Quando il giornalista può considerarsi lavoratore dipendente?

La prestazione di lavoro del giornalista presenta delle peculiarità che non sempre permettono di definirne la natura subordinata sulla base dell’ordinario criterio dell’eterodirezione.

Quindi la giurisprudenza valorizza anche gli indici complementari come lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell’organizzazione aziendale, la soddisfazione di un’esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, la continuità della prestazione giornalistica resa, la disponibilità del lavoratore alle esigenze ed alle richieste del datore di lavoro nell’intervallo tra una prestazione e l’altra.

Questi criteri sono stati fatti propri anche dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 07/09/2021, n. 24078.

La sintesi della sentenza è la seguente.

Stante la creatività, la particolare autonomia, il carattere prettamente intellettuale che contraddistinguono la prestazione giornalistica, la valutazione circa l’esistenza di un vincolo di subordinazione deve essere condotta mediante modalità e criteri non del tutto corrispondenti a quelli adottati in relazione alle altre attività lavorative, rivelandosi opportuna la considerazione di indici complementari e sussidiari rispetto all’eterodirezione.

In particolare, ai fini dell’accertamento di tale vincolo, non può essere attribuita eccessiva rilevanza alla circostanza che il giornalista non sia tenuto al rispetto di un orario di lavoro fisso o alla permanenza sul luogo di lavoro, ma al contrario, debbano essere presi in considerazione altri e più appropriati elementi quali: lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell’organizzazione aziendale, la soddisfazione di un’esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, la continuità della prestazione giornalistica resa, la disponibilità del lavoratore alle esigenze ed alle richieste del datore di lavoro nell’intervallo tra una prestazione e l’altra.

Più di recente, la Suprema Corte (Ordinanza, 29/09/2022, n. 28349) di cui si trascrive la massima ha confermato l’indirizzo: “In tema di lavoro giornalistico, deve riconoscersi natura subordinata del rapporto di lavoro del collaboratore fisso, a condizione che – pur in assenza della quotidianità, dell’obbligo di presenza giornaliera, dell’osservanza di un orario di lavoro – sussistano i requisiti previsti dalla contrattazione collettiva di categoria e consistenti nella continuità della prestazione, intesa come svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze formative ed informative di uno specifico settore, nella responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche; nel vincolo di dipendenza, per effetto del quale l’impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l’altra”.

Fabio Petracci

Infortuni sul lavoro, responsabilità del RSPP e d.lgs. n. 231/2001

A seguito di un infortunio sul lavoro dovuto all’utilizzo di una macchina da taglio, emergeva la pericolosità della macchina stessa per l’incolumità dei lavoratori in quanto priva di dispositivi meccanici o elettronici che impedissero alle mani dei lavoratori l’accesso alle parti taglienti in movimento dell’apparato.

Ancora, risultava che la dipendente infortunata fosse priva di formazione nell’uso del macchinario.

Con specifico riferimento alle responsabilità, la sentenza n. 34943/2022 della Suprema Corte sezione penale ha ritenuto che il giudizio di colpevolezza espresso dalla Corte d’Appello fosse conseguenza di una errata interpretazione dell’art. 5, comma 1, lett. a, del D.Lgs. 231/2001, in quanto era stata non correttamente operata una sorta di equiparazione tra il potere di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza (riconosciuto al RSPP) ed il riconoscimento di una veste apicale, secondo la previsione dell’art. 5, lett. a, D.Lgs. 231/2001.

In effetti, il sistema normativo della responsabilità dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001 è fondato sul principio di legalità, il quale impone una puntale e attenta verifica dei tratti della fattispecie produttiva di responsabilità che emerge nella relazione tra autore del reato ed ente a cui viene imputato il fatto illecito commesso.

Dunque, non può costituire elemento sintomatico della costituzione di una posizione verticistica lo strumento delineato dall’art. 16 d.lgs. n. 81/2008, che attiene al diverso ambito della delega di funzioni nel settore della prevenzione dei rischi in ambito lavorativo e che non determina il trasferimento della funzione datoriale, nella sua accezione gestionale e di indirizzo, nè di regola, la costituzione di una posizione verticistica, ma risulta strutturato per sollevare il datore di lavoro da singoli incombenti in materia di sicurezza nel limitato ambito delle funzioni trasferite.

