavoratore fosse spinto a non agire contro il proprio datore di lavoro neppure inviando una lettera per l’interruzione della prescrizione, ebbe a ritenere la permanenza del rapporto di lavoro come ragione ostativa al decorrere della prescrizione.

Allorquando entrò in vigore lo statuto dei lavoratori , legge 300/70 che all’articolo 18 garantiva la reintegra nel caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di maggiori dimensioni, venne in parte meno questa ragione.

In tal modo, la permanenza del rapporto permaneva come ragione ostativa al decorrere della prescrizione soltanto per i rapporti che l’articolo 18 della legge 300/70 escludeva dalla reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. (Corte Costituzionale n. 174/1972).

Con l’entrata in vigore della legge n.92/2012 (legge Fornero) e del DLGS 23/2015 (Jobs Act) la stabilità reale del rapporto di lavoro con la conseguente reintegra in caso di licenziamento illegittimo divenne l’eccezione e non la regola.

Tornavano quindi attuali i dubbi sollevati dalla Corte Costituzionale nel 1966 che i lavoratori in assenza di una tutela reale, potessero essere indotti a non interrompere la prescrizione.

La sentenza oggi in esame ritiene come la mutata situazione renda attuale la situazione paventata a suo tempo dalla Corte Costituzionale e ritiene quindi che la prescrizione dei crediti di lavoro debba sempre decorrere dalla cessazione del rapporto.

Resta fermo come nei rapporti dotati di stabilità reale, come nel caso del pubblico impiego, la prescrizione continui a decorrere anche in costanza di rapporto.

Fabio Petracci

Di seguito, la motivazione della cennata decisione della Corte di Cassazione:

Motivi della decisione

  1. Con unico motivo, le ricorrenti deducono violazione degli artt. 29352948c.c., n. 4 L. n. 300 del 1970art. 18art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione del L. n. 300 del 1970 art. 18, con le riforme della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro: tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo. Esse stimano pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della L. n. 604 del 1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.

In via subordinata, le lavoratrici prospettano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate al L. n. 300 del 1970 art. 18, dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42 e dagli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 23 e 4.

  1. Esso è fondato.
  2. La questione devoluta, per la prima volta, a questa Corte è scolpita nella formulazione, in via subordinata, del quesito relativo al dubbio di incostituzionalità, in ordine alla permanenza (tuttora) della garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dal L. n. 300 del 1970art. 18, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1comma 42 della L. n. 92 del 2012 e dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. n. 143 del 1969n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), consenta il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.

Ed è questione che, senza accedere alla Corte costituzionale, ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla L. n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.

Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.

  1. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
  2. a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’ 36Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nel”la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto… per timore del licenziamento; cosicchè la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub p.to 3 del Considerato in diritto);
  3. b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte Cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1);
  4. c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi”: e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi n. 604 del 15 luglio 1966,  n. 300 del 20 maggio 1970, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).

4.1. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della L. n. 300 del 20 maggio 1970, (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dal L. n. 604 del 15 luglio 1966art. 8), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).

  1. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.

5.1. E’ risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.

Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dal L. n. 300 del 1970 art. 18, comma ottavo e 9, nel testo novellato dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, lett. b) e pure richiamato dall’art. 1, comma 3 D.Lgs. n. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara predeterminata e di semplice identificazione.

Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.

In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perchè i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.

Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, comma 1 Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.

Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, comma 1 Cost.:

ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione nè, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, p.to 4.2.).

  1. Ora, perchè del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
  2. a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli  29412942c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575Cass. 5 agosto 2019, n. 20918Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
  3. b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post ( s.u. 28 marzo 2012, n. 4942Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).

Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.

  1. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo del L. n. 300 del 1970art. 18, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore p.to 4).

7.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dal L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42, e poi dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, al L. n. 300 del 1970 art. 18 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’ applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2).

Sicchè, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al p.to 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 10.).

7.2. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 3 e 4, abbia ormai un carattere recessivo.

Nè tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59).

Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

7.3. Neppure si traggono argomenti significati ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.3).

Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1 (sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. 78 del 2018 art. 3, comma 1, conv. con mod. nella 1. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato… suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.

Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)’, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore… nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 9.2).

Sicchè, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

  1. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).

Ebbene, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

  1. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

  1. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicchè, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

P.Q.M.

La Corte:
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2022

Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

VIDEO del Seminario “Salario minimo garantito”

Video descrittivo dell’evento tenutosi a Milano il 14 luglio 2022 sul tema del Salario Minimo Garantito. Legge e contrattazione collettiva.

VIDEO – Contratto: Procedimento disciplinare nella scuola dopo la legge Madia

Video-intervista sul tema del Procedimento disciplinare nella scuola dopo la legge Madia, tema del seminario di formazione per RSU-Tas e Dirigenti sindacali tenutosi a Napoli il 29 gennaio 2022.

VIDEO – Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego (meritocrazia e professionalità)

Video del convegno “Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego (meritocrazia e professionalità)” tenutosi il 10 mar 2022.

La Legge n.46/2022 e il riconoscimento delle Forza Armate a riunirsi in associazione e sindacati

Con la recente Legge n.46/2022, lo Stato italiano ha definitivamente sancito il diritto di riunirsi in associazioni professionali di carattere sindacale del personale delle forze armate e delle forze di polizia a ordinamento militare.

La menzionata legge è la naturale conseguenza dell’importante pronuncia delle Corte Costituzionale n.120 dell’11.04.2018 che ha statuito la parziale illegittimità costituzionale dell’art.1475, comma 2, del codice dell’ordinamento militare (D.lgs. n.66/2010).

