Un argomento che interessa in particolare i quadri, premi e detassazione di Raffaella Elia Consulente del Lavoro.

  • Detassazione dei premi di produvità Premi di risultato cosa sono e come vengono erogati:I premi di risultato o di produttività sono quelle somme aggiuntive della retribuzione che il datore dilavoro può decidere di erogare ai lavoratori al fine di fidelizzarli e con lo scopo di ottimizzare la prestazione di lavoro incitandoli ad una maggiore produttività.I premi di risultato affinchè possano essere erogati devono essere preventivamente stabiliti dall’azienda mediante contratti individuali, aziendali e/o territoriale (articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81accordi,)In altri casi i premi di risultati sono previsti da accordi sindacali.In questo modo l’azienda vuole che i lavoratori partecipino attivamente nella determinazione dei risultati e non vuole che questi siano imposti ma condivisi.Il*premio di risultato*è, dal punto di vista fiscale e previdenziale, una forma di retribuzione a tutti gli effetti e dunque su di esso il lavoratore dipendente deve pagare le tasse e l’aliquota contributiva spettante (ossia, l’imposta sul reddito delle persone fisiche) come sul resto dello stipendio ed il datore di lavoro deve pagarci i contributi previdenziali.Questo provocherebbe l’effetto contrario, quindi il lavoratore vedrebbe vanificato la gratificazione ela soddisfazione di avere una somma aggiuntiva e di conseguenza disincentivare la volontà di ottimizzare il lavoro e produrre di più.Per evitare questo tipo di situazione, la legge è intervenuta prevedendo una tassazione agevolata perle somme erogate come premio di risultatoL’agevolazione consiste nel fatto che, su queste somme, il dipendente pagherà una aliquota Irpef del10% e non la sua aliquota ordinaria (che è pari, minimo, al 23%).Affinché sia possibile applicare l’agevolazione è necessario che si verifichino determinate condizioni, ovvero:- L’aliquota agevolata del 10% è possibile applicarla per premi di produzioni non superiore a 3 mila euro, aumentandolo a 4 mila euro nel caso in cui vi sia il completo coinvolgimento ei lavoratori nell’organizzazione aziendale.- Se il premio di produttività supera le 3 mila euro ( 4 mila nel caso di coinvolgimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale) si applica per l’eccesso l’aliquota ordinaria;- La tassazione agevolata è possibile applicarla solo per quei lavoratori che nell’anno fiscale precedente hanno dichiarato un reddito non superiore a 80 mila euro.- il lavoratore deve dipendere da una ditta privata e non può usufruirne se è un dipendente pubblico;- per poter accedere all’agevolazione fiscale, deve essere stato previsto in unaccordo sindacale*tra azienda e organizzazioni sindacali. Restano dunque esclusi i premi di risultato stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, da contratti individuali di lavoro contratti aziendali di cui all’articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81.
  • Per i lavoratori che convertono il premio di risultato in misure di welfare aziendale, è prevista la detassazione totale così come previsto dal comma 4 art. 51 del TUIR .Dal 2017 i beni ed i servizi di welfare aziendale inclusi, e quindi che beneficiano della detassazione totale sono:- L’alloggio;- L’auto;- I finanziamenti a tasso agevolato;- I servizi di trasporto ferroviario;- La previdenza complementare;- L’assistenza sanitaria integrativa;- Gli investimenti in azioni.I servizi e i beni di welfare aziendali erogati al lavoratore, possono anche essere estesi agli altri componenti del nucleo familiare del lavoratore beneficiario del premio che quindi può essere trasformato in borse di studio da erogare a favore dei figli.

Insegnanti

I rischi che corre l’insegnante a tempo indeterminato che trova una nuova occupazione.

Scuola – Dimissioni – Decadenza dall’impiego – pregiudizi.

  1. Le dimissioni principi generali.

Le dimissioni nell’ambito del rapporto di lavoro sono contemplate in un quadro normativo abbastanza scarno.

Il riferimento va all’articolo 2118 del codice civile laddove si legge che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato [c.c. 1373], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità (4)(2).

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [c.c. 1750, 2948, n. 5].

La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Il principio compendiato in maniera chiara è quello dell’esercizio di un diritto potestativo che prescinde dalla volontà del soggetto del destinatario dell’atto a cui occorre solo far pervenire la relativa comunicazione.

Diverse sono poi le norme che tutelano il receduto allorquando esso è rappresentato dal lavoratore. 

La sostanziale libertà di recesso che poi ha trovato consistenti limiti nei confronti del datore di lavoro, rappresenta per quanto riguarda il prestatore di lavoro, una forma di rispetto nei confronti dell’articolo 4 della Carta Costituzionale che vuole consentire al lavoratore con contratto indeterminato di autodeterminare il proprio futuro professionale nell’ambito delle limitate occasioni di occupazione soddisfacente, offerte dall’attuale mercato del lavoro.

Il principio affermato in termini costituzionali della libera volontà del prestatore di lavoro si manifesta in primo luogo nella possibilità per le parti di negoziare limiti ragionevoli a tale potestà in ogni caso basati su principi di natura risarcitoria, potendo così legittimamente stipulare delle clausole di durata minima garantita garantite da una penale.

Ne discende, ad avviso chi scrive, un immanente e costituzionalmente garantito principio di libertà per il recesso del lavoratore che, sempre nel rispetto del dettato di cui all’articolo 4 della Carta Costituzionale ammette talune clausole di natura meramente risarcitoria.

  • Le dimissioni nel pubblico impiego contrattualizzato dopo la riforma avviata con il DLGS 29/93.
  1. La disciplina generale della materia (articolo 2, comma 2 del DLGS 165/2001, Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche (il cui personale non permane in regime di diritto pubblico come nel caso di Forze Armate, Magistratura , corpo docente universitario) sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, consentendo la deroga da parte della contrattazione collettiva alle norme di legge e di regolamento o statuto, che introducano specifiche discipline dei rapporti di lavoro.Il precedente testo unico degli impiegati civili dello Stato prevedeva oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro per varie fattispecie tra cui quella disciplinare, anche un’ulteriore ipotesi dove concorreva anche la volontà del dipendente.Era infatti prevista la decadenza dall’impiego in diverse ipotesi tra cui quella che si verificava nel caso in cui il dipendente senza giustificato motivo, non assumesse o non riassumesse servizio entro il termine prefissogli, ovvero fosse rimasto assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.Detta norma, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte n.20555 del 6.8.2018, è ancora vigente per quanto attiene l’ipotesi dell’incompatibilità che si verifica in forza dell’articolo 53 comma primo del DLGS 165/2001 laddove l’impiegato si trovi in condizione di incompatibilità e, diffidato dal cessare tale situazione, trascorsi 15 giorni dalla diffida, permanendo nella posizione incompatibile venga dichiarato decaduto.Dunque un ipotesi di cessazione per fatto concludente che non assume valenza disciplinare, ma da cui consegue l’istituto della decadenza dall’impiego.Secondo quanto motivato nella sentenza della Suprema Corte cui si è fatto cenno, tale ipotesi risolutiva continuerebbe ad esistere laddove la risoluzione del rapporto non consegua ad un fatto disciplinare il cui ambito di operatività normativa sarebbe invece il citato DLGS 165/2001 dagli articoli 55 e seguenti. (impianto disciplinare del pubblico impiego contrattualizzato).

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b. La normativa legale specifica della scuola il DLGS n.297/1994, articolo 510.

Il settore della Scuola pubblica è integralmente destinatario della normativa di cui al testo unico del pubblico impiego contrattualizzato e quindi dal DLGS 165/2001.

Quindi il rapporto di lavoro è integralmente contrattualizzato ed opera il complesso di norme in tema di risoluzione del rapporto di cui al codice civile ed alla contrattazione collettiva di comparto.

Sussistono comunque delle particolarità che nel caso in esame assumono rilevanza.