Di conseguenza, ai fini della individuazione delle persone dotate di funzioni di rappresentanza, di gestione e di direzione dell’ente e di una unità organizzativa provvista di autonomia finanziaria, non può prescindersi dai criteri identificativi fissati dagli istituti dell’ordinamento giuridico generale e non quelli di un particolare settore come quello lavoristico, ivi compresi gli strumenti deputati alla costituzione ovvero al trasferimento di funzioni da soggetti verticistici, quali la procura.

Pertanto, la nomina e l’attribuzione di specifici poteri al del RSPP non esonera automaticamente il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il provvedimento del Giudice del Lavoro sulla condotta antisindacale della Wartsila a Trieste

Pubblichiamo il provvedimento del Giudice del Lavoro di Trieste che sancisce l’antisindacalità della procedura di licenziamento collettivo adottata dall’Azienda.
L’antisindacalità trova la propria ragione d’essere nella mancata – carente informativa fornita dall’azienda.

Scarica il provvedimento

 

CASSAZIONE – Contenzioso di Lavoro e competenza del Giudice Fallimentare

Competono al Giudice Fallimentare le controversie che interessano in primo luogo un diritto patrimoniale del lavoratore.

Nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo “status” del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, al fine di garantire la parità tra i creditori, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale.

Lo ha ribadito il giudice di legittimità in una recente ordinanza. (Cass. civ. Sez. L, Ord. 22 agosto 2022, n. 25055)

SENTENZA CASSAZIONE – La prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i rapporti non dotati di stabilità reale.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione allunga i termini di prescrizione anche nelle grandi aziende che superano il numero di dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18 legge 300/70.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 6.9.2022 n.26246 in riforma a sentenza della Corte d’Appello di Brescia ha statuito come dopo le riforme che hanno reso solo eventuale il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente anche nelle aziende che superano le dimensioni previste dall’articolo 18 legge 300/70, abbiano comportato l’estensione a queste ultime del regime di decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ai crediti retributivi di lavoro si applica la prescrizione quinquennale siccome disposto dagli articoli 2948 n.4, 2955 n.2, 2956 n.1, del codice civile.

Nel 1966, la Corte Costituzionale( Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63),  dichiarava l’illegittimità di questi articoli nella parte in cui prevedevano il decorrere della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.

La Corte anche tenendo in considerazione il principio di irrinunciabilità della retribuzione in forza dell’articolo 36 della Costituzione e del fondato dubbio che il lavoratore fosse spinto a non agire contro il proprio datore di lavoro neppure inviando una lettera per l’interruzione della prescrizione, ebbe a ritenere la permanenza del rapporto di lavoro come ragione ostativa al decorrere della prescrizione.

Allorquando entrò in vigore lo statuto dei lavoratori , legge 300/70 che all’articolo 18 garantiva la reintegra nel caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di maggiori dimensioni, venne in parte meno questa ragione.

In tal modo, la permanenza del rapporto permaneva come ragione ostativa al decorrere della prescrizione soltanto per i rapporti che l’articolo 18 della legge 300/70 escludeva dalla reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. (Corte Costituzionale n. 174/1972).

Con l’entrata in vigore della legge n.92/2012 (legge Fornero) e del DLGS 23/2015 (Jobs Act) la stabilità reale del rapporto di lavoro con la conseguente reintegra in caso di licenziamento illegittimo divenne l’eccezione e non la regola.

Tornavano quindi attuali i dubbi sollevati dalla Corte Costituzionale nel 1966 che i lavoratori in assenza di una tutela reale, potessero essere indotti a non interrompere la prescrizione.

La sentenza oggi in esame ritiene come la mutata situazione renda attuale la situazione paventata a suo tempo dalla Corte Costituzionale e ritiene quindi che la prescrizione dei crediti di lavoro debba sempre decorrere dalla cessazione del rapporto.

Resta fermo come nei rapporti dotati di stabilità reale, come nel caso del pubblico impiego, la prescrizione continui a decorrere anche in costanza di rapporto.

Fabio Petracci

Di seguito, la motivazione della cennata decisione della Corte di Cassazione:

Motivi della decisione

  1. Con unico motivo, le ricorrenti deducono violazione degli artt. 29352948c.c., n. 4 L. n. 300 del 1970art. 18art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione del L. n. 300 del 1970 art. 18, con le riforme della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro: tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo. Esse stimano pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della L. n. 604 del 1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.

