Articolo 18 ed ipotesi di reintegra. Gli ultimi interventi della Consulta e della Suprema Corte.

L’articolo 18 quarto comma della legge 300/70 riconosce il diritto alla reintegra del lavoratore licenziato nel caso di insussistenza del fatto contestato.
Ciò avviene nel caso in cui non sussista proporzionalità alcuna tra la sanzione ed il fatto contestato, sia allorquando la contrattazione collettiva preveda per il caso contestato l’applicazione di una sanzione conservativa.
Interessante sul punto, Cassazione Sezione Lavoro 15 dicembre 2020 n.28630 in Il Lavoro nella giurisprudenza n.10, 1 ottobre 2021,p.943 con nota di Francesca Nardelli.
Come notato dall’autrice, la Corte di Cassazione con una pronuncia quanto mai sintetica affronta il tema della rilevanza da attribuire al fatto contestato ai fini del licenziamento disciplinare, nonché sulla valutazione giudiziale delle tipizzazioni contrattuali, nel caso in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento per irrilevanza disciplinare della condotta ed il CCNL preveda per la fattispecie contestata una mera sanzione conservativa.
Nel caso in commento, la Corte di Cassazione confermava l’illegittimità del licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegra sul presupposto in base al quale la fattispecie contestata in base al CCNL era risultata suscettibile della sola sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione, nella valutazione del fatto addebitato al lavoratore, ha aderito invece all’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui “l’insussistenza del fatto materiale va intesa come fatto disciplinarmente rilevante consistente in un comportamento astrattamente inadempiente corrispondente a quello considerato nella disposizione del codice disciplinare su cui di fonda la contestazione disciplinare elevata”.
Prevale in questo caso, l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza circa l’esatta portata da attribuire dopo le recenti riforme (Fornero e Jobs Act) all’espressione “insussistenza del fatto” ai fini della reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.
In un primo momento, la tutela consistente nella reintegra era limitata al solo caso dell’insussistenza sul piano materiale dell’addebito contestato.
Quindi il giudice avrebbe dovuto esclusivamente accertare sul piano fenomenologico l’esistenza del fatto contestato.
In questo orientamento alcuni dei principali autori (Persiani, Maresca, Vallebona).
Di seguito la giurisprudenza di legittimità ha fornito un diverso indirizzo chiarendo come l’insussistenza del fatto contestato comprenda anche le ipotesi della sussistenza materiale dello stesso priva però di valenza disciplinare (Cassazione n.20540/2015).
Di seguito, il legislatore mediante l’articolo 3 del DLGS 23/2015 aggiungeva alla parola “fatto contestato” il termine “materiale”.
Interveniva di seguito la pronuncia n.12174 del 2019 della Cassazione che ribadiva le conclusioni già prima assunte conferendo all’espressione insussistenza materiale del fatto contestato il significato di fatto non avente rilievo disciplinare ai fini del recesso.
Va notato inoltre che di recente la Corte Costituzionale con sentenza 1.4.2021 n.59 ha ritenuto confliggere con diverse disposizioni costituzionali e comunitarie il settimo comma dell’articolo 18 legge 300/70 nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo possa e non debba disporre la reintegrazione del lavoratore.
Fabio Petracci

CONVEGNO – Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato.

Pubblichiamo il video Youtube del convegno “Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato” organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e tenutosi in diretta streaming il 25 maggio 2021.

La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna sull’·articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza […]

Interpretazione autentica dell’articolo 38 del DLGS 81/2015. Licenziamento e somministrazione illecita di manodopera.

Il licenziamento intimato dal somministrante è privo di effetto provenendo da chi non è reale datore di lavoro.

A chiarimento di fondati dubbi di dottrina e giurisprudenza interviene il DL 19.5.2020 e successiva legge di conversione n.77/2020 che stabilisce l’interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento.

Per comprenderne la portata giova la ricostruzione della normativa che pareva aver introdotto un duplice licenziamento ( o meglio con duplice imputazione)  per il lavoratore che aveva avuto la ventura (meglio sventura) di lavorare nell’ambito di una illecita somministrazione di manodopera.

  1. La questione.

In tema di somministrazione irregolare, il reale utilizzatore quasi mai, per evidenti motivi, provvede al licenziamento del lavoratore che viene invece effettuato dal datore di lavoro apparente.

Per costante indirizzo giurisprudenziale, non era riconosciuto al datore di lavoro apparente il potere di licenziare e quindi, il recesso da questi intimato doveva considerarsi come mai avvenuto e pertanto, il rapporto di lavoro era destinato a proseguire con l’utilizzatore il quale avrebbe dovuto così direttamente assumersi l’onere del licenziamento.

Tra il 2011 ed il 2015 tra collegato lavoro e jobs act, sono state emanate diverse norme atte ad evitare che delle tardive le azioni per il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo ad un determinato soggetto potessero avere per l’impresa, dato il passare del tempo ed il pieno e la decorrenza del diritto, effetti devastanti sui soggetti datori di lavoro che subivano l’azione.

L’articolo 32 della legge 4.11.2010 n.183 (collegato lavoro) estende così i termini di decadenza per l’impugnazione del licenziamento (60 giorni per l’impugnazione e da questi 180 giorni per l’avvio del contenzioso) a tutti i casi dove il ricorrente chieda la costituzione di un rapporto di lavoro diverso dal formale titolare, ivi compresa l’ipotesi di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003.

Dunque nel caso di somministrazione irregolare, il lavoratore che avesse voluto ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro intercorrente con l’utilizzatore avrebbe dovuto agire a pena di decadenza entro i predetti termini.

Ponendosi l’interrogativa da quando far decorrere il termine di decadenza, appare ragionevole ritenere che esso coincida con la cessazione del rapporto oggetto della somministrazione.

A questo punto però la questione si complica alquanto.

  • L’interpretazione dell’articolo 27 del DLGS  276/2003 e del successivo articolo 38 del DLGS 81/2015.

L’articolo 27 del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno, stabiliva  al comma 2 che nel caso di riconoscimento del rapporto di lavoro in capo al reale utilizzatore, tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino alla  concorrenza della somma effettivamente pagata e che inoltre tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, dovevano intendersi  come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.

La norma quindi imputa ad entrambi i soggetti somministrante illegittimo e destinatario della somministrazione ogni atto inerente il rapporto di lavoro del somministrato irregolare.

Non vi era espressa menzione del licenziamento che si sarebbe potuto intendere anche alla stregua di uno degli atti concernenti la gestione del rapporto.

La norma appena esaminata era abrogata dal DLGS 81/2015 che all’articolo 38 così dispone:

1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.

2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione.

3. Nelle ipotesi di cui al comma 2 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. (71)

4. La disposizione di cui al comma 2 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

Rimaneva quindi ferma la previsione o meglio interpretazione che vuole imputabili ad entrambi i soggetti somministrante e somministrato l’imputazione degli atti di gestione del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza della Suprema Corte avvallava una simile interpretazione (Cassazione 13.9.2016 n.17969).

Affermava la Suprema Corte che l’articolo 27 del DLGS 276/2003 disponendo, in maniera espressa ed inequivoca che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto, si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”, sancisce che l’utilizzatore subentra nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore.

Doveva , pertanto, ritenersi, statuiva la motivazione della sentenza, che, vi fosse , un’ unica matrice, per quel che riguarda la tipologia di lavoro, che viene ricondotto all’utilizzatore negli stessi termini in cui era stato voluto (costituito) e poi gestito dal somministratore,  per quanto riguarda tutti  gli atti di gestione del rapporto che producono quindi, per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento.

Ne conseguiva, secondo la Cassazione, che il licenziamento anche se intimato, come nella fattispecie in esame, dal somministratore avrebbe dovuto essere impugnato nei sessanta giorni successivi alla sua comunicazione, pena la ordinaria decadenza dell’azione di annullamento anche rispetto all’utilizzatore, non potendo ormai trovare applicazione i principi affermati da questa Corte con riguardo alla L. n. 1369 del 1960.

A conclusioni analoghe perveniva successivamente Cassazione n.6668 del 7.3.2019, la quale però aderiva alla tesi già formulata in precedenza dalla Corte in nome della funzione di nomofilachia della Corte medesima e non avendo la parte interessata formulato diverse ragioni a contestare detto orientamento.

Dunque conseguenza di questa previsione e della sua interpretazione, era il fatto che allorquando il fittizio datore di lavoro (somministrante illegittimo) licenziava il somministrato, il licenziamento avrebbe dovuto intendersi anche come proveniente dall’utilizzatore.