Trattasi in primo luogo del decreto legislativo 297 del 1994 che prevede specifiche normative in materia di istruzione scolastica e di personale insegnante. In proposito, l’articolo 510 (dimissioni) prevedeva per le dimissioni un termine in base al quale, le dimissioni presentate avevano efficacia esclusivamente dal 1° settembre successivo alla data in cui sono state presentate. Stabilisce inoltre la medesima norma che le dimissioni presentate dopo tale data, ma prima dell’inizio dell’anno scolastico successivo, hanno effetto dal 1° settembre dell’anno che segue il suddetto anno scolastico. Conclude l’articolo medesimo che il personale è tenuto a prestare servizio fino a quando non gli venga comunicata l’accettazione delle dimissioni.

La norma risulta abrogata dall’articolo 4, comma 1, DPR 28 aprile 1998 n.351.

Contestualmente, sulla base della legge 15.3.1997 n.59 articolo 20, comma 8, era emanato il DPR 28.4.1998 n.351 all’articolo 1 (cessazione dal servizio) dove era stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Era quindi aggiunto al comma 2 che con decreto del Ministro della pubblica istruzione è stabilito il termine entro il quale, annualmente, il personale di cui al comma 1 può presentare o ritirare la domanda di collocamento a riposo o di dimissioni.

Nel contempo, il contratto collettivo di comparto (Scuola) all’articolo 23 (termini di preavviso) stabilisce in caso di risoluzione del rapporto di lavoro dei termini di preavviso che vanno da 2 mesi a 4 mesi a seconda dell’anzianità di servizio.

Il problema aperto.

Ne deriva una situazione alquanto incongrua, in quanto, il dipendente che, ad esempio ha trovato un nuovo lavoro, si trova a dover rispettare il preavviso contrattuale cui abbiamo appena fatto cenno oltre al “preavviso” legale previsto dall’articolo 1 del DPR 28.4.1998 n.351 dove è stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Le dimissioni che non rispettano questi ultimi termini si appalesano inefficaci. In tal modo, il dipendente sarà tenuto a rendere la prestazione e due sono le ipotesi cui egli può andare incontro.

Da un lato, egli assumendo un nuovo lavoro si pone in posizione di incompatibilità con l’impiego in essere e rischia la decadenza, diversamente, gli potrà essere contestata l’assenza ingiustificata e comminato quindi il licenziamento disciplinare.

Trattasi di due ipotesi entrambi pregiudizievoli qualora il dipendente dimissionario debba affrontare un concorso pubblico.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 ai commi 8 e 9 prevede che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima.

Il successivo comma 9 prevede inoltre che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento.

Va anche notato che il medesimo contratto della scuola consente all’articolo 18 un’apposita fattispecie di aspettativa per avviare una nuova esperienza lavorativa e superare il periodo di prova presso un nuovo datore di lavoro.

Si giunge così al paradosso, dove il dipendente che ha ottenuto l’aspettativa per testare un nuovo rapporto di lavoro e si decida per quest’ultimo, sia costretto a riprendere il precedente impiego a pena di decadenza o di sanzione disciplinare.

Alcune soluzioni giurisprudenziali e la soluzione auspicata.

Casi del genere sono pervenuti all’attenzione della giurisprudenza anche della Suprema Corte la quale con sentenza del 12.2.2015 n.2795 proprio nello specifico caso delle dimissioni rese nell’ambito della scuola ha ritenuto che l’atto di recesso unilaterale è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto, a prescindere dall’accettazione del datore di lavoro, va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell’attività scolastica, che impongono che i termini per la presentazione delle domande siano individuati dalla normativa di riferimento, e che, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 6 novembre 1989, n. 357, convertito con modificazioni nella legge 27 dicembre 1989, n. 417, ne individuano la decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci le dimissioni di un collaboratore scolastico, presentate in data 26 marzo 2006, in relazione all’anno scolastico 2006-2007, in quanto presentate oltre il termine previsto dal d.m. 18 novembre 2005, n. 87, restando suscettibili di efficacia per la prima successiva data utile del 1° settembre 2007).

Di fronte all’inefficacia delle dimissioni, va approfondita la posizione del dipendente che le ha rassegnate.

Si ipotizza infatti a fronte della mancata presenza in servizio l’ipotesi della decadenza o del licenziamento per assenza ingiustificata.

Entrambi provvedimenti possono influire nel caso di partecipazione a concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione.

In primo luogo, ci si chiede se l’istituto della decadenza abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n.20555 del 6.8.2018 ha ribadito come l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, sia applicabile ai dipendenti di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome detta forma di decadenza costituita dall’aver assunto altro impiego incompatibile, attiene alla materia delle incompatibilità, essa è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Dunque continua ad applicarsi l’istituto della decadenza laddove il dipendente che assuma una posizione di impiego incompatibile non aderisca alla diffida dell’amministrazione a riprendere servizio.

La gran parte dei bandi di concorso per le pubbliche amministrazioni considera come causa di esclusione dalla partecipazione al concorso l’essere incorsi nella decadenza dall’impiego prevista dall’articolo 127 del DPR n.3 del 1957 Testo Unico del Pubblico Impiego considerato ancora vigente.

Esso prevede che l’impiegato incorre nella decadenza dall’impiego:

a) quando perda la cittadinanza italiana;

b) quando accetti una missione o altro incarico da una autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente;

c) quando, senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve (161);

d) quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile.

La decadenza di cui alle lettere c) e d) è disposta sentito il consiglio di amministrazione.

Va poi detto a completamento di quanto sopra che Va infine detto che a norma dell’ art. 128, comma 2 del D.P.R. n. 3/1957, l’impiegato decaduto ai sensi della lettera d) dell’art. 127, comma 1 dello stesso D.P.R. (quando cioè l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile) non può concorrere ad altro impiego nella Amministrazione dello Stato.

In realtà, molti bandi di concorso parlano tout court di decadenza ed in tali casi la conseguenza per il decaduto potrebbe essere sempre l’esclusione, a meno che non impugni il bando.

Sul punto è intervenuto la Corte Costituzionale con la sentenza del 27 luglio 2007 n.329 proprio nel caso specifico di un concorso per l’assunzione nella scuola, dove la concorrente era in precedenza stata dichiarata decaduta dall’impiego per aver reso false dichiarazioni sul proprio stato di salute, la Corte ha ritenuto che, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e della razionalità che deve governare il principio di eguaglianza, deve escludersi l’automatismo che determina l’esclusione dal concorso,

Ne discende afferma la Consulta,  la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

A maggior ragione deve ritenersi priva di alcuna ragione ed in palese violazione del diritto al lavoro l’esclusione di chi dopo un periodo di aspettativa decida di optare per il nuovo impiego e non sta in grado di rispettare il termine per lasciare il precedente impiego imposto dalla legislazione scolastica.

In casi del genere, il potenziale escluso, dovrà impugnare il bando che contempli una simile clausola di decadenza o comunque una clausola di decadenza generica che non specifichi l’ipotesi di cui all’articolo 128 punto 3 del DPR 3/1957.

Ancora più opportuna e consona all’evoluzione del rapporto di lavoro, una soluzione data dalla contrattazione collettiva che rispetti le esigenza della scuola e quelle della legittima ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Fabio Petracci.

Inapplicabilità del termine di decadenza ex art.32 c.4 legge 183/2010 nel caso il lavoratore non contesti ma persegua il di trasferimento d’azienda

Riportiamo di seguito la massima ed il testo integrale della sentenza n. 13648/2019 della Suprema Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso proposto dagli avv. Fabio Petracci ed Alessandra Marin.

In caso di trasferimento di azienda la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), della l. n. 183 del 2010, applicandosi tale disposizione ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità.

Cassazione civile sez. lav., 21/05/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 21/05/2019), n.13648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5553/2017 proposto da:

D.L., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO PETRACCI, ALESSANDRA MARIN;

– ricorrente –

contro

                   , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,                 , presso lo studio dell’avvocato L. M. C., che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

                   .;

– intimata –

avverso la sentenza n. 271/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 27/12/2016 R.G.N. 164/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

udito l’Avvocato FABIO PETRACCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 271 pubblicata il 27.12.16, in accoglimento dell’appello proposto da                       e                  e in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato inammissibile per intervenuta decadenza, ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, la domanda di D.L. di impugnazione della risoluzione del rapporto di lavoro con la                ; ha respinto l’appello incidentale con cui era stata riproposta l’impugnazione del contratto a termine concluso con                   ed ha accertato l’insussistenza di un vincolo di solidarietà tra quest’ultima società e la             per il pagamento del trattamento di fine rapporto maturato dalla lavoratrice nel rapporto di lavoro intercorso con ciascuna delle appellanti.