La vicenda nasceva – in sede di giustizia amministrativa – dal contrasto tra la norma interna (appunto l’art.1475, comma 2, dell’ordinamento militare, secondo cui “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”) e la norma di rango sovranazionale, da rinvenirsi in primis nell’art.11 (rubricato <libertà di riunione e di associazione>) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Pare necessario allora soffermarsi sulla ratio dell’impedimento imposto dalla norma nazionale ed oggetto del sindacato di costituzionalità della Corte.

Sostanzialmente, viene posto il problema della ratio individualistica del diritto all’associazionismo con il <sacro dovere> di difesa della Patria e delle Istituzioni, che involgerebbe complessivamente – senza ammettere eccezione alcuna – il corpo delle Forze Armate.

Ebbene, la Corte risolve l’indicato contrasto riconoscendo che la normativa europea non contempla limiti di categorie a cui essere applicata, ma al contempo – data la specificità della categoria interessata – debba essere disciplinata da una normativa ad hoc.

La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.1475, comma 2, del D.lgs. n.66/2010, in quanto prevede che “I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali” invece di prevedere che “I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali”.

Tale ultimo inciso ha la finalità di garantire l’unione della categoria, evitando il sorgere di contrapposizioni interne.

Ecco quindi spiegata la necessità di una disciplina legislativa specifica.

Sinteticamente, i tratti salienti della legge che ne è conseguita (la n.46/2022) possono così riassumersi.

I primi articoli (dall’art.1 all’art.4) delineano la natura, i principi costitutivi, nonché il dovuto iter di riconoscimento che dovrà essere attuato dal Ministero.

Norma che implicitamente comporta una sorta di sospensione della legittimità delle associazioni già presenti nel settore, che dovranno attendere l’eventuale riconoscimento ministeriale.

Nei successivi articoli (fino all’art.8 compreso) vengono indicati i principi e le disposizioni che devono regolare gli statuti, nonché gli aspetti finanziari e di bilancio.

Infine, cuore del provvedimento legislativo è dato dalla normativa concernente la rappresentatività e l’attribuzione dei poteri negoziali per esperire la contrattazione nazionale di comparto.

Al contempo, però, pur ribadendo che tale legge sana il contrasto e la parziale illegittimità rilevata dalla Corte Costituzionale, non ci si può esimere dal rilevarne alcune carenze, prima tra tutte il divieto di far parte dei sindacati per gli appartenenti delle Forze Armate in congedo.

avv. Alessandro Capuano

Il futuro della filiera delle telecomunicazioni: preoccupazione per le alte professionalità

Tutto pronto per lo spezzatino Telecom, in passato gioiello dell’industria nazionale e oggi a rischio scomparsa. E con esso migliaia di posti di lavoro, soprattutto per tutte le professionalità over 50 e altamente specializzate, categoria che pagherà lo scotto maggiore della riorganizzazione della filiera delle telecomunicazioni nazionali.

A lanciare il preoccupato allarme è la CIU-Unionquadri il sindacato maggiormente rappresentativo della categoria dei Quadri, presente al CNEL e al Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) che, attraverso la Presidente nazionale Gabriella Àncora, esprime tutta l’inquietudine di un intero settore: “Le cifre degli esuberi che il nuovo disegno industriale di Telecom determinerà non sono ancora chiare, si va dalle previsioni più ottimistiche di 5 mila fuoriuscite a quelle più drammatiche di 9 mila. Per quanto i tagli possano essere gestiti con gli strumenti offerti dalla Legge Fornero, temiamo che non sarà possibile salvaguardare l’intera platea in termini di valore umano. Infatti, quello che più ci preoccupa” ha continuato la Presidente “è che la maggiore base esodabile è costituita da figure specializzate, Quadri e alte professionalità over 50 che, una volta estromessi dall’azienda, la depauperanno di conoscenze e abilità”.

Il progetto del riassetto del gruppo TIM-Telecom, presentato recentemente dall’AD Pietro Labriola, prevede la creazione di due realtà societarie, la prima (NetCo) che includerà la rete fissa, le attività wholesale domestiche e quelle internazionali, e la seconda (ServiceCo) che includerà le attività commerciali fisso e mobile, insieme a tutte le attività commerciali dedicate alla clientela business e alle numerose aziende del gruppo tra le quali TIM Brasil, Noovle, Olivetti e Telsy. La newco dedicata alla rete dovrebbe assorbire circa 20 mila dipendenti e gran parte del debito.

Le numerose fuoriuscite, in tale disegno, lascerebbero il posto ad un innesto di nuove figure, giovani e professionalizzati, consentendo così di abbassare l’eta media della società, oggi ferma a 54 anni. “Pur apprezzando il ricambio generazionale che il Piano propone, non possiamo non sottolineare come l’accompagnamento verso l’uscita delle Alte professionalità oggi impiegate in Telecom costituisce un impoverimento per tutti, del business da una parte e dei neoassunti dall’altra, non potendo questi contare sul bagaglio di esperienza e conoscenza acquisita negli anni dai Quadri”.

Nel gruppo TIM-Telecom Italia, secondo le cifre fornite da CIU-Unionquadri, a fine 2020 si contavano circa 52 mila dipendenti (tra Italia ed estero), e di questi il 29% è costituito proprio da Quadri e alte professionalità.. “È indubbio che se la politica degli esuberi dovesse proseguire nel modo prospettato, circa un terzo dei dipendenti Telecom sarà escluso dai processi attivi di ristrutturazione industriale di una filiera produttiva fondamentale per l’economia del Paese, ovvero quella dell’innovazione e dell’ICT. Da qui l’appello di CIU-Unionquadri a riflettere sull’importanza del capitale umano ed a come salvaguardare un bagaglio di preparazione, consapevolezze ed opportunità, da considerare non come un costo industriale ma come un investimento sul futuro di un mondo che cambia” ha concluso Àncora.