In realtà, molto tempo prima, ma già nella vigenza dell’articolo 27 DLGS 276/2003, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sentenza n.22910 del 26.10.2016) avevano diversamente ritenuto  come la normativa di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003 si presentasse come eccezione alla regola generale che imputa il rapporto di lavoro a chi effettivamente instaura il contratto, e come a tale  eccezione non poteva aggiungersi l’ipotesi non prevista del licenziamento e dei suoi effetti da imputarsi ad entrambi i soggetti imprenditore illegittimamente somministrante ed utilizzatore della prestazione.

  • Altre considerazioni d’ordine costituzionale e comunitario.

Oltre a quest’ultima autorevole giurisprudenza, militano a favore di queste ultime conclusioni altre considerazioni anche di ordine costituzionale e comunitario.

L’interpretazione che vuole come tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione e la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, verrebbe ad imporre, come abbiamo visto, l’impugnazione nei confronti di quest’ultimo, del licenziamento in sede stragiudiziale e giudiziale entro limiti temporali a pena di decadenza e nell’ambito della motivazione adotta dal datore di lavoro fittizio (illecito somministratore).

Su tale base, si finirebbe per pretendere che il dipendente illecitamente somministrato debba impugnare un licenziamento intimato da chi (irregolare somministrante) non è realmente il suo datore di lavoro e quindi, sulla base di una motivazione inerente un rapporto di lavoro che non lo riguarda, o ancor meglio non esiste e comunque proviene da un soggetto terzo (somministratore).

Infatti, il somministratore che non è datore di lavoro non ha il potere di licenziare né comunque può giustificare il licenziamento con fatti che riguardano alla fine un soggetto estraneo al rapporto. Il potere, in questo caso, gli viene attribuito sulla base di una “fictio” di natura legale e quindi nella stessa logica si imporrebbe una motivazione fittizia ed un onere di impugnare la stessa in merito alla quale è lecito nutrire dei dubbi.

La legge finirebbe così per creare un potere che non esiste e che non rispecchia una situazione reale, giungendo a simulare una situazione che come giusta causa o giustificato motivo potrebbe rendere legittimo il licenziamento.

Di fronte ad un tanto, non rimane che ribadire come il soggetto licenziato in questo caso non possa essere toccato da fatti giuridici limitati alla sfera di un soggetto estraneo al rapporto di lavoro.

La questione si pone in maniera ancor più evidente e reale di fronte a quello che, come la motivazione, è, nel nostro ordinamento, e non solo, il primo requisito di legittimità del recesso.

La motivazione del licenziamento deve assolutamente essere reale e pertinente al contesto lavorativo, altrimenti non è una vera motivazione.

La motivazione è un elemento fondamentale del licenziamento e la sua violazione involge anche aspetti di costituzionalità e di coerenza con la normativa comunitaria.

La legge a questo punto non può automaticamente trasferire ad un soggetto terzo le ragioni esplicitate da altri per giustificare il recesso.

Appare irragionevole sostenere l’esistenza di una proprietà transitiva delle motivazioni e del potere di licenziare.

La legge potrebbe semmai imputare formalmente la provenienza dell’atto ad altro soggetto per quanto riguarda i termini e l’interruzione del rapporto, ma non potrà mai trasporre le ragioni da un soggetto all’altro.

La motivazione deve essere reale ed imputabile fattualmente al reale titolare   del rapporto.

Dunque, una lettura costituzionalmente orientata porta a ritenere vero atto di licenziamento solo quello proveniente dal soggetto che ha utilizzato la prestazione.

Una diversa lettura del secondo comma dell’articolo 27 DLGS 276/2003 e successivamente dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 finirebbe per collidere con l’articolo 3 della costituzione in quanto espone il soggetto somministrato a differenza di altri soggetti destinatari di licenziamento, sarebbe onerato ad impugnare una motivazione che non è in alcun modo rilevabile e contestabile presso il reale datore di lavoro. Tale differenza giustificata sino a quando sia necessario a far decorrere rapidamente e senza incertezza i termini di definizione della causa, non è più razionale e giustificata, allorquando impone ad un soggetto di contestare una situazione fattuale che non esiste.

Sempre in relazione all’articolo 3 della Carta costituzionale, la norma così intesa pare confliggere anche con il principio di ragionevolezza limite costituzionale al potere del legislatore (articolo 3 Costituzione).

La norma in effetti nel voler contemperare il giusto interesse dell’impresa a vedere una definizione in tempi ragionevoli di eventuali controversie per il riconoscimento di un rapporto di lavoro, penalizza in maniera senza dubbio abnorme il lavoratore che si trova a dover impugnare un recesso comunicato da un soggetto in relazione ad una situazione di fatto in essere presso altro soggetto, quando sarebbe stato sufficiente porre dei termini di decadenza per l’impugnazione di un licenziamento che proviene da chi di fatto non è il reale datore di lavoro.

La situazione delineata apre come già accennato, anche altri notevoli interrogativi d’ordine costituzionale e di conformità all’ordinamento comunitario.

Un simile impianto normativo collegato alle recenti modifiche apportate all’articolo 18 legge 300/70 dalla legge 92/2012 e di seguito dal Jobs Act sulle tutele crescenti DLGS 23/2015 che, nel caso di recesso soprattutto motivato come licenziamento economico, o addirittura privo di motivazione, potrebbero comportare la sola tutela risarcitoria, faciliterebbe in maniera irragionevole e abnorme l’utilizzatore della somministrazione illecita, che potrebbe giovarsi di motivazioni apparenti provenienti dall’illecito somministrante.

In pratica, il legislatore lungi dall’introdurre adeguate normative di tutela del posto di lavoro e di contrasto a forme illegittime di intermediazione realizzando così un contemperamento tra i principi costituzionali in tema di protezione del lavoro con quelli a promozione dell’imprenditorialità, si sostituisce al datore di lavoro che versa in una situazione di illecito, ed introduce delle norme atte a favorire un comodo recesso.

La norma così formulata e nella sua interpretazione letterale appare comunque contraria all’ articolo 4 della Carta Costituzionale, in quanto una simile lettura non agevola e favorisce l’accesso al lavoro e la sua conservazione.

Essa peraltro contrasta con l’articolo 24 della Costituzione in quanto finisce per violare il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti, dovendo il lavoratore impugnare e disattendere una motivazione necessariamente generica e fittizia.

Il tema trattato involge pure il diritto comunitario.

E’ vero che non sussiste direttiva comunitaria alcuna in tema di licenziamento, ma pur in assenza di una direttiva sul licenziamento individuale, il diritto europeo incide comunque su alcuni profili delle discipline nazionali, grazie, ad alcuni importanti principi di natura comunitaria in tema di politica sociale.

Ci riferiamo in primo luogo, all’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali UE che stabilisce il principio in base al quale ogni licenziamento deve trovare giustificazione.

Stabilisce l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ( tutela in caso di licenziamento ingiustificato) Che ““Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.”

La tutela, ad avviso di chi scrive, presuppone che il provvedimento provenga anche formalmente da chi ne pone in atto gli effetti e si basi su di una motivazione reale e conoscibile da parte del lavoratore.

Di seguito, si richiama pure l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che aggiunge alla tutela anche i mezzi per attuarla individuando un valido motivo legato alla condotta del lavoratore o al funzionamento dell’impresa datrice di lavoro.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione, rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Di seguito gli articoli 7 e 8 stabiliscono importanti regole procedurali a garanzia del lavoratore che contemplano il ricorso ad una autorità terza, e l’onere della prova della legittimità del licenziamento a carico del datore di lavoro, determinando in linea di massima gli obblighi riparatori.

  • In conclusione.

La norma di interpretazione autentica fa chiarezza su di un punto dove già la giurisprudenza sarebbe potuta intervenire anche in relazione alla autorevole pronuncia delle Sezioni Unite del 26.10.2006 n.22910.

Ora, il licenziamento proveniente dall’illecito somministrante, deve ritenersi “ tamquam non esset”.

Conformemente si è espressa la giurisprudenza di merito – Tribunale di Roma terza Sezione Lavoro Giudice Lionetti 3.2.2021 causa promossa dallo Studio Panici.

Fabio Petracci.

Altro colpo al Jobs Act. Anche gli organi comunitari sfiduciano le tutele crescenti del Jobs Act e la disciplina nazionale in tema di licenziamenti.

E’ la volta del Comitato dei Diritti Sociali del Consiglio di Europa che emette decisioni non giuridicamente vincolanti, ma politicamente rilevanti in merito alle situazioni del lavoro e dei diritti sociali in Europa.