2. La Corte territoriale ha premesso in fatto come la D. fosse stata dipendente dell’             . dall’8.11.99; che a partire dal 4.2.13 la stessa era stata distaccata, insieme alle colleghe V.L. e V.E., presso la sede della                   ; che il 30.6.13 la stessa aveva risolto consensualmente il rapporto di lavoro con                    e dall’1.7.13 era stata assunta con contratto a tempo determinato da               ; analoga sorte avevano avuto le due colleghe, che avevano cessato il rapporto di lavoro con la                 ed erano state assunte a tempo determinato dalla             

3. La sentenza d’appello ha ritenuto che l’impugnativa stragiudiziale proposta dalle lavoratrici, tra cui la D., avente ad oggetto i distacchi, l’asserito trasferimento d’azienda e i contratti a termine, in quanto pervenuta alle società appellanti nelle date 13 e 14 gennaio 2014 non fosse rispettosa del termine di decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 e fosse quindi tardiva. Ha sottolineato come il dies a quo del termine di 60 giorni per l’impugnativa stragiudiziale, in una fattispecie come quella in esame in cui non vi era un atto formale di trasferimento di azienda, dovesse individuarsi nel momento in cui il predetto trasferimento, invocato dalla lavoratrice, fosse stato nei fatti esteriorizzato. Ha precisato che tale momento dovesse coincidere con l’inizio del distacco, che la lavoratrice assumeva come simulatorio di un trasferimento di azienda, e che in ogni caso la decorrenza dei 60 giorni non potesse traslarsi in avanti oltre la formale assunzione alle dipendenze della società           , posto che in questo momento risultava certa la cessazione del rapporto di lavoro con              e l’inizio di un autonomo rapporto con l’altra società, a tempo determinato.

4. Nel respingere l’appello incidentale della lavoratrice, la Corte di merito ha dato atto di come il primo contratto a termine fosse stato concluso nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che ne consentiva la stipulazione senza indicazione della causale giustificativa.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la D. affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso la                .

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso la sig.ra D. ha censurato la sentenza per violazione della L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis e dell’art. 2112 c.c..

2. Ha contestato il ragionamento della Corte di merito secondo cui il lavoratore che agisca per far accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda ed invochi il passaggio in capo al cessionario del proprio rapporto di lavoro, debba formulare un’impugnazione ai sensi del citato art. 32, pur in assenza di un provvedimento datoriale da impugnare.

3. Ha sostenuto come la L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis, che ha esteso la disciplina di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, come modificato, alla “cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento”, dovesse trovare applicazione nella sola ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”; con la conseguenza non solo che il termine di decadenza non potrebbe decorrere in mancanza di comunicazione della “cessione del contratto” per effetto del trasferimento d’azienda ma che l’ipotesi del lavoratore che intendesse avvalersi dell’avvenuta “cessione” sarebbe estranea alla previsione di cui alla lett. c).

4. Secondo la ricorrente, il caso in esame non potrebbe neanche essere ricondotto dell’art. 32 cit., lett. d), che comunque presuppone l’impugnativa della risoluzione del rapporto di lavoro formale, anche se unitamente all’accertamento della costituzione del rapporto in capo a soggetto diverso, risultando non conforme a Costituzione (Corte Cost. n. 143 del 1969) il decorso del termine di decadenza in costanza di rapporto.

5. Ha censurato l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto maturata la decadenza anche in relazione all’impugnativa del contratto a termine ed ha sottolineato come il dies a quo di decorrenza del termine dovesse individuarsi nella data di scadenza del contratto, nel caso di specie il 31.12.13 (con proroga fino al 30.6.14), risultando tempestiva l’impugnativa stragiudiziale con lettera dell’8.1.14.

6. Ha affermato l’illegittimità del contratto a termine, se pure acausale, in quanto stipulato da chi, in base all’avvenuto trasferimento di azienda, doveva considerarsi già datore di lavoro.

7. Il motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento quanto alla censura di violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c).

8. La questione in diritto che occorre affrontare attiene all’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), all’ipotesi in cui il lavoratore, sul presupposto della configurabilità di un trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., chieda l’accertamento del passaggio del proprio rapporto di lavoro in capo al cessionario.

9. La Corte d’appello di Trieste ha ritenuto tale fattispecie ricompresa nella previsione della citata lett. c) dell’art. 32 e, nel caso in esame, verificata la decadenza per essere stata tardivamente proposta la relativa impugnativa stragiudiziale.

10. Questa Corte reputa erronea l’interpretazione data dalla Corte di merito.

11. La L. n. 183 del 2010, art. 32, ha esteso ad una serie di ipotesi ulteriori la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 6(previamente modificato) sull’impugnativa stragiudiziale, originariamente limitata al licenziamento.

12. I commi 3 e 4 del citato art. 32 sono formulati proprio nel senso di estendere (“le disposizioni di cui all’art. 6… si applicano anche..”) alle ipotesi ivi specificamente elencate l’onere di impugnativa stragiudiziale nei sessanta giorni.

13. Posto che impugnare equivale a contestare o confutare, l’estensione attuata dal citato art. 32, deve intendersi come diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda, appunto, impugnare, nel senso di contestarne la legittimità o la validità.

14. Con la conseguenza che fuoriescono dal perimetro del citato art. 32, tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, per denunciarne la nullità o l’illegittimità.

15. Questa Corte (Cass. n. 13179 del 2017) ha, ad esempio, escluso che fosse assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 cit. l’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante nell’ipotesi di cambio di gestione dell’appalto con passaggio dei lavoratori all’impresa nuova aggiudicatrice; si è affermato come tale fattispecie non rientrasse “nella previsione di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d’azienda, nè in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; detta norma presuppone, infatti, non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale”.

16. L’analisi delle ipotesi enumerate dall’art. 32, avvalora la ricostruzione proposta. Il comma 3 sottopone all’onere di impugnativa stragiudiziale, oltre al licenziamento (e al contratto a termine, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 81 del 2015), il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa” anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3), ed il trasferimento disposto ai sensi dell’art. 2103 c.c..

17. Dell’art. 32, comma 4, include, tra l’altro, “la cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento” (lett. c) e “ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto” (lett. d).

18. Anche dell’art. 32, comma 4, al pari del comma 3, estende l’onere di impugnativa stragiudiziale a specifici provvedimenti datoriali, quali appunto il passaggio del rapporto di lavoro del dipendente in capo al cessionario per effetto del trasferimento d’azienda deciso dal datore (dovendo intendersi in senso atecnico, estraneo cioè alla previsione degli artt. 1406 c.c. e segg., il riferimento alla “cessione del contratto” contenuto nella lett. c) dell’art. 32, logicamente incompatibile con l’art. 2112 c.c.), e le fattispecie interpositorie che, se pure azionabili attraverso una domanda di costituzione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore, sono logicamente legate alla contestazione del rapporto fittizio costituito con il soggetto interposto (lett. d).

19. L’interpretazione dell’art. 32, come sopra delineata si impone, oltre che per la coerenza con i criteri letterale e logico sistematico, anche in ragione dell’esigenza di una lettura rigorosa della disposizione suddetta che ha introdotto, per fattispecie prima sottoposte unicamente ai termini di prescrizione, un nuovo e ristretto termine di decadenza per l’impugnativa stragiudiziale e per la successiva azione in giudizio (cfr. Cass. n. 13179 del 2017 in motivazione; Cass., S.U. n. 4913 del 2016).

20. D’altra parte, se si seguisse la tesi della Corte di merito e si ritenesse sottoposta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), la domanda volta ad ottenere il riconoscimento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., risulterebbe oltremodo difficile stabilire il dies a quo di decorrenza del termine; la stessa sentenza impugnata ha individuato in modo impreciso e alternativo tale dies a quo “nel momento in cui il… trasferimento risulta, nei fatti, esteriorizzato”, e lo ha collegato al distacco della dipendente (sul presupposto della simulazione dello stesso) oppure alla conclusione del contratto (a termine) con la società che la lavoratrice assume cessionaria.