In via subordinata, le lavoratrici prospettano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate al L. n. 300 del 1970 art. 18, dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42 e dagli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 23 e 4.

  1. Esso è fondato.
  2. La questione devoluta, per la prima volta, a questa Corte è scolpita nella formulazione, in via subordinata, del quesito relativo al dubbio di incostituzionalità, in ordine alla permanenza (tuttora) della garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dal L. n. 300 del 1970art. 18, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1comma 42 della L. n. 92 del 2012 e dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. n. 143 del 1969n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), consenta il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.

Ed è questione che, senza accedere alla Corte costituzionale, ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla L. n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.

Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.

  1. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
  2. a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’ 36Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nel”la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto… per timore del licenziamento; cosicchè la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub p.to 3 del Considerato in diritto);
  3. b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte Cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1);
  4. c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi”: e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi n. 604 del 15 luglio 1966,  n. 300 del 20 maggio 1970, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).

4.1. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della L. n. 300 del 20 maggio 1970, (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dal L. n. 604 del 15 luglio 1966art. 8), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).

  1. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.

5.1. E’ risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.

Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dal L. n. 300 del 1970 art. 18, comma ottavo e 9, nel testo novellato dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, lett. b) e pure richiamato dall’art. 1, comma 3 D.Lgs. n. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara predeterminata e di semplice identificazione.

Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.

In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perchè i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.

Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, comma 1 Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.

Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, comma 1 Cost.:

ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione nè, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, p.to 4.2.).

  1. Ora, perchè del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
  2. a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli  29412942c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575Cass. 5 agosto 2019, n. 20918Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
  3. b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post ( s.u. 28 marzo 2012, n. 4942Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).

Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.

  1. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo del L. n. 300 del 1970art. 18, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore p.to 4).

7.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dal L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42, e poi dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, al L. n. 300 del 1970 art. 18 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’ applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2).

Sicchè, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al p.to 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 10.).

7.2. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 3 e 4, abbia ormai un carattere recessivo.

Nè tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59).

Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

7.3. Neppure si traggono argomenti significati ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.3).

Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1 (sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. 78 del 2018 art. 3, comma 1, conv. con mod. nella 1. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato… suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.

Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)’, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore… nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 9.2).

Sicchè, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

  1. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).

Ebbene, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

  1. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

  1. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicchè, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

P.Q.M.

La Corte:
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2022

Articolo 18 ed ipotesi di reintegra. Gli ultimi interventi della Consulta e della Suprema Corte.

L’articolo 18 quarto comma della legge 300/70 riconosce il diritto alla reintegra del lavoratore licenziato nel caso di insussistenza del fatto contestato.
Ciò avviene nel caso in cui non sussista proporzionalità alcuna tra la sanzione ed il fatto contestato, sia allorquando la contrattazione collettiva preveda per il caso contestato l’applicazione di una sanzione conservativa.
Interessante sul punto, Cassazione Sezione Lavoro 15 dicembre 2020 n.28630 in Il Lavoro nella giurisprudenza n.10, 1 ottobre 2021,p.943 con nota di Francesca Nardelli.
Come notato dall’autrice, la Corte di Cassazione con una pronuncia quanto mai sintetica affronta il tema della rilevanza da attribuire al fatto contestato ai fini del licenziamento disciplinare, nonché sulla valutazione giudiziale delle tipizzazioni contrattuali, nel caso in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento per irrilevanza disciplinare della condotta ed il CCNL preveda per la fattispecie contestata una mera sanzione conservativa.
Nel caso in commento, la Corte di Cassazione confermava l’illegittimità del licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegra sul presupposto in base al quale la fattispecie contestata in base al CCNL era risultata suscettibile della sola sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione, nella valutazione del fatto addebitato al lavoratore, ha aderito invece all’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui “l’insussistenza del fatto materiale va intesa come fatto disciplinarmente rilevante consistente in un comportamento astrattamente inadempiente corrispondente a quello considerato nella disposizione del codice disciplinare su cui di fonda la contestazione disciplinare elevata”.
Prevale in questo caso, l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza circa l’esatta portata da attribuire dopo le recenti riforme (Fornero e Jobs Act) all’espressione “insussistenza del fatto” ai fini della reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.
In un primo momento, la tutela consistente nella reintegra era limitata al solo caso dell’insussistenza sul piano materiale dell’addebito contestato.
Quindi il giudice avrebbe dovuto esclusivamente accertare sul piano fenomenologico l’esistenza del fatto contestato.
In questo orientamento alcuni dei principali autori (Persiani, Maresca, Vallebona).
Di seguito la giurisprudenza di legittimità ha fornito un diverso indirizzo chiarendo come l’insussistenza del fatto contestato comprenda anche le ipotesi della sussistenza materiale dello stesso priva però di valenza disciplinare (Cassazione n.20540/2015).
Di seguito, il legislatore mediante l’articolo 3 del DLGS 23/2015 aggiungeva alla parola “fatto contestato” il termine “materiale”.
Interveniva di seguito la pronuncia n.12174 del 2019 della Cassazione che ribadiva le conclusioni già prima assunte conferendo all’espressione insussistenza materiale del fatto contestato il significato di fatto non avente rilievo disciplinare ai fini del recesso.
Va notato inoltre che di recente la Corte Costituzionale con sentenza 1.4.2021 n.59 ha ritenuto confliggere con diverse disposizioni costituzionali e comunitarie il settimo comma dell’articolo 18 legge 300/70 nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo possa e non debba disporre la reintegrazione del lavoratore.
Fabio Petracci