Già a suo tempo, il Comitato Europeo dei Diritti, occupandosi della disciplina dei licenziamenti nel nostro paese rilevava talune incompatibilità a carico del nostro ordinamento. Lo rilevava il sottoscritto nell’opera Italia e Croazia, Ordinamenti a Confronto – Giapichelli, 2016, pagina 186 e seguenti. Le conclusioni del Comitato risalivano al 2003.

Il Comitato si riferiva al periodo di prova notando come lo stesso non fosse correlato alla reale qualificazione dei lavoratori che restano così esposti al licenziamento privo di tutela alcuna. Notava inoltre aspetti critici nel regime di stabilità dei lavoratori domestici, degli sportivi e di quelli in età pensionabile, in quanto nessuna disposizione di legge garantisce loro un congruo periodi di preavviso.

Era quindi oggetto di osservazione il regime di stabilità per i lavoratori esclusi dalla tutela reale a favore di tutela obbligatoria.

Il Comitato europeo dei diritti sociali richiedeva inoltre informazioni in merito al regime della tutela obbligatoria nei rapporti non soggetti a tutela reale.

Eravamo nel 2003 con un regime dei licenziamenti dove vigeva ancora la tutela reale.

Va sfatata peraltro in materia di licenziamenti, La pretesa rigidità dell’ordinamento italiano in confronto con altri ordinamenti.

Va in parte ridimensionato questo concetto, anche se effettivamente sino a poco tempo fa nel nostro ordinamento rispetto ad altri, la reintegra appariva come una regola inderogabile.

Per quanto riguarda alcuni dei paesi europei, notiamo che:

a) la Danimarca

L’ordinamento concernente la risoluzione del rapporto di lavoro si basa su tre punti.

Da un lato, esiste una limitata tutela della stabilità del rapporto, dall’altra è garantito al lavoratore un notevole sostegno al reddito che si fonda su di un fondo assicurativo privato che garantisce il reddito per due anni e quindi su ulteriori due anni di sostegno pubblico.

Il sistema pubblico di sostegno è caratterizzato dall’efficienza dei servizi di collocamento volti alla formazione ed alla ricollocazione professionale del lavoratore. 

b) La Francia

A metà degli anni 2000, la Francia presentava una regolamentazione del mercato del lavoro non dissimile da quella italiana con rigide procedure da percorrere per motivare il licenziamento . Poco dopo, erano addottati due nuove tipologie di lavoro subordinato destinati a particolari soggetti . Questi contratti per due anni erano esclusi dalla regola del licenziamento giustificato. La cosa non ebbe successo, né sortì i risultati sperati. Di li a poco, la magistrature francese ne riconosceva l’incompatbilità con la convenzione OIL e con i principi comunitari.

c) La Germania

La disciplina del licenziamento è improntata ad una certa rigidità, nelle imprese che occupano più di 10 dipendenti, il licenziamento deve essere giustificato da motivi attinenti la persona del lavoratore o ad esigenze stringenti dell’azienda. In quest’ultimo caso, il licenziamento è considerato l’extrema ratio che può essere evitata anche attraverso una fase di formazione del lavoratore che ne consenta il reimpiego. Le procedure di licenziamento sono rigorose e possono passare anche attraverso il controllo del consiglio aziendale. L’insussistenza di giusta causa o giustificato motivo può comportare o la reintegra del lavoratore o il pagamento di un’indennità. Salvo il caso di giusta causa è previsto in caso di licenziamento un preavviso che va da 4 settimane a 7 mesi a seconda dell’anzianità del lavoratore.

La normativa e la giurisprudenza italiana da tempo hanno assunto un orientamento meno restrittivo che è stato poi confermato dal collegato lavoro che ha inibito al giudice il sindacato in merito alle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro (articolo 30 comma 1 L.183/2010).

Quindi con la legge 92/2012, sono state apportate parziali modifiche alla normativa concernente il licenziamento. In particolare è stato modificato in diversi punti l’articolo 18 fornendo spazio all’individuazione del licenziamento discriminatorio o para – discriminatorio, stabilendo casi in cui al licenziamento illegittimo non consegue la reintegra, disciplinando l’ipotesi della revoca del licenziamento.

Con il DLGS 23/2015 detto anche Jobs Act, le tutele del lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore della legge e licenziato erano ulteriormente ridotte, in quanto per i neoassunti era previsto un sistema risarcitorio detto a tutele crescenti con risarcimenti ridotti e collegati in maniera automatica all’anzianità di servizio.

Il sistema così congegnato subiva le censure della Corte Costituzionale che con la sentenza n.194/2018, stabiliva l’illegittimità costituzionale della determinazione del danno in maniera automatica collegata all’anzianità di servizio.

La pronuncia di incostituzionalità era limitata dai termini dell’ordinanza che l’aveva provocata, ma lasciava trasparire talune debolezze della normativa in tema di licenziamenti.

Di recente, il Comitato dei Diritti Sociali Europeo ha emesso una decisione dove si ritiene che l’Italia con il Jobs Act che ha ulteriormente ridotto le tutele del lavoratore in caso di licenziamento, sia mancata all’obbligo di rispettare l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che stabilisce il diritto per ogni lavoratore ingiustamente licenziato di ricevere una tutela effettiva e realmente dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.

La decisione è stata pubblicata in data 11 febbraio 2020.

Il ricorso proposto dal Sindacato CGIL ritiene che l’Italia abbia violato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che prevede in caso di risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro, il diritto del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo di ottenere in sede giudiziale un risarcimento adeguato rispetto al danno subito tale da assumere carattere dissuasivo per il datore di lavoro.

Lamentava il ricorso del sindacato che un ammontare del risarcimento fissato in termini automatici in funzione dell’anzianità, non rivestiva queste caratteristiche.

In sostanza, il sindacato sindacava diversi articoli del Jobs Act ( DLGS 23/2015).

In primo luogo, era contestato l’articolo 3 che determina i termini di risarcimento per il licenziamento illegittimo, l’articolo 4 che riduce il risarcimento per vizi procedurali,

L’articolo 9 che riduce il risarcimento nelle aziende sotto le dimensioni di legge, l’articolo 10 che estende i limiti risarcitori ai licenziamenti collettivi effettuati senza il rispetto dei criteri di scelta.

Interveniva nel giudizio anche la CES Confederazione Europea dei Sindacati che appoggiava il ricorso, richiamandosi a diversi testi internazionali quali il patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali, e culturali (PIDESC) ai commenti del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (CDESC), alla Convenzione n° 158 ed alla Raccomandazione n° 166 dell’ILO in materia di licenziamento, soprattutto all’interpretazione del Comitato degli esperti per l’attuazione delle convenzioni e delle raccomandazioni (CDEACR), nonché ad altri strumenti meno specifici ma pertinenti, come il testo di politica generale adottato nel 2009: “Superare la crisi: un patto globale per l’occupazione”. Inoltre, faceva riferimento alle conclusioni del 5° rapporto periodico del CDESC (2015), che invita l’Italia a misurare l’impatto delle misure di austerità  sul rispetto dei diritti umani. 

I riferimenti della CES andavano anche a diversi testi normativi dell’Unione Europea quali l’articolo 153 del Trattato dell’Unione Europea e l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione.

La Confederazione Sindacale Europea richiamava inoltre la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, osserva, inoltre, che un licenziamento può costituire un’ingerenza nel diritto a detrimento della vita privata (Özpinar contro Turchia, richiesta n° 20999/04, sentenza del 19 ottobre 2010, definitiva il 19 gennaio del 2011; Oleksandr Volkov contro Ucraina, richiesta n° 21722/11, sentenza del 9 gennaio 2013, definitiva il 27 maggio 2013).

Concludeva la CES,  affermando che il plafond per l’indennizzo risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo in Italia era contrario alla Carta, tanto più che esso teneva conto soltanto dell’anzianità del servizio e non tiene conto di altre variabili importanti. 

Nel corso dell’esame del ricorso, la Corte Costituzionale con la sentenza n.194/2018, stabiliva che l’articolo 3 del DLGS 23/2015 era da considerarsi incostituzionale, proprio perché prevedeva in caso di licenziamento illegittimo dei criteri automatici e riduttivi per determinare il risarcimento.

Di seguito era adottato il DLGS n.87 del 12 luglio 2018 che ha aumentato l’importo minimo e massimo dell’indennizzo, rispettivamente da quattro a sei mensilità e da ventiquattro a trentasei mensilità. Lo stesso decreto, modificato dalla legge n°145 del 30 dicembre 2018.