21. In conclusione, la previsione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), deve intendersi come relativa alle ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”, o meglio il passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario per effetto di un trasferimento d’azienda posto in essere dal suo datore di lavoro, mentre restano estranee alla stessa le ipotesi in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento d’azienda (formalmente deliberato dal datore di lavoro cedente) e quindi ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario oppure chieda di accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda che assuma realizzato in fatto, come nel caso di specie, e quindi la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario.

22. Tale conclusione non esclude l’onere di impugnare i provvedimenti datoriali che siano compresi nell’elenco di cui all’art. 32 cit., o il cui onere di impugnativa sia altrimenti previsto (cfr. art. 2113 c.c.), eventualmente posti in essere al fine di mascherare il trasferimento d’azienda che il lavoratore assuma, nei fatti, realizzato.

23. Nel caso in esame, è fondata anche la censura mossa alle statuizioni della sentenza d’appello sul contratto a tempo determinato concluso dalla ricorrente con la                   , quanto alla erronea individuazione del dies a quo del termine per l’impugnativa stragiudiziale.

24. Ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. d), “Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre… d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1,2 e 4 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo”.

25. Il dies a quo deve essere individuato nella scadenza del termine e non nella data di conclusione del contratto a tempo determinato; la Corte di merito ha male applicato la disposizione in esame in quanto ha giudicato tardiva l’impugnativa stragiudiziale del 13-14 gennaio 2014 in relazione al contratto concluso tra la ricorrente e la           l’1.7.2013, con scadenza il 31.12.2013.

26. La residua censura che desume l’illegittimità dell’apposizione del termine, nonostante l’applicazione ratione temporis del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che legittimava la stipulazione di contratti a termine acausali, dagli effetti del dedotto trasferimento di azienda, deve ritenersi assorbita in ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso in ordine alla violazione dell’art. 32, comma 4, lett. c) cit..

27. Per le considerazioni finora svolte, il ricorso deve trovare accoglimento in relazione alle censure come sopra esaminate, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi sopra enunciati, oltre che alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2019

Il manifesto dei quadri, un contratto con le specificità della categoria.

di Fabio Petracci e Alberto Tarlao

LA CATEGORIA DEI QUADRI INTERMEDI: PROPOSTE PER UN AGGIORNAMENTO DELLA DISCIPLINA LEGALE CON RIFERIMENTO ANCHE ALLA CATEGORIA DEI RICERCATORI DELLE AZIENDE PRIVATE

UN CONTRATTO-TIPO PER I QUADRI

Fabio Petracci e Alberto Tarlao

Studio Legale Petracci Marin – Trieste

Indice

Introduzione…………………………………………………………………………………………………………….1

La categoria dei quadri: definizione legale…………………………………………………………………2

Principali pronunce giurisprudenziali………………………………………………………………………. 6

La questione del mancato riconoscimento dei quadri nel pubblico impiego…………………..16

La proposta di un contratto-tipo per i quadri…………………………………………………………….25

Conclusioni…………………………………………………………………………………………………………..42

Ringraziamenti………………………………………………………………………………………………………43

Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………..44

Indice sentenze citate in ordine cronologico……………………………………………………………..45

Introduzione

Il presente lavoro si prefigge come obiettivo quello di analizzare la categoria di lavoratori subordinati individuabile nei quadri intermedi.

Punto di partenza è costituito dall’esame della vigente disciplina normativa, ovvero della legge 190/1985, che ha introdotto la categoria dei quadri intermedi nell’ordinamento italiano modificando l’art. 2095 del c.c.

Segue poi una breve analisi delle principali pronunce giurisprudenziali in tema, al fine di meglio delineare le caratteristiche proprie della categoria.

Successivamente interviene una breve disamina della questione relativa al pubblico impiego, oltre ad una valutazione sull’esperimento riguardante l’esperienza della c.d. vice-dirigenza e della disciplina delle posizioni organizzative.

            Una volta fissati con maggior precisione i termini della questione, vengono evidenziate le caratteristiche tipiche dei quadri e viene proposto uno schema di contratto-tipo aziendale applicabile a quadri, professionisti e ricercatori, composto di 15 articoli che coprono gli elementi maggiormente rilevanti del rapporto di lavoro.

La categoria dei quadri: definizione legale

Come noto, l’art. 2095 del codice civile stabilisce che: I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai.

Le leggi speciali [e le norme corporative], in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie”.

Tuttavia, la versione originale del predetto articolo non contemplava, all’interno dei lavatori subordinati, la categoria dei quadri. Ed in effetti solo con la legge n. 190 del 1985, “Riconoscimento giuridico dei quadri intermedi” è stato modificato il testo dell’art. 2095 c.c., proprio al fine di inserire la categoria dei quadri intermedi, posta tra quella degli impiegati e quella dei dirigenti. A questo scopo, l’art. 1 di tale legge prevede espressamente che “Il primo comma dell’articolo 2095 del codice civile è sostituito dal seguente:

«I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai»”.

Ebbene, l’art. 2 della legge 190/1985, diviso in tre commi, dispone che: “1. La categoria dei quadri è costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa.

2. I requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa.

3. Salvo diversa espressa disposizione, ai lavoratori di cui al comma 1 si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati”.

Appare chiaro fin da subito che la definizione di quadro contenga solo il principio generale per il quale sono classificati come quadri quei lavoratori che, sebbene non appartenenti alla diversa categoria dei dirigenti, svolgano continuativamente funzioni di notevole importanza con riguardo agli obiettivi dell’impresa. Il secondo comma opera un rinvio alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la fissazione dei requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri. Di capitale importanza risulta poi il comma 3, che funge da norma di chiusura del sistema, stabilendo che ai quadri intermedi, salvo diversa ma espressa disposizione, si applichino le norme riguardanti la categoria degli impiegati.[1]

Proprio in considerazione di quanto appena considerato, l’art. 3 dispone che: “In sede di prima applicazione, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, le imprese provvederanno a definire attraverso la contrattazione collettiva l’attribuzione della qualifica di quadro, così come previsto e con le modalità stabilite dall’articolo 2, comma 2, della presente legge”.

Il successivo art. 4, “Ferme restando le disposizioni di cui al libro V, titolo IX, del codice civile e le leggi speciali vigenti in materia, i contratti collettivi possono definire le modalità tecniche di valutazione e l’entità del corrispettivo economico della utilizzazione, da parte dell’impresa, sia delle innovazioni di rilevante importanza nei metodi o nei processi di fabbricazione ovvero nell’organizzazione del lavoro, sia delle invenzioni fatte dai quadri, nei casi in cui le predette innovazioni o invenzioni non costituiscano oggetto della prestazione di lavoro dedotta in contratto”, è rivolto dunque a concedere ancora maggior margine di operatività alla contrattazione collettiva, seppur nei limiti previsti dal codice civile e delle leggi speciali.

Procedendo nell’esame della legge 190/1985, l’art. 5 della stessa prevede uno specifico adempimento a carico dei datori di lavoro con riguardo alla categoria dei quadri: si tratta dell’obbligo di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi del lavoratore conseguente a colpa nello svolgimento delle mansioni; questo il contenuto dell’art. 5: “Il datore di lavoro è tenuto ad assicurare il quadro intermedio contro il rischio di responsabilità civile verso terzi conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie mansioni contrattuali. La stessa assicurazione deve essere stipulata dal datore di lavoro in favore di tutti i propri dipendenti che, a causa del tipo di mansioni svolte, sono particolarmente esposti al rischio di responsabilità civile verso terzi”.

L’ultimo articolo della legge 190/1985, l’art. 6, disponeva che: “In deroga a quanto previsto dal primo comma dell’art. 2103 del codice civile, come modificato dall’art. 13, L. 20 maggio 1970, n. 300, l’assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori di cui all’articolo 2 della presente legge ovvero a mansioni dirigenziali, che non sia avvenuta in sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, diviene definitiva quando si sia protratta per il periodo di tre mesi o per quello superiore fissato dai contratti collettivi”, maè stato abrogato dall’art. 3, comma 2, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, ai sensi di quanto disposto dall’art. 57, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 81/2015.