CASSAZIONE – Somme percepite in buona fede dal lavoratore dipendente.

Cassazione, ordinanza interlocutoria 14.12.2021 n. 40004.

Somme percepite dai lavoratori dipendenti in buona fede. Vanno sempre restituite o si va verso l’irrepetibilità? Rimane in ogni caso la possibilità di ricorrere dopo tre gradi di giudizio alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 

La Corte di Cassazione di fronte all’impugnazione di un pubblico dipendente condannato a restituire alla Pubblica Amministrazione una somma percepita indebitamente a causa di un errore dell’amministrazione medesima, non ne accoglie il gravame, ma accertato che la somma era stata ricevuta in buona fede, tenendo conto del principio di affidamento, sottopone la questione alla Corte Costituzionale, perché ne valuti la legittimità costituzionale in ordine agli articoli 11 ( adesione a limitazioni di sovranità finalizzate a scopi di giustizia) e 117 rispetto dei vincoli di cui all’ordinamento comunitario.

La pronuncia della Cassazione parte dall’articolo 1 del Protocollo CEDU ove è enunciato il principio di protezione della proprietà così esplicato:

Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”

Ferme le problematiche aperte e connesse ai rapporti tra ordinamento costituzionale e protocolli CEDU (vedasi sul punto Federalismi.it 5 febbraio 2020, Ordinamento Costituzionale – Protocollo n.16 alla CEDU: Un quadro problematico.”), numerose pronunce della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo” hanno già affrontato temi identici in cui era parte anche l’Italia accogliendo la tesi della irripetibilità delle somme percepite in buona fede dal lavoratore.

Ci riferiamo in particolare alla sentenza della Prima Sezione dell’11 febbraio 2021 – Casarin / Italia.

Nel caso di specie, la ricorrente Casarin era stata chiamata a restituire all’INPS delle somme indebitamente percepite dopo un rilevante lasso di tempo senza che l’ente previdenziale avesse formulato riserva alcuna di ripetizione.

Nell’occasione la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva affermato il seguente principio:

La costante attribuzione nel tempo senza riserva di un emolumento, avente carattere retributivo non occasionale, ad un lavoratore in buona fede, operato dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro, ingenerante il legittimo affidamento del lavoratore sulla spettanza delle somme, impedisce la ripetizione di tale emolumento (benché indebito ai sensi delle diposizioni nazionali), in quanto tale ripetizione comporterebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione”.

Non vi è dubbio che anche qualora la Corte Costituzionale lasci intatta la portata dell’articolo 2033 del codice civile (ripetizione di indebito) che non considera in alcun modo la percezione di buona fede, il singolo cittadino potrà, una volta espletati tutti i gradi di giudizio, ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ottenendo ragione.

Avvocato Fabio Petracci