Dall’esame della normativa di diritto internazionale, comunitario e nazionale, il Comitato rilevava quanto segue:

Il Comitato rileva che il reclamo verte sull’adeguatezza del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato dopo il 7 marzo 2015, conformemente agli articoli 3, 4, 9 e 10 del decreto legislativo n° 23/2015,  modificato dopo la presentazione del reclamo. A tale riguardo, rileva che la tesi del carattere automatico del calcolo dell’importo delle indennità, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n° 23/2015, non è più valida, a seguito del giudizio di incostituzionalità di questa clausola (Corte costituzionale, sentenza sopracitata n° 194/2018), che consente al giudice di tener conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri elementi (numero  dei lavoratori, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti).

 Rileva, pertanto, che la parte reclamante continua a mettere in discussione altri aspetti del meccanismo indennitario in caso di licenziamento illegittimo, cioè il tetto massimo delle indennità (plafond), unitamente alle restrizioni applicabili in materia di reintegro del lavoratore, alla presunta assenza di tutela alternativa o complementare dai licenziamenti illegittimi in altre disposizioni, alla presunta mancanza di strumenti adeguati di protezione sociale per i lavoratori licenziati, così come di un meccanismo di conciliazione, che favorirebbe l’uso dei licenziamenti illegittimi.

 Il Comitato ricorda che, ai sensi della Carta, i lavoratori licenziati senza un valido motivo devono ottenere un indennizzo o un altro risarcimento adeguato. I meccanismi indennitari sono ritenuti conformi alla Carta quando prevedono:  il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso;  la possibilità di reintegro del lavoratore e/o  indennità di un importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima (Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, paragrafo 45; Conclusioni 2016, Bulgaria).

Il Comitato rileva che i meccanismi di risarcimento attualmente previsti dalle disposizioni contestate variano in funzione del tipo di licenziamento e della dimensione dell’impresa (unità produttiva fino a 15 o più lavoratori ).

 In caso di licenziamento discriminatorio (in base all’appartenenza sindacale, politica o religiosa, etnica, lingua, al sesso, alla disabilità, all’età, all’orientamento sessuale o alle convinzioni personale), inficiato di nullità (cioè, quando è intimato durante il periodo tutelato dopo un matrimonio, una nascita o una malattia) oppure se il licenziamento non è stato notificato per iscritto, il lavoratore può richiedere la reintegrazione nel suo posto di lavoro (oppure un’indennità forfettaria di 15 mensilità) ed ottenere anche un’indennità non inferiore a cinque mensilità non limitata al plafond, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (articolo 2 del decreto legislativo n° 23/2015).

 Ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n° 23/2015, si applica lo

 stesso risarcimento di cui sopra se il procedimento dimostra che il fatto materiale contestato al lavoratore non sussiste (e anche se il fatto ha avuto luogo, ma non era passibile di licenziamento, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione nella sua sentenza n° 12174 dell’8 maggio 2019) per le unità produttive con più di 15 lavoratori. 

Il Comitato rileva che, nei casi di cui sopra, la vittima del licenziamento senza motivo valido può ottenere un’indennità non limitata dal plafond, che copra le perdite finanziarie subite dal licenziamento, nonché la reintegrazione nel suo posto di lavoro, a meno che il lavoratore preferisca un indennizzo forfettario in sostituzione della reintegrazione (se si tratta di una piccola impresa, la reintegrazione è esclusa nei casi contemplati nel paragrafo 90 di cui sopra, ma questa è possibile in caso di licenziamento discriminatorio e negli altri casi contemplati nel paragrafo 89 di cui sopra). Dal momento che le situazioni sopra menzionate non riguardano la questione essenziale sollevata nel reclamo, vale a dire l’esistenza di limiti predeterminati all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, il Comitato ritiene che non sia necessario esaminarli separatamente. 

Per quanto riguarda gli altri tipi di licenziamento senza motivo valido, il Comitato rileva che le disposizioni contestate, oltre a non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro, prevedono un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l’importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6,12,24 o 36 mensilità di riferimento. 

Inoltre, se il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 con un contratto a tempo indeterminato nel settore privato,  ritiene di essere stato oggetto di una misura di licenziamento individuale senza un valido motivo, che si tratti di un motivo oggettivo (soprattutto licenziamento economico) o soggettivo (motivo disciplinare con preavviso), oppure di un licenziamento senza giusta causa (licenziamento disciplinare immediato), il decreto legislativo n° 23/2015 (articoli 3, comma 1, e 9) prevede un’indennità limitata dal plafond di:   Sei mensilità di riferimento per i lavoratori delle piccole imprese (con meno di 16 lavoratori),  24 o 36 mensilità di riferimento nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data di assunzione e di licenziamento, avvenuta prima o dopo il 14 luglio 2018).

 Se il licenziamento illegittimo è dovuto a vizi di forma (ad esempio, se il motivo del licenziamento non è indicato) o procedurali (ad esempio, se il lavoratore non ha potuto difendersi in sede disciplinare), gli importi dell’indennità sono dimezzati per le piccole imprese e limitati dal plafond di 12 mensilità di riferimento per le altre, ai sensi degli articoli 4 e 9 del decreto legislativo n° 23/2015.

 Infine, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, in quanto intimato in violazione delle procedure o dei criteri di selezione, l’articolo 10 del decreto legislativo n° 23/2015 prevede un’indennità limitata dal plafond di 24 o 36 mensilità nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data del licenziamento, avvenuto prima o dopo il 14 luglio 2018.   Il Comitato ricorda che qualsiasi tetto massimo (plafond), che svincola le indennità  dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta, come, in una certa misura, ha già espresso la Corte Costituzionale nella decisione n° 194/2018. Nel caso del tetto massimo delle indennità accordate a titolo di compensazione del danno materiale, la vittima deve poter chiedere un ristoro del danno morale subito attraverso altre vie legali e gli  organi giurisdizionali competenti, per accordare un indennizzo per il danno materiale e morale subito, devono pronunciarsi in tempi ragionevoli (Finnish Society of Socail Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, comma 46; conclusioni del 2012, Slovenia e Finlandia).

 Il Comitato rileva che il Governo, per quanto riguarda le eventuali vie legali che consentono di ottenere un risarcimento supplementare, menziona la possibilità che il lavoratore ottenga un indennizzo supplementare ai sensi delle disposizioni generali in materia di responsabilità civile (ad esempio, in caso di danno arrecato alla salute o in caso di licenziamento vessatorio). Indica, inoltre, che gli organi giurisdizionali competenti, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto, possono ordinare la reintegrazione del lavoratore in casi diversi da quelli coperti dalle disposizioni contestate, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto. 

Il Comitato osserva che la CGIL contesta queste argomentazioni e precisa che il risarcimento previsto, sotto il profilo della responsabilità civile, non è collegato al carattere illegittimo del licenziamento, ma alle modalità del licenziamento ed alle conseguenze per l’integrità psicofisica (Corte di Cassazione, sentenza n° 23686 del 19 novembre 2015), per la vita privata o per la reputazione della vittima; per quanto riguarda la possibilità di reintegrazione, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, la CGIL sostiene che essa si applica solo nei casi molto rari di nullità del licenziamento.   Il Comitato rileva che il Governo non ha fornito esempi di casi in cui sarebbe stato concesso un risarcimento per licenziamento illegittimo in base alle disposizioni relative alla responsabilità civile o ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile. Il comitato osserva che tale disposizione è stata utilizzata per riconoscere la nullità dei licenziamenti illegittimi in alcuni casi (sentenza n°4517/2016 del Tribunale del Lavoro di Roma, con la quale ha riconosciuto il carattere ritorsivo del licenziamento di un lavoratore che aveva contestato le misure disciplinari; sentenza n° 687/2016 del Tribunale del Lavoro di Vicenza con la quale riconosce il carattere abusivo di un presunto licenziamento per motivi economici, mentre il datore di lavoro sperava di trarre vantaggio dalle nuove misure di promozione dell’assunzione), ma ritiene che nulla impedisce di stabilire che tali esempi, forniti da organi giurisdizionali inferiori, siano rappresentativi di una giurisprudenza stabile e consolidata e che possano coprire tutti i diversi casi. 

 Osserva, altresì, che il meccanismo di conciliazione previsto dall’articolo 6 del decreto legislativo n° 23/2015 miri espressamente ad “evitare il procedimento giudiziario”. Se l’obiettivo è decongestionare gli organi giurisdizionali nazionali ricorrendo a soluzioni in sede extra giudiziaria, il Comitato non ritiene che ciò sia in contrasto con la Carta, il Comitato ritiene che ciò non debba avvenire a spese dei diritti soggettivi garantiti dalla Carta.