L’art. 3 comma 1 del D.Lgs. 81/2015 è dedicato alla disciplina delle mansioni. Nello specifico, sostituisce il previgente testo dell’art. 2103 del codice civile, ora applicabile anche alla categoria dei quadri, con il seguente: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo.”

In questa sede, in considerazione della rilevanza e dell’ampiezza del tema riguardante la disciplina dettata dal nuovo art. 2103 c.c. in tema di mansioni,[2] ci si limiterà a ribadire come l’intervento del legislatore abroghi la disciplina riguardante le mansioni specificamente prevista per i quadri dall’art. 6 della legge 190/1985, rendendo di conseguenza applicabile alla predetta categoria la disciplina prevista per operai ed impiegati e contenuta nel novellato art. 2103 del codice civile.

Principali pronunce giurisprudenziali

In considerazione dell’ampio rinvio nel definire e determinare i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri intermedi alla contrattazione collettiva previsto dall’art. 2 della legge 190/1985, era prevedibile che dovesse intervenire la giurisprudenza di legittimità per delineare meglio ambito e contorni del predetto rinvio.

La sentenza n. 8060/1998 della Corte di Cassazione risolve il problema dei rapporti tra la contrattazione collettiva nazionale e quella aziendale, stabilendo che l’art. 2 della legge 190/1985 non fissa alcun rapporto di gerarchia tra i predetti livelli di contrattazione, per cui la contrattazione collettiva aziendale può derogare alla contrattazione collettiva nazionale al fine di determinare i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri intermedi. Così la massima: “L’ art. 2 l. 13 maggio 1985 n. 190, istitutiva della categoria dei quadri intermedi, nel demandare alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale la determinazione dei requisiti di appartenenza alla suddetta categoria (che non presuppone necessariamente lo svolgimento di funzioni direttive), non fissa alcun rapporto di gerarchia fra i due livelli di contrattazione; ne consegue che la contrattazione collettiva aziendale ben può derogare a quella nazionale nel determinare i suddetti requisiti. (Principio affermato con riferimento all’art. 4 c.c.n.l. 19 marzo 1987 per i dipendenti delle casse di risparmio)”.[3]

La successiva sentenza n. 275/1999, sempre della Suprema Corte Sezione Lavoro, conferma che il tipo di funzioni assegnato in via astratta dalla legge 190/1985 ai quadri è destinato ad operare solo in assenza di norme contrattualistiche collettive che dettino apposita disciplina al riguardo. Infatti, nel caso il contratto collettivo regoli diversamente la materia, sarà esso a prevalere sui criteri fissati in via generale dalla soprindicata norma legislativa. Questa la massima: “Il principio enunciato dall’ art. 2, comma 2, della l. n. 190 del 1985 secondo cui i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono previsti dalla contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) trova applicazione anche quando la suddetta contrattazione sia intervenuta in ritardo rispetto all’anno previsto dalla stessa legge. Infatti ritenere che in simile ipotesi debba farsi riferimento alle indicazioni contenute nel comma 1 dello stesso art. 2 (che ha solo carattere residuale applicandosi esclusivamente nell’ipotesi, anomala e transitoria, in cui la contrattazione collettiva non abbia affatto provveduto) per retrodatare il momento iniziale di appartenenza alla categoria in oggetto implica la disapplicazione dell’art. 2, comma 2, cit. il quale attribuisce carattere esclusivo all’indicato criterio. (Fattispecie relativa ad un contratto aziendale intervenuto il 31 maggio 1989)”.[4]

Ulteriore importante sentenza della Cassazione è la numero 21652/2006, la quale stabilisce che il diritto al riconoscimento della qualifica di quadro intermedio spetta anche qualora la contrattazione collettiva non abbia provveduto né a livello nazionale né aziendale, a stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria; ancora, viene censurata l’interpretazione dei giudici di merito che avevano desunto i predetti criteri interpretando requisiti tipici della figura del dirigente, quali la gestione diretta dei rapporti con terzi e la capacità di impegnare direttamente l’azienda, mentre ex lege ai quadri devono essere applicate le norme riguardanti la categoria degli impiegati. Così la massima: Il diritto al riconoscimento della qualifica di “quadro”, istituita dalla legge 13 maggio 1985 n. 190, è configurabile anche se, entro l’anno dall’entrata in vigore della legge, la contrattazione non abbia provveduto, a norma degli artt. 2 e 3, a stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria, che, in tal caso, vanno desunti dalle specifiche indicazioni poste dalla legge, considerando che la categoria dei quadri non appartiene alla categoria dei dirigenti e che ai quadri, salvo diversa disposizione, si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati (art.2, commi 1 e 3 legge n.190 del 1985). (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito, nel desumere i requisiti di appartenenza alla categoria quadri, non aveva correttamente interpretato la norma, aggiungendo, all’unico requisito richiesto “ex lege”, requisiti tipici della figura del dirigente, quali la gestione diretta dei rapporti con i terzi e la capacità di impegnare direttamente l’azienda).[5]

Frequenti sono le cause nelle quali i prestatori di lavoro subordinato inquadrati nella categoria degli impiegati ricorrono all’autorità giudiziaria per vedersi accertato il riconoscimento di mansioni tali da rientrare nella categoria dei quadri intermedi; sul tema verranno esaminate due recenti pronunce della Suprema Corte. La sentenza 21431/2015 della Corte di Cassazione prevede che: “Nel caso in esame, i giudici del merito, hanno operato il confronto tra le mansioni accertate e quelle descritte come proprie dei quadri. La norma, di riferimento è stata correttamente individuata nell’art. 66 del C.C.N.L. 1999 e anche l’interpretazione offerta è rispettosa del dato letterale oltre che del significato complessivo della clausola nel contesto delle altre.

Dalla lettura della disposizione, la Corte territoriale ha desunto che il discrimine tra la qualifica impiegatizia – la cui connotazione è data dallo svolgimento di attività caratterizzate da contributi professionali operativi e o specialistici che richiedono applicazione intellettuale eccedente la semplice diligenza di esecuzione, nonchè da una delimitata autonomia funzionale nelle decisioni, di solito circoscritte da direttive superiori o da prescrizioni normative, modalità o procedure definite dall’azienda (art. 78 ccnl 1999) – e quella di quadro è dato dalla “qualità professionale” della prestazione, la quale richiede per il quadro (così il testo della norma) “mansioni che comportino elevate responsabilità funzionali ed elevata preparazione professionale e/o particolari specializzazioni e che abbiano maturato una significativa esperienza, nell’ambito di strutture centrati e/o nella rete commerciale, ovvero elevate responsabilità nella direzione, nel coordinamento e/o controllo di altri lavoratori/lavoratrici appartenenti alla presente categoria e/o alla 3^ area professionale, ivi comprese le responsabilità connesse di crescita professionale e verifica dei risultati raggiunti dai predetti diretti collaboratori”.

Nel caso in esame, l’espressione è chiara e coerente con le altre disposizioni, nè tale chiarezza e coerenza appaiono scalfite dalle tesi della ricorrente, giacché anche a voler sostenere che con l’uso di tale verbo le parti abbiano voluto far riferimento alla “idoneità”, ovvero alla “capacità” del quadro di esercitare poteri negoziali nei confronti dei terzi, ciò non significa che tali poteri – che pur possono essere attribuiti, come si desume dall’espressione “possono prevedere” – siano imprescindibili per l’inquadramento del lavoratore nella qualifica in esame. Inconferente è poi il richiamo alla L. n. 190 del 1985, art. 5 in difetto di una necessaria consequenzialità logica tra il potere di firma e l’obbligo del datore di lavoro di assicurare il quadro contro il rischio di responsabilità civile verso terzi in caso di colpa nello svolgimento delle proprie mansioni contrattuali, responsabilità che può evidentemente ipotizzarsi anche con riferimento a mansioni che non implichino il potere di negoziare con terzi (si pensi ad esempio, al parere espresso negligentemente nell’esercizio dell’attività di consulenza, o nell’errato controllo di una parcella, ovvero nella negligente escussione di una garanzia). Ne è conferma il fatto che la norma citata prevede che “la stessa assicurazione deve essere stipulata dal datore di lavoro in favore di tutti i propri dipendenti che, a causa del tipo di mansioni svolte, sono particolarmente esposti al rischio di responsabilità civile verso terzi”, e tanto è sufficiente ad escludere l’inscindibile nesso prospettato dalla ricorrente tra poteri negoziali – responsabilità civile – qualifica di quadro. Appare poi di scarsa chiarezza l’ulteriore osservazione della ricorrente, secondo cui, a voler seguire la tesi della Corte d’appello, non avrebbe avuto alcun senso escludere, sul piano dell’attribuzione della qualifica di quadro, i poteri di firma di carattere meramente certificativo o dichiarativo, come dispone l’ultimo inciso della norma in esame. Anche qui, pur nella non limpida formulazione della norma collettiva, il tenore letterale è chiaro e depone nel senso che – ferma la facoltà della banca di riconoscere o meno al quadro il potere negoziale verso terzi – esso non può comunque mai identificarsi nel potere di rilasciare firme di carattere certificativo o dichiarativo, le quali pertanto non hanno valore caratterizzante della qualifica”.[6]

La recentissima sentenza 19770/2016, sempre in tema di riconoscimento di mansioni superiori sollevato da un impiegato e quindi a contrario riguardante i requisiti per rientrare nella categoria dei quadri intermedi, prevede che: “Secondo la Corte torinese, previo esame delle declaratorie relative all’area 4^ per i tecnici qualificati e alla ottava categoria per l’Area 5^ – quadri, doveva escludersi che il G. esercitasse una qualche funzione di raccordo tra la struttura dirigenziale ed il restante personale, funzione ritenuta assolutamente tipica per la figura del quadro, avuto altresì riguardo alla L. n. 190 del 1985, che aveva riconosciuto i quadri intermedi. Non risultava, in particolare, che il ricorrente rivestisse nell’ambito aziendale una posizione (organizzativa o funzionale), tale da porsi come sostanziale intermediario tra i dirigenti di RTI ed il personale non quadro, e da trovarsi, quindi, rispetto a questo, in posizione di sostanziale sovraordinazione gerarchica. Tanto non emergeva né dalla prodotta ed acquisita documentazione, né dall’istruttoria testimoniale. Correlativamente, non risultava provato che nello svolgimento della sua attività il G. coordinasse, vigilasse o gestisse risorse, contrariamente invece a quanto previsto dalla declaratoria relativa al quadro di ottava categoria.

Quanto, poi, alla “facoltà di rappresentanza”, non poteva accogliersi una nozione lata di tale concetto, laddove diversamente opinando detta facoltà poteva essere riconosciuta ad un qualunque dipendente della società che si trovasse, nello svolgimento dei suoi compiti, a relazionarsi con terzi, mentre proprio la declaratoria dl quadro di 8^ ctg. prevedeva la suddetta facoltà unicamente per i quadri; inoltre, tale declaratoria specificava che lo svolgimento di tutte le relative attività avveniva in un ambito di autonomia decisionale, sebbene nei limiti delle direttive generali; ne derivava la possibilità di assumere autonomamente decisioni idonee ad impegnare giuridicamente parte datoriale. Quindi, se anche l’attività di rappresentanza dell’ente doveva svolgersi nel suddetto ambito, ciò comportava che intanto poteva riconoscersi al G. il superiore inquadramento in quanto fosse stato dimostrato che egli, nello svolgimento della sua attività, avesse potuto assumere autonomamente decisioni idonee ad impegnare la società. Ciò che non risultava in atti sufficientemente provato, per le ragioni dettagliatamente Indicate dai giudici di appello, anche con specifico riferimento ai documenti prodotti, il cui esame non consentiva di riscontrare l’esercizio, quanto meno frequente da parte del G., di poteri decisionali di un qualche apprezzabile rilievo, attestanti, in realtà, più che un’autonomia decisionale, l’esercizio da parte dell’attore di autonomia e di controllo operativo, elementi questi però espressamente previsti dalla declaratoria relativamente al tecnico qualificato di area 4^.

Pertanto, evidenziando che i lavori seguiti dal G. riguardavano principalmente la realizzazione di cabine di trasformazione, che pur con le necessarie differenziazioni, obbedivano ad una certa standardizzazione, la Corte di Appello non riteneva provato che l’attività ordinariamente disimpegnata dal ricorrente possedesse i requisiti richiesti dalla contrattazione collettiva per l’Area 5^ quadri, in ordine alla quale occorreva anche una responsabilità diretta sui risultati dell’attività svolta.

D’altro canto, contrariamente alle affermazioni di parte ricorrente, dopo aver riportato le declaratorie di riferimento, previste dal c.c.n.l. 1990/92 (pg. 7 e 8), la sentenza impugnata aggiungeva che, come pure osservato dal Tribunale, non era dissimile la descrizione dell’area 5^ quadri dell’accordo di ridefinizione dei profili professionali del 26-7-1991 (v. doc. 5 G. e doc. 7 RFI) e del livello 8-quadri del successivo c.c.n.l. 16-04-2003 per il personale ferroviario (v. doc. 8 RFI). Pertanto, correttamente il Tribunale aveva dunque individuato, partendo dalla definizione del quadro ex L. n. 190 del 1985 , quali fossero i requisiti qualificanti di tale ruolo: funzione di raccordo tra la struttura dirigenziale ed il restante personale, facoltà di rappresentanza dell’azienda, sovrintendenza, coordinamento e gestione elle risorse, elevato contenuto specialistico dell’attività, ambito di autonomia decisionale per concorrere agli obiettivi fissati dalla società, diretta responsabilità dei risultati.

In proposito, la sentenza de qua ha tra l’altro evidenziato che era comunque il direttore dei lavori a firmare gli ordini di servizio, essendo costui responsabile nei confronti dei terzi, mentre il ricorrente, in caso di errori o di negligenze avrebbe dovuto risponderne al direttore dei lavori. Sottolineavano, altresì, i giudici dell’appello che i lavori seguiti dal G. (perito elettrotecnico) riguardavano principalmente la realizzazione di cabine di trasformazione, che, come confermato dai testi, pur con le necessarie differenziazioni, obbedivano ad una certa standardizzazione. Pertanto, la Corte non riteneva provato che l’attività ordinariamente prestata dall’appellante possedesse i requisiti richiesti dall’Area 5-quadri e che esulasse, pertanto, da quella propria del tecnico di area 4^ e del profilo di segretario tecnico superiore.[7]

            Quelle citate sono solo alcune, tra le più recenti, delle molteplici occasioni nelle quali la Suprema Corte è dovuta intervenire in materia di riconoscimento di mansioni superiori che comportassero il passaggio dalla categoria degli impiegati a quella dei quadri.

            Parimenti, la labilità della definizione di quadro introdotta dalla legge 190/1985 ha portato ad un fiorente contenzioso instaurato da lavoratori appartenenti alla categoria dei quadri per vedersi riconosciuto l’inquadramento nella superiore categoria dei dirigenti. Anche con riguardo a tale prospettiva analizzeremo due sentenze, una di merito ed una di legittimità, tra le più recenti.

            La prima è una sentenza della Corte d’Appello di Potenza, decisa in data 05.11.2015, che traccia una netta e chiara distinzione tra quadro intermedio e dirigente, nei seguenti termini: “Il D., pacificamente inquadrato al massimo livello della categoria dei quadri (Quadro Direttivo IV livello), ha chiesto il riconoscimento della qualifica di dirigente a partire dal marzo del 1995, sostanzialmente per due ragioni: a) per aver svolto l’incarico di segretario degli organismi collegiali della banca (Consiglio di Amministrazione, Comitato Esecutivo ed Assemblea dei soci), avendo la responsabilità dell’apposito ufficio di segreteria; b) per essersi visto così assegnato un ruolo normalmente ricoperto, anche in altre aziende di credito, dal Direttore generale o dall’Amministratore delegato.