Orbene, rileva che in caso di licenziamento illegittimo (diverso da quello discriminatorio, inficiato di nullità, intimato verbalmente o sostanzialmente infondato, si vedano i paragrafi 89 – 91), la vittima ha la scelta tra due opzioni risarcitorie per il danno materiale – giudiziario o extra giudiziario – limitato da un tetto massimo (plafond) che non copre le perdite finanziarie effettivamente sostenute dalla data del licenziamento. Il Comitato ritiene che le condizioni di ciascuna di queste due opzioni risarcitorie sono tali da incoraggiare, o quanto meno a non dissuadere, il ricorso al licenziamento illegittimo. 

Infatti, in caso di licenziamento illegittimo, l’opzione conciliativa prevista in Italia permette al datore di lavoro di sottrarsi dal procedimento giudiziario controllando i costi del licenziamento (limitato da un plafond di 27 mensilità, 6 per le piccole imprese), mentre questo impegna la vittima a rinunciare a qualsiasi altro procedimento, avente come unico vantaggio il fatto di essere certi di ricevere un indennizzo in un breve lasso di tempo.

 La via legale non presenta, pertanto, un vero carattere dissuasivo del licenziamento illegittimo nella misura in cui, da un lato, l’importo netto dell’indennizzo per i danni materiali non è significativamente superiore a quello previsto in sede di conciliazione e, d’altra parte, la durata della procedura avvantaggia il datore di lavoro, dato che l’indennizzo in questione non può superare gli importi prestabiliti (limitatati da un plafond di 12, 24 o 36 mensilità, a seconda dei casi, di 6 mensilità per le piccole imprese) e il risarcimento diventa nel tempo inadeguato rispetto al danno subito. Per quanto riguarda le vie di ricorso menzionate dal Governo, il Comitato constata l’assenza di elementi conclusivi che consentano effettivamente di ottenere un indennizzo supplementare generalizzato.

104. Alla luce di questi elementi, il Comitato ritiene che né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima del licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto dalla legge in risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l’uso dei licenziamenti vigore, e né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un illegittimi.

Il Comitato quindi emetteva il seguente parere:

Alla luce di quanto detto, il Comitato ritiene che l’indennizzo versato in caso di licenziamento in violazione di un diritto fondamentale, debba mirare a risarcire totalmente, tanto sul piano finanziario, quanto su quello professionale, il danno subito dal lavoratore; la soluzione migliore consiste generalmente nel reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, pagando le retribuzioni dovute e mantenendo i diritti acquisiti. A tal fine, gli organi imparziali devono essere dotati dei poteri necessari per decidere rapidamente, pienamente e in completa indipendenza, e, in particolare, di decidere la forma di riparazione più adeguata, tenuto conto delle circostanze, e soprattutto della possibilità di reintegrazione. Se la reintegrazione non è stata proposta a titolo di risarcimento, se non è possibile o se non è chiesta dal lavoratore, sarebbe auspicabile che l’indennizzo scelto per il licenziamento in violazione di un diritto umano fondamentale fosse proporzionato al danno subito e in quantità maggiore a quella pagata per altri tipi di licenziamenti.

Fabio Petracci

Licenziamento privo di motivazione.

La Cassazione con la sentenza n.30668 del 25.11.2019 ritiene che il licenziamento con mancanza di motivazione vada equiparato al licenziamento affetto da vizio formale con conseguente diritto al conseguente ridotto risarcimento nel caso in cui comunque il licenziamento si appalesi legittimo.

La decisione, ad avviso di chi scrive equipara al licenziamento legittimo e valido, il recesso che per mancanza di motivazione impedisce un concreto esame difensivo di chi ha subito l’atto e quindi concede una sorta di “favor” alla parte recedente. Va notato come dopo la legge 92/2012 (legge Fornero) il comma 4 dell’articolo 18 stabilisce che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, quindi il mero risarcimento) ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

In pratica, la disposizione di legge dissocia in maniera completa l’ipotesi della mancanza di motivazione da quella del licenziamento illegittimo per carenza di giusta causa o giustificato motivo, e sancisce che anche il licenziamento privo di motivazione può essere ritenuto assistito da giusta causa.

Non tiene conto la disposizione di legge citata come sia molto più facile per chi intima un licenziamento senza motivazione, sostenerne in giudizio la giusta causa. E’ così violato non solo il diritto di difesa del lavoratore, ma anche il diritto alla tutela del posto di lavoro, tutti diritti costituzionalmente fondati.

In tema di irregolarità della contestazione nel licenziamento disciplinare nello specifico di fronte alla tardività della contestazione e dunque in un ipotesi che coinvolgeva la forma del recesso ed il diritto alla difesa, la Cassazione a Sezioni Unite Sentenza 27.12.2017 n.3085 riteneva che Con legge 92/2012  (riforma Fornero), si assiste ad una modifica dell’art. 18, nel senso che accanto alla tutela reale, la quale rappresenta il massimo livello di protezione per sanzionare un illecito, viene prevista una tutela meramente indennitaria”. I regimi di cui si parla nel nuovo art. 18 sono i seguenti: a) quello della tutela reintegratoria piena (disciplinato dai primi tre commi dell’art. 18); b) quello della tutela reintegratoria attenuata (comma 4); c) quello della tutela indennitaria forte (comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) quello della tutela indennitaria limitata (comma 6), che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità applicabile nel caso di specie inquadrato come mera irregolarità formale del recesso.

Va inoltre attentamente considerato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che assicura ad ogni lavoratore l’effettività del diritto a non essere licenziato senza un valido motivo legato alla condotta ed alle attitudini personali o ad un valido motivo connesso al funzionamento dell’impresa. L’articolo 24 sancisce inoltre per chi è licenziato senza un valido motivo un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.

Di Seguito Cassazione n.30668 del 25.11.2019.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2435/2018 proposto da:

PRADA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 39, presso lo studio dell’Avvocato MARCO PASSALACQUA, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati ANNA GRAZIA SOMMARUGA, MARCELLO GIUSTINIANI, ARIANNA MARIA BEATRICE COLOMBO e GIAN LUCA PINTO in virtù di delega in atti.

– ricorrente principale – controricorrente in relazione al ricorso incidentale –

contro

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE FONTANA, che lo rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente, all’Avvocato FABIO RUSCONI giusta delega in atti.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1090/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/11/2017 R.G.N. 411/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2019 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato ANNA GRAZIA SOMMARUGA.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Arezzo, con la pronuncia n. 385 del 2012, ha respinto la domanda, proposta con il rito speciale di cui alla L. n. 92 del 2012, da T.G. nei confronti di Prada spa diretta ad ottenere, previo accertamento in via incidentale della natura subordinata del rapporto di lavoro in essere inter partes nel periodo compreso tra il 3.9.2007 ed il 3.2.2015 (che era stato formalizzato invece con successivi contratti di consulenza), che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento che la società gli aveva di fatto intimato recedendo dall’ultimo di tali contratti di lavoro formalmente autonomo, con le conseguenze reintegratorie e risarcitorie L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 4, ovvero, in subordine, risarcitorie previste dal comma 5 dello stesso articolo o, in via ulteriormente subordinata, solo quelle risarcitorie ai sensi dell’art. 18 citato, comma 6.

2. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 1090 del 2017, in riforma della pronuncia di prime cure e in parziale accoglimento del reclamo, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento impugnato L. n. 604 del 1966, ex art. 2; ha dichiarato, quindi, risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti alla data del recesso e ha condannato la società a corrispondere a T.G. l’indennità risarcitoria di cui della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, quantificata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

3. A fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che: a) non era fondata l’eccezione di decadenza, sollevata L. n. 183 del 2010, ex art. 32, perchè il testo della disposizione era inequivoco nel sottoporre a decadenza esclusivamente l’azione del lavoratore diretta ad impugnare il licenziamento, comunque qualificato, dell’affermato datore di lavoro e il recesso del committente nei rapporti di collaborazione per cui, in ipotesi come quella di cui è processo riguardante una serie di contratti qualificati di consulenza, stipulati tra le parti senza soluzione di continuità (dal 3.9.2007 al 3.2.2015), l’unico termine che era onere osservare per il T. era quello decorrente dalla comunicazione del recesso della società; b) ricorrevano pacificamente, quanto alla prestazione del lavoratore, le condizioni del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, comma 2, di talchè non poteva presumersi la natura di prestazione coordinata e continuativa dell’attività lavorativa svolta dalla originario ricorrente per quanto titolare di partita IVA; c) in ogni caso, dalla istruttoria svolta, vi era prova in atti della natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa svolta dal T.; d) tale natura rendeva qualificabile come licenziamento il recesso intimato dalla formale committente il 3.2.2015 che si manifestava, però, illegittimo per mancanza di motivazione; e) doveva, invece, ritenersi provato il giustificato motivo oggettivo di recesso e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage atteso che non esisteva, nell’organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del licenziamento e neanche introdotta successivamente, alcuna figura anche solo latamente comparabile con quella di T. che svolgeva mansioni altamente specialistiche ed adeguatamente remunerate; f) ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, l’indennità risarcitoria, a seguito della declaratoria di risoluzione del rapporto, andava quantificata in dodici mensilità.

4. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Prada spa affidata a cinque motivi.

5. Ha resistito con controricorso T.G. sulla base di un motivo cui ha, a sua volta, resistito con controricorso la società.

6. Il PG, prima della fissazione della causa per la trattazione in pubblica udienza, ha concluso, con requisitoria scritta, per il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale.

7. Le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo del ricorso principale la società denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 e artt. 2964 c.c. e segg., per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che il T., ai sensi di quanto previsto dal citato art. 32, aveva l’unico onere, pacificamente adempiuto, di impugnare l’atto che lo aveva estromesso materialmente dal rapporto e non anche ciascuno dei contratti di lavoro autonomo che, nel corso degli anni, si erano susseguiti senza soluzione di continuità a regolare formalmente il rapporto stesso.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 6169 e 69 bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale che il T. aveva stipulato con Prada spa contratti di collaborazione continuativa e coordinata privi di progetto, in luogo di genuini contratti di consulenza a partiva IVA, applicando gli artt. 61 e 69 D.Lgs. n. citato, non dirimenti per il caso di specie, ed omettendo del tutto l’applicazione dell’unica norma rilevante costituita dall’art. 69 bis stesso decreto che individua, invece, una deroga alla disciplina scaturente dal combinato disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69.

4. Con il terzo motivo la società lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte di appello ritenuto ravvisabili gli elementi che, a termine del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, integravano la nozione di “specifico progetto” nell’oggetto dei contratti di consulenza sottoscritti tra le parti.

5. Con il quarto motivo la società si duole della violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 116 c.p.c., per avere erroneamente la Corte di appello ritenuto attendibile il teste P..

6. Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente la Corte di appello ravvisato la natura subordinata della prestazione svolta dal T..

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale il T. denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 1, 2, 4, 6 e 7, in relazione al capo della sentenza che, dopo avere dichiarato il licenziamento intimatogli illegittimo in quanto totalmente carente di motivazione, ha concluso per l’applicazione della tutela di cui dell’art. 18 citato, comma 6, anzichè di quello di cui ai commi 2 o 4/7 della disposizione (art. 360 c.p.c., n. 3); si sostiene che in ipotesi di licenziamento inefficace per mancanza di motivazione L. n. 604 del 1966, ex art. 2, la tutela non avrebbe potuto essere solo quella risarcitoria pena la incostituzionalità della norma di cui alla L. n. 600 del 1970, art. 18, comma 6, per irragionevolezza della stessa.

8. Con il secondo motivo si eccepisce la nullità della sentenza (error in procedendo) per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione al capo della decisone che, dopo avere ritenuto dimostrata la ragione organizzativa che la società aveva allegato a giustificazione del proprio recesso, ha escluso che il licenziamento oggetto di causa fosse illegittimo, oltre che per la totale carenza di motivazione, anche per violazione da parte della società stessa del cd. “obbligo di repechage” sul presupposto che non esistesse nella organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del recesso e che non era stata introdotta dopo, alcuna figura professionale comparabile non solo latamente con quella del T.. Si deduce, da un lato, che la circostanza della inesistenza della posizione professionale di cui sopra non solo non era affatto pacifica tra le parti, ma non era stata neppure allegata: ciò, pertanto, in violazione degli art. 112 e 115 c.p.c.; inoltre, si evidenzia, sempre in relazione all’art. 115 c.p.c., che la Corte aveva mancato di rilevare che fosse sempre pacifico tra le parti la circostanza di poter ricollocare utilmente il T. nell’organizzazione aziendale in svariate mansioni, specificamente allegate e non contestate.

9. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato.

10. Il dato processuale da prendere in considerazione, per l’esame della censura, è rappresentato dal fatto che, nella fattispecie in esame, tra il T. e Prada spa erano intercorsi, senza soluzione di continuità, dal 3.9.2007 al 3.2.2015, quattro contratti di consulenza ritenuti illegittimi dai giudici di merito D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, con il conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato.

11. La società sostiene, come sopra riportato, che il lavoratore era decaduto dal diritto di impugnare i primi tre contratti per il decorso dei termini di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32.

12. L’assunto non è meritevole di accoglimento.

13. In tema di contratto a progetto, è stato affermato che il regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012), in casi di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, determina l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente sin dalla data di costituzione dello stesso (cfr. Cass. 17.8.2016 n. 17127).

14. Ne consegue, pertanto, che essendo unico il rapporto di lavoro che si è venuto a creare tra le parti dal 3.9.2007 (primo contratto a progetto ritenuto illegittimo), la stipulazione dei successivi contratti non può incidere sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, salva la prova di una novazione ovvero di una risoluzione tacita del rapporto (cfr. Cass. 9.3.2018 n. 5714 in tema di pluralità di contratti a termine il cui primo sia stato dichiarato nullo): ipotesi, queste, non ravvisabili ed anzi escluse sostanzialmente dalla Corte territoriale che ha rilevato l’effettività e la continuità del vincolo di subordinazione tra le parti nell’ambito di tutto il rapporto lavorativo.

15. Correttamente, pertanto, ai fini della eccezione di decadenza dell’azione giudiziaria L. n. 183 del 2010, ex art. 32, i giudici di seconde cure hanno ritenuto che l’unico termine di decadenza che il T. doveva impedire, come in realtà aveva fatto, era quello decorrente dal recesso della società dal rapporto in essere, in relazione all’ultimo contratto, qualificato come licenziamento.

16. Il secondo motivo del ricorso principale è parimenti infondato.

17. La norma del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, non può spiegare alcun effetto in relazione al rapporto dedotto in giudizio attesa la statuita riqualificazione del rapporto, originariamente instaurato in seguito alla stipulazione di contratti a progetto, in uno di natura subordinata fin dal primo contratto del 3.9.2007, in relazione al quale la disposizione invocata è successiva.

18. Il terzo, quarto e quinto motivo, da trattarsi congiuntamente per connessione, non sono meritevoli di accoglimento in quanto, al di là del formale richiamo, contenuto nella epigrafe dei motivi di impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o dei rapporti tra le parti ritenuti rilevanti.

19. Si tratta, quindi, di argomentazioni critiche dirette a censurare una tipica erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa e, pertanto, di tipiche censure dirette a denunciare un vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato: vizio comunque insussistente atteso che, nel caso in esame, devono ritenersi soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti (per tutte Cass. n. 8053/2014).

20. Infine, giova ribadire che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio di attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4.7.2017 n. 16647).

21. Ciò premesso deve ritenersi, in punto di diritto, che gli accertamenti svolti dalla Corte di merito siano rispettosi dei criteri generali in tema di distinzione tra rapporto di natura autonoma e subordinata, muovendosi nell’ambito dei principi elaborati da questa Corte che assegnano alla soggezione del lavoratore al potere direttivo della parte datoriale un ruolo fondamentale ai fini del discrimen tra le due categorie di rapporti e, nella specie, ritenuta sussistente per l’inserimento stabile del T. nell’organizzazione, per la soggezione ad ordini e direttive di provenienza dei preposti della società, tali da terminare tempi, modi e priorità della prestazione lavorativa); il resto è accertamento di merito sottratto, come si è detto, al sindacato di legittimità.

22. Il primo motivo del ricorso incidentale è anche esso infondato.

23. E’ opportuno rilevare che i giudici di seconde cure, oltre ad avere sottolineato che il provvedimento espulsivo era illegittimo in quanto non conteneva alcuna motivazione, hanno poi precisato che la società aveva dato prova del giustificato motivo oggettivo di recesso (eliminazione dalla compagine aziendale degli ispettori etici in esito alla modifica delle condizioni contrattuali con i fornitori, dal 2015 tenuti a garantire alla committente il rispetto, da parte loro e dei propri sub-fornitori, delle norme di sicurezza) e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage, per cui la tutela doveva essere quella risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6.

24. La sentenza è conforme all’orientamento di legittimità, cui si intende dare seguito, secondo cui nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione della L. n. 604 del 1966, ex art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge in virtù di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche la L. n. 300 del 1970, art. 18, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (Cass. 5.9.2016 n. 17589).

25. Il secondo motivo del ricorso incidentale è, invece, inammissibile.

26. Invero, la doglianza è stata formulata come “error in procedendo”, in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., ma, in realtà, è finalizzata a censurare la valutazione delle risultanze istruttorie da parte della Corte territoriale.

27. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera però interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte dei giudici di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme procedurali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione e, dunque, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. 12.10.2017 n. 23940; Cass. 30.11.2016 n. 24434).

28. Nè è ravvisabile, poi, la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell’omessa pronuncia, che riguarda l’omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda o su un’eccezione di parte o su un’istanza che richiede una statuizione di accoglimento o rigetto, tale da dare luogo all’inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto (Cass. 23.2.1995 n. 2085), salva l’ipotesi in cui ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie (Cass. 25.2.2005 n. 4079; Cass. 29.7.2004 n. 14486).

29. Nel caso in esame, invece, sul punto dell’obbligo di repechage la Corte di merito si è espressa ritenendo, con un accertamento di merito adeguato e motivato e, pertanto, insindacabile in questa sede, che non vi era stata violazione del predetto obbligo.

30. L’impostazione della censura, si ribadisce quale error in procedendo e non come violazione di legge, non consente a questo Collegio di valutare ulteriori profili di illegittimità della condotta dell’odierna controricorrente.

31. Alla stregua di quanto esposto sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati.

32. La soccombenza reciproca induce a compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

33. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2019

Licenziamento legge 104 e abusi.

Legge 104 – abuso e licenziamento.

La Corte di Cassazione è stata investita di un caso dove un lavoratore dopo aver dichiarato che la persona assistita non era ricoverata a tempo pieno, fruisce di tutta una serie di permessi giornalieri.

Il datore di lavoro scopre che la persona da questi assistita è in realtà ospitata presso una struttura assistenziale di natura alberghiera e non ospedaliera. A causa della dichiarazione mendace, il lavoratore viene licenziato. Impugna il licenziamento. Il suo ricorso è respinto in tutti i gradi di giudizio, sino a quando la cassazione ribalta il verdetto ritenendo che l’ospitalità presso una struttura alberghiera non equivale al ricovero che, secondo la Cassazione, deve intendersi quale ricovero ospedaliero.

Va ricordato come la legge 183/2010 abbia modificato il testo della legge 104/1992 inserendo all’articolo 33 comma 3 la specifica condizione che per la concessione dei permessi la persona assistita non doveva essere ricoverata a tempo pieno.

La Cassazione ha ritenuto che per ricovero debba intendersi esclusivamente il ricovero ospedaliero.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent.14-08-2019, n. 21416

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26136-2017 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA MARATONA N. 87, presso lo studio dell’avvocato SABINA COLLETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE ASL (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell’avvocato CHIARA MAGRINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIA ZUCCA;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 762/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/09/2017 R.G.N. 546/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

udito l’Avvocato CHIARA MAGRINI.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso L. n. 92 del 2014, ex art. 1, comma 47, al Tribunale di Torino R.G., dipendente della ASL TO5 in qualità di operatore tecnico autista, impugnava il licenziamento per giusta causa comminatogli con Delib. Direttore Generale 25 luglio 2016, n. 370 per avere il predetto, in sede di dichiarazione resa in data 10 luglio 2014, dichiarato che il soggetto disabile per il quale beneficiava dei permessi ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura.

2. Il Tribunale, in esito alla fase sommaria, respingeva la domanda.

3. La decisione era confermata in sede di opposizione.

4. Il reclamo proposto dal R. era respinto dalla Corte d’appello di Torino.

La Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisava che: a) il dipendente con l’indicata dichiarazione – sottoscritta nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 47 e ss. – aveva affermato che la madre, in relazione alla quale usufruiva dei benefici della L. n. 104 del 1992, art. 33 non era “ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura”, mentre la ASL, a seguito di controlli, aveva appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera; b) in sede disciplinare era stata contestata unicamente la dichiarazione falsa resa alla datrice di lavoro, senza indagare se sussistessero le condizioni per la fruizione dei suddetti benefici, ciò, però, muovendo dalla premessa che tali benefici comportano notevoli oneri economici e organizzativi e trovano la loro giustificazione solo nella effettiva tutela delle persone disabili; c) quanto all’elemento soggettivo, doveva essere evidenziata la diversità dei criteri e dei presupposti dell’accertamento della responsabilità, rispettivamente in sede penale e in sede disciplinare, sicchè, a prescindere dall’avvenuta archiviazione del procedimento penale, nella sede deputata all’accertamento della responsabilità disciplinare la dichiarazione mendace contestata andava considerata frutto di dolo o, almeno, di grave negligenza; d) l’illecito era da reputarsi di tale gravità da meritare la massima sanzione espulsiva tenendo conto del fatto che la dichiarazione falsa era stata resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio da un soggetto legato da un vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario.

2. Avverso tale decisione R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

3. La ASL (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

4. In seguito a rinvio a nuovo ruolo la discussione della causa è stata nuovamente fissata per l’odierna udienza.

5. Entrambe le parti hanno depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, sostenendosi che la Corte d’appello avrebbe confermato il licenziamento del ricorrente sulla base di un fatto inesistente rappresentato dall’illegittima fruizione dei permessi di cui al richiamato art. 33.

2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis nonchè dell’art. 29, comma 2 c.c.n.l. 1 settembre 1995; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., rilevandosi che la questione dell’illegittima fruizione dei permessi citati non avrebbe dovuto essere presa in considerazione dalla Corte d’appello, visto che non era stata contestata e neppure introdotta in giudizio dalla datrice di lavoro, sicchè la sentenza impugnata sarebbe anche affetta dal vizio di ultrapetizione.

3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, dell’art. 2106 c.c. nonchè degli artt. 28 e 29, comma 1, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, perchè la Corte territoriale, violando le norme richiamate e i principi generali della materia, avrebbe confermato il licenziamento sulla base di un comportamento privo di qualunque illiceità, visto che in sede penale il procedimento a carico del R. era stato archiviato in quanto era stata esclusa l’ascrivibilità di una falsa dichiarazione o reticenza essendosi ritenuto che il termine ‘ricoverò nell’ambito del citato art. 33 fosse da riferire soltanto alle strutture di tipo sanitario e non a quelle di tipo alberghiero come quella in cui si trovava la madre dell’interessato.

In questa situazione, non essendo compresa la condotta contestata neppure tra quelle indicate dal c.c.n.l. come meritevole di sanzione disciplinare, la Corte d’appello avrebbe, in definitiva, considerato meritevole del licenziamento un comportamento privo di illiceità, muovendo da una erronea accezione del termine ricovero, come se fosse da riferire anche al soggiorno in strutture residenziali.

4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, dell’art. 13 del c.c.n.l. 19 aprile 2004, dell’art. 29, comma 9, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, in via subordinata si deduce che la Corte d’appello non si sarebbe attenuta ai criteri legislativi e contrattuali sulla proporzionalità tra infrazione e sanzione, avendo del tutto ignorato al riguardo le previsioni del c.c.n.l. che indicano le ipotesi in cui è applicabile il licenziamento senza preavviso.

5. Va preliminarmente respinta l’eccezione di improcedibilità del ricorso formulata dall’Azienda controricorrente per non avere il R. prodotto l’integrale testo del c.c.n.l. in relazione al quale ha formulato parte delle censure.

Questa Corte ha da tempo affermato che l’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorchè la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice è già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sì che la successiva previsione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (che all’art. 7 ha apportato modifiche all’art. 369 c.p.c. prevedendo che il comma 2, n. 4 di tale articolo è sostituito dal seguente: “4. Gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), deve essere riferita ai contratti collettivi di diritto comune (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2009, n. 21558; Cass., Sez. Un., 4 novembre 2009, n. 23329; Cass. 11 aprile 2011, n. 23329).

6. Tanto precisato, il ricorso, nei motivi in cui è articolato, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, è fondato per le ragioni di seguito illustrate.

7. Ai fini di un ordinato iter motivazionale occorre, preliminarmente, ricostruire la ratio legis dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 3, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.

7.1. In termini generali può dirsi che la norma ha individuato le condizioni cui è subordinato il godimento del diritto e i soggetti che ne sono titolari.

Si tratta di una misura a sostegno dei disabili il cui presupposto è costituito dall’esistenza dello stato di handicap grave della persona da assistere, accertato dagli organi competenti e tale da richiedere un intervento assistenziale permanente e continuativo (ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3: “1. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.

2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.

3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.

4. La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale. Le relative prestazioni sono corrisposte nei limiti ed alle condizioni previste dalla vigente legislazione o da accordi internazionali”).

7.3. La normativa specifica in tema di permessi per l’assistenza a familiari disabili di cui alla indicata L. n. 104 del 1992, è la risultante dell’intreccio di diverse disposizioni, che sono state modificate in più occasioni nel corso del tempo. In particolare, l’art. 33, comma 3 di tale legge, nella sua originaria formulazione, così disponeva: “3. Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”.