Ritiene la Corte di formulare le seguenti specificazioni:

I) il livello di quadro riconosciuto al D. (dunque, di appartenente al personale impiegatizio della fascia più elevata, formata da lavoratori che, “pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obbiettivi di impresa”, secondo la definizione della categoria di quadro data dall’ art. 2 co. 1 della L. n. 190 del 1985) appare del tutto congruo alle mansioni di segretario degli organi collegiali bancari dall’appellante rivestito per circa un decennio. Tale ruolo, se pur connotato da compiti di rilevante responsabilità -tra i quali la tenuta dei rapporti con altre aziende di credito, enti istituzionali vari ed autorità di vigilanza bancaria; la verbalizzazione delle sedute del C.d.A., del Comitato Esecutivo e dell’Assemblea dei soci; la cura dell’esecuzione dei loro deliberati; la custodia degli atti ufficiali degli organismi medesimi, et similia-, appare sfornito di un vero e proprio potere gestorio, afferendo ad una figura non preposta all’intera azienda o anche solo ad un ramo o ad un servizio di particolare rilevanza in posizione di sostanziale autonomia decisionale, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi, che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, costituisce l’ubi consistam del dirigente, altrimenti definito anche alter ego dell’imprenditore cfr., da ultimo, Cass. Sez. L., sent. n. 18165 del 16/9/2015: “La qualifica di dirigente spetta soltanto al prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda, assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello (cd. dirigente apicale); da questa figura si differenzia quella dell’impiegato con funzioni direttive, che è preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e che svolge la sua attività sotto il controllo dell’imprenditore o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente limitazione di responsabilità (cd. pseudo-dirigente).

II) nessun rilievo può avere la circostanza che normalmente, in altre aziende di credito, le medesime funzioni segretariali fossero svolte da dirigenti apicali quali il Direttore generale o l’Amministratore delegato, trattandosi, con ogni evidenza, soltanto di incarichi aggiuntivi e secondari rispetto a quello principale gestori, come s’è visto tipico e qualificante della figura del dirigente;

III) anche a voler seguire la tesi dell’appellante circa la superiorità delle mansioni così svolte, il numero delle riunioni di organi collegiali della propria banca da lui curate annualmente, quale indicato negli scritti difensivi in una misura media pari ad una dozzina all’anno, non consente affatto di ritenere provata la prevalenza quantitativa delle mansioni medesime rispetto a quelle di semplice direzione di un servizio od un ufficio (nel caso di specie, la segreteria della banca), tipiche del quadro”.[8]

            La seconda, Cass. 7120/2016, dispone che: “Il giudice di merito si era limitato ad affermare che le mansioni di avvocato interno di Poste erano tecniche, anche se delicate complesse svolte in autonomia con riguardo alle strategie difensive conciliativa delle cause e con riguardo alla consulenza resa alle strutture aziendali. Di conseguenza, le mansioni di avvocato interno rientravano appieno in quelle funzioni caratterizzanti la categoria dei quadri.

Pertanto la D.M., riportato stralcio del proprio ricorso, laddove tra l’altro era stata richiamata la procura generale alle liti, conferita con atto del 28 aprile 1998, quindi rinnovata in data 13 aprile 99 e 13 febbraio 2001), assumeva che, in base a tutti gli elementi caratterizzanti la qualifica dirigenziale contenuti nella declaratoria di contratto dirigenti Poste, ex articolo uno 11 agosto 1994, erano intrinseci ed esplicitati nell’attività di avvocato svolte da essa ricorrente: elevato grado di professionalità, autonomia, potere decisionale, potere di rappresentanza, potere di direzione. Un’attenta lettura sia degli atti di causa, che dei contratti collettivi interessati avrebbe dovuto portare i giudici di merito a ritenere che l’attività prestata non rientrava nel contratto collettivo nazionale dipendenti (articolo 45), bensì nel C.C.N.L. dirigenti (art. 1), avendo svolto ella mansioni e ruolo di alter ego dell’imprenditore

Si sarebbe trattato infatti di mansioni tecniche, anche se delicate complesse svolte in autonomia con riguardo alle strategie difensive conciliative delle cause dalla ricorrente trattate e con riguardo alla consulenza resa alle strutture aziendali, mansioni che rientravano appieno, e quindi ben sconvolgenti (ribadendo che lo sconvolgimento della natura della categoria costituiva l’elemento rilevante), come sarebbe stato ad esempio se ella avesse dettato le strategie di tutto il contenzioso dell’azienda, magari anche per alcune materie soltanto in quelle funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa, che secondo l’articolo due comma uno già caratterizzavano la categoria dei quadri, i requisiti di appartenenza alla quale erano determinati in forza del secondo comma dello stesso articolo della contrattazione collettiva nazionale e aziendale; contrattazione che ripercorreva il disposto legislativo.

In proposito, la Corte territoriale altresì osservava che nessun valore aveva quanto previsto dall’autonomia collettiva in altri settori pubblici, posto che l’autonomia collettiva era tale anche nei differenti modi di esercizio della medesima, i quali ovviamente scontavano proprie valutazioni legate ai tempi di tale esercizio ai rapporti di forza tra le parti alla specificità delle varie situazioni e così via. Del resto, non a caso il già richiamato art. 2095, comma 2, laddove stabiliva che erano la legge e le norme collettive a determinare i requisiti di appartenenza alle categorie specifiche, aggiungeva anche che ciò doveva avvenire in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa.

Non rilevava solo e non tanto, infatti, che la ricorrente dovesse riferire ai superiori, come pure riconosciuto dello stesso atto di appello a pagina 12, quanto che la presenza di costoro, cui appunto la ricorrente riferiva, ridimensionava la sua responsabilità pur nelle operazioni compiute autonomamente. Ciò non significava dare valore all’assetto astratto, in luogo della sua effettività, ma piuttosto sottolineava il valore fondamentale della responsabilità nel qualificare una funzione. E questo quando la categoria di quadro già comprendeva i dipendenti svolgenti funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa, e quando all’attrice era stato riconosciuto il primo livello dl tale categoria.

Parimenti (non può essere accolta) può dirsi in relazione all’accennata disparità di trattamento circa il diverso inquadramento riservato agli avvocati operanti all’interno di aziende come Poste Italiane, rispetto a quelli dipendenti da enti pubblici, attesa, appunto, la diversità delle rispettive contrattazioni collettive di riferimento. Opportunamente, quindi, sul punto la sentenza ha evidenziato che l’autonomia collettiva era tale anche nei differenti modi di esercizio della medesima”.[9]

Nel caso di specie dunque un quadro-avvocato chiedeva di essere inquadrato come dirigente, in considerazione del rilievo che gli avvocati interni dell’ente operavano in un contesto di alta responsabilità professionale, in maniera indipendente da settori previsti in organico dall’ente medesimo, con esclusione di ogni attività di gestione. Tuttavia, ad avviso dei giudici di merito, le mansioni dell’avvocato interno all’ente erano considerabili “tecniche”, pertanto riconducibili alle mansioni svolte dai quadri.

La sentenza risulta interessante soprattutto perché la Cassazione, nel confermare la decisione di merito, pone a fondamento del giudizio il rilievo per il quale essendo chiara l’attività – patrocinio e consulenza legale – ed essendo la stessa inquadrata dalla contrattazione collettiva nella categoria di quadri di primo livello, ad un lavoratore risulta precluso il potere di agire giudizialmente per ottenere il riconoscimento di un maggiore inquadramento, dal momento che i requisiti di appartenenza ad una categoria o qualifica risultano già esplicitati dal contratto collettivo applicabile. Se v’è dubbio sulla categoria di appartenenza, allora ben venga l’azione giudiziale di accertamento, se, invece, la categoria e le mansioni svolte sono già chiare o comunque sono pacifiche, allora l’inquadramento non è contestabile e non è tantomeno contestabile la congruità dei requisiti indicati dalla contrattazione collettiva per accedere ad una determinata categoria.[10]

La questione del mancato riconoscimento dei quadri nel pubblico impiego

            Nel 2001, con il D.Lgs. n. 165, è intervenuta la privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.

            Il personale impiegato alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni viene diviso in due grandi categorie: dirigenti e personale non dirigente. Alla dirigenza viene dedicato l’intero Capo II del Titolo II, mentre al personale il Capo III del medesimo Titolo II. Non viene dunque operato alcun riferimento concreto alla categoria dei quadri.

            Il problema dell’immediata e diretta riconoscibilità giudiziale della categoria dei quadri si è posto, anche concretamente, solo in seguito al richiamo alla disciplina sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa operato dall’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 165/2001. Tale riconoscimento deve passare attraverso un giudizio di compatibilità con l’ordinamento speciale disposto per le pubbliche amministrazioni, a cominciare dalle stesse previsioni del D.Lgs. 165/2001.

            Sul punto, a chiarimento, è intervenuta la sentenza 14193/2005 della Corte di Cassazione, la cui massima prevede che “Al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dopo la cosiddetta privatizzazione non è applicabile la disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 cod. civ. e legge n. 190 del 1985), stante la specialità del regime giuridico previsto per il primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti cosicché la contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite dell’inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato, quale emerge dal complesso normativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, testo che ora costituisce lo “statuto” di tale rapporto di lavoro, il quale – dettando regole peculiari solo per i dirigenti e per i vicedirigenti – attribuisce per il resto delega piena alla contrattazione collettiva, senza che possa desumersi un obbligo di prevedere la categoria dei quadri dall’art. 40, del suddetto testo, che rinvia ad eventuali distinte discipline dei contratti collettivi per peculiari posizioni lavorative”.[11]

            La Suprema Corte, al punto 6.2. della sentenza, richiama l’art. 40 comma 2 del D.Lgs. 165/2001, che all’epoca dei fatti di causa così disponeva: “Mediante appositi accordi tra l’ARAN e le confederazioni rappresentative ai sensi dell’articolo 43, comma 4, sono stabiliti i comparti della contrattazione collettiva nazionale riguardanti settori omogenei o affini. I dirigenti costituiscono un’area contrattuale autonoma relativamente a uno o più comparti. I professionisti degli enti pubblici, già appartenenti alla X qualifica funzionale, ((…)) costituiscono, senza alcun onere aggiuntivo di spesa a carico delle amministrazioni interessate, unitamente alla dirigenza, in separata sezione, un’area contrattuale autonoma, nel rispetto della distinzione di ruolo e funzioni. Resta fermo per l’area contrattuale della dirigenza del ruolo sanitario quanto previsto dall’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modifiche ed integrazioni. Agli accordi che definiscono i comparti o le aree contrattuali si applicano le procedure di cui all’articolo 41, comma 6. Per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi e per gli archeologi e gli storici dell’arte aventi il requisito di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 7 luglio 1988, n. 254, nonché’ per gli archivisti di Stato, i bibliotecari e gli esperti di cui all’articolo 2, comma 1, della medesima legge, che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti tecnico scientifici e di ricerca, sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto”.

Tale disposizione, da un lato, equipara le figure professionali “che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” a quelle che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano iscrizione ad albi oppure tecnico-scientifici e di ricerca” e dall’altro impone per entrambe la regolamentazione nell’ambito della contrattazione ordinaria di comparto, pur con discipline distinte. Il legislatore, soprattutto attraverso il riferimento ai “compiti di direzione”, pare rivolgersi proprio a coloro che compiono attività tecniche comportanti un elevato grado di collaborazione con il datore di lavoro, senza effettiva partecipazione allo svolgimento di funzioni dirigenziali propriamente intese.

L’ art. 40, comma 2, del D.Lgs. 165 del 2001, privo di efficacia descrittiva o qualificatoria, intende riservare alla contrattazione collettiva la previsione di un trattamento diversificato per alcune figure professionali. Incentrandosi sul “trattamento”, cioè sull’elemento che definisce le stesse categorie, la norma di fatto integra l’art. 2095 c.c., senza derogarlo.

Secondo la Corte, la norma costituirebbe una “diversa disposizione contenuta nel presente decreto” in funzione della quale per le amministrazioni pubbliche sarebbe derogata la legge n. 190 del 1985.

Secondo autorevole dottrina, l’art. 40 era tuttavia espressamente destinato alla regolamentazione del sistema di contrattazione collettiva e pertanto non pare idoneo alla individuazione o alla negazione di una categoria contrattuale. Dunque la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 40, sarebbe una norma che rafforza, anziché svilire, la necessità di definire negozialmente la categoria dei quadri. Se ogni categoria, per definizione, è finalizzata al riconoscimento di un trattamento economico e normativo diverso per i suoi appartenenti, l’art. 40 obbliga le parti a prevedere nei testi contrattuali una disciplina specifica per le figure professionali dotate di particolare responsabilità che svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure attività tecnico scientifica o di ricerca. Figure, queste, che paiono coincidere largamente con quella dei “prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa” di cui all’ art. 2 della legge n. 190 del 1985. L’inclusione di tale disciplina specifica nell’ambito del contratto collettivo per il personale non dirigenziale, d’altra parte, è cosa comune anche ai quadri del settore privato.[12]

Nonostante le critiche ricevute, la Cassazione ha ribadito l’orientamento espresso, richiamando interamente il principio di diritto enunciato dalla sentenza 14193/2005 riguardo alla mancata riconoscibilità della legge 190/1985 nell’area del pubblico impiego privatizzato nella successiva sentenza 6063/2008, che si esprime nei seguenti termini: “Nonostante che un indirizzo dottrinario abbia individuato nel disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, una norma volta ad attestare la necessità dell’individuazione della categoria dei quadri obbligando le parti negoziali a porre all’interno dei testi contrattuali una disciplina specifica per le figure professionali coincidenti con quelle individuate dalla L. n. 190 del 1985, art. 2 la chiara lettera di tale legge e numerose ragioni di ordine logico-sistematico inducono ad escludere in relazione al pubblico impiego privatizzato una diretta e completa trasposizione – per effetto del già segnalato richiamo operato dalla D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2 – dell’art. 2095 c.c. e della disciplina normativa della categoria (legale) dei quadri di cui alla L. n. 190 del 1985.

 Ed invero, sul versante sistematico è stato messo in luce come il rapporto di lavoro pubblico sino all’anno 1993 ha perseguito proprie logiche basate su una normativa la cui specialità era sotto molti versanti imposta dal perseguimento di interessi della collettività, idonei a giustificare l’esonero dall’integrale osservanza della normativa codicistica.

A tale considerazione va aggiunto il rilievo che una lettura della L. n. 190 del 1985 ed una applicazione dei canoni ermeneutici ex art. 12 preleggi attestano in maniera chiara – in ragione anche del linguaggio adoperato (cfr., a titolo puramente esemplificativo, l’art. 2, comma 2 ed in esso le parole “… contrattazione collettiva nazionale o aziendale”) e del tempo e del contesto socio-economico in cui la normativa è entrata in vigore – la volontà del legislatore di pervenire, attraverso l’introduzione di una nuova categoria (quella, appunto, dei quadri) ad un assetto delle relazioni industriali ed ad una contrattazione collettiva volta a riconoscere un adeguato riscontro ed una equa valorizzazione delle mansioni di lavoratori, capaci di incidere per la loro rilevanza sullo sviluppo e l’attuazione dei fini delle imprese.

Sul versante giuridico ad ulteriore conforto della soluzione patrocinata è stato anche sostenuto che la norma del D.Lgs., art. 40, comma 2, non può essere vista come una disposizione volta a costituire una peculiare ed autonoma area di quadri, quale quella prevista per il settore privata dalla citata L. n. 190, essendosi individuato in essa una disposizione tendente a riservare alla contrattazione collettiva soltanto una diversità di trattamento di alcune figure professionali, ed essendosi, in una distinta prospettiva, messo pure in evidenza come il richiamo alle disposizioni del capo 1^, titolo 2^, del libro 5^ del codice civile (e con esso al disposto dell’art. 2095 c.c. ed alla categoria dei quadri), effettuato dall’incipit del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2 sia reso inoperante sia in ragione dell’espressione finale di detto incipit (“fatte salve le disposizioni contenute nel presente decreto”) sia della strutturale incompatibilità riscontrabile tra l’ordinamento speciale, disposto per le pubbliche amministrazione, ed una applicazione della normativa di cui alla L. n. 190 del 1985 in termini di inderogabilità tali da imporre alla contrattazione collettiva pubblica di introdurre, sempre ed in ogni comparto, una specifica disciplina per figure professionali coincidenti con quelle individuate dalla stessa legge e che consenta – pur nell’assenza di un esplicita indicazione della categoria dei quadri e di una sua specifica disciplina contrattuale – di riconoscere al pubblico impiegato la collocazione in detta categoria.