7.4. La disposizione è stata modificata una prima volta con la L. 8 marzo 2000, n. 53 che, all’art. 19, comma 1, lett. a), ha previsto la copertura da contribuzione figurativa dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 cit. art. e, all’art. 20, ha sancito l’applicabilità delle disposizioni della L. n. 104 del 1992, art. 33 “ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorchè non convivente”.

7.5. Dalla lettura congiunta della L. n. 104 del 1992, art. 33 con la L. n. 53 del 2000, art. 20 la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1 dicembre 2010, n. 8382) ha desunto la eliminazione del requisito della convivenza anche per i permessi mensili retribuiti di cui all’art. 33, comma 3 nonchè l’introduzione dei diversi requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione.

7.6. La disposizione normativa è stata oggetto di ulteriore modifica ad opera della L. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato Lavoro) che, all’art. 24, ha sostituito il comma 3 con il seguente: “3. A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente”.

7.7. La Legge del 2010 ha, inoltre, con l’art. 23, delegato il Governo a riordinare l’intera materia relativa a congedi, aspettative e permessi, al fine di realizzare un “coordinamento formale e sostanziale” delle prescrizioni in vigore (comma 2, lett. a).

7.8. E’ stata apertamente dichiarata la necessità di “garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e… adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo” (lett. a); al contempo, si è sottolineata l’esigenza di risistematizzare le tipologie dei permessi, con la ridefinizione dei presupposti oggettivi e dei requisiti soggettivi (lett. c e d), semplificando gli oneri di allegazione della documentazione richiesta (lett. e).

In particolare, il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari.

Infatti, se, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni), dall’altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assista persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

Solo in casi particolari l’agevolazione in questione può essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado delle persone da assistere.

Infatti, l’estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti.

7.9. Il citato L. n. 183 del 2010, art. 24 se, dunque, da un lato, ha eliminato i requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, dall’altro, nel modificare della L. n. 104 del 1992, l’art. 33, comma 3, ha introdotto il principio del referente unico per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell’art. 33, comma 3, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 24, comma 1, lett. a), è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della convivenza.

7.10. Il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia dei permessi mensili retribuiti spettanti per l’assistenza a persone con disabilità grave, in sede di attuazione della delega contenuta nella L. n. 183 del 2010, art. 23. Tale delega è stata attuata dal D.Lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall’art. 6.

7.11. il D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 6, comma 1, lett. a), ha aggiunto un periodo al comma 3 della L. n. 104 del 1992, art. 33 relativo alla disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate.

7.12 Da ultimo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

7.13. In tale pronuncia è stato rimarcato che il permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, è espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

Nell’interpretazione del giudice delle leggi, la tutela della salute psicofisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla L. n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie “il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).

8. Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione.

8.1. Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all’assistenza da parte dell’handicappato solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare.

8.2. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l’intervento, a detti fini, dei familiari.

8.3. L’interesse primario cui è preposta la norma in questione è, del resto, quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito” (v. Coste Cost. sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007 citate). Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da “rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, secondo quanto letteralmente previsto dalla L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3.

8.4. L’istituto del permesso mensile retribuito è allora in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla L. n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap, diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 32 Cost., rientrante tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

8.5. Pur con i vari interventi legislativi è stata tenuta ferma la condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno).

8.6. Tale condizione non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa.

Solo se la struttura ospitante sia in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo e così di assicurare al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo status si rende superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare, venendo così meno l’esigenza di assistenza posta a base dei permessi.

8.7. Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell’istituto dei permessi (secondo gli stessi arresti della giurisprudenza costituzionale sopra citati in ordine all’irrilevanza di forme di assistenza non continuativa) che è quella di consentire l’assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia.

Solo tale esigenza giustifica il sacrificio imposto al datore di lavoro, in adempimento ad obblighi ispirati al dovere costituzionale di solidarietà.

8.8. Peraltro, come evidenziato, le disposizioni di cui alla L. n. 104 del 1992 sono state oggetto di importanti modifiche aggiuntive ed innovative, introdotte con le L. n. 423 del 1993 e L. n. 53 del 2000, complessivamente caratterizzate da una implementazione del diritto all’assistenza del disabile: tale criterio, che costituisce la ratio legis deve presiedere all’attività di interpretazione della disposizione di che trattasi al fine di assicurare coerenza al sistema e compatibilità con i principi costituzionali, anche ex art. 3 Cost..

8.9. Da tanto consegue che il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perchè queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.

8.10. L’interpretazione qui privilegiata è stata, del resto, fatta propria da questa Corte di cassazione in sede penale (v. Cass. 21 febbraio 2013, n. 8435), laddove, in relazione alla posizione di un pubblico dipendente che rispondeva del reato di falso per aver attestato, appunto falsamente, che la madre ed il padre non erano ricoverati a tempo pieno presso una casa di riposo, richiamando anche le Circolari dell’INPS del 3 dicembre 2010, n. 155 e del Dipartimento Funzione Pubblica n. 13 del 6 dicembre 2010, ha ritenuto che per ricovero a tempo pieno si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativà e dunque la natura sanitaria del ricovero.

8.11. Proprio sulla scorta di tale precedente, il Tribunale di Torino, investito in sede penale a seguito della denuncia presentata nei confronti del R. dalla ASL in relazione al reato di cui all’art. 483 c.p., con decreto del 23/8/2017, su conforme richiesta del P.M., ha disposto l’archiviazione ritenendo che il termine ricovero di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33 fosse riferibile al solo ricovero in strutture di tipo sanitario (si vedano gli atti richiamati dal ricorrente ed allegati al ricorso per cassazione).

9. Tale essendo il quadro normativo di riferimento va ritenuto che la Corte territoriale chiamata a valutare la sussistenza o meno di una falsa dichiarazione con riferimento alla compilazione da parte del R. del modulo predisposto dall’Azienda (compilazione da effettuarsi nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 76), avente ad oggetto i requisiti per fruire dei benefici L. n. 104 del 1992, ex art. 33 ed in particolare alla parte in cui era indicata quale condizione negativa (da barrare da parte dell’interessato) la frase ‘non ricoverata a tempo pieno presso alcuna strutturà, avrebbe dovuto tener conto delle finalità per le quali la dichiarazione stessa doveva essere resa e quindi affermarne od escluderne la veridicità non in relazione ad una nozione atecnica di ricovero bensì con riferimento alle condizioni richieste per la fruizione del beneficio e cioè ad un ricovero presso una struttura in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo al portatore di handicap grave.

9.1. Così avrebbe dovuto valutare se l’aver apposto una crocetta in corrispondenza di tale frase in presenza di un ricovero della persona da assistere (madre del R.) presso la (OMISSIS) a partire dal 20 luglio 2012, e cioè presso una struttura che non offriva, come è pacifico, assistenza sanitaria, potesse integrare, alla luce della ratio della disposizione agevolativa come sopra ricostruita, una dichiarazione mendace.

9.2. E pur vero che un fatto non costituente illecito penale può essere, ciò nondimeno, rilevante ai fini disciplinari, tuttavia è sempre necessario che sussistano profili di antigiuridicità che vanno specificamente indicati, anche alla luce delle previsioni del codice disciplinare.

9.3. Nella specie, peraltro, nessuna contestazione sull’utilizzo indebito dei permessi era stata formulata al dipendente essendo stata posta a base del provvedimento espulsivo solo la circostanza di aver il R. reso dichiarazioni mendaci, ritenuta rilevante sotto il profilo dell’affidabilità morale e professionale del predetto e come tale inficiante in modo irreversibile il rapporto di fiducia che deve necessariamente sussistere tra lavoratore e datore di lavoro (si vedano il contenuto della contestazione e del conseguente provvedimento di licenziamento come riportati in sede di ricorso per cassazione nonchè il passaggio della stessa memoria difensiva della ASL del 7/12/2016, pure riportato in ricorso, nel quale è evidenziato che “la valutazione che l’UPD è stato chiamato ad effettuare…. non ha riguardato…. la verifica della sussistenza o meno dei presupposti necessari al sig. R. per continuare a beneficiare dei permessi della L. n. 104 del 1992…”).

9.4. Anche il profilo dell’affidabilità morale e professionale andava, perciò, considerato tenendo conto dell’ambito definito della contestazione limitata alla dichiarazione asseritamente mendace rilasciata dal R..

10. Da tanto consegue che, assorbiti gli ulteriori rilievi, il ricorso, conformemente alle conclusioni del P.G., deve essere accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello di Torino che procederà ad un nuovo esame tenendo conto dei principi sopra affermati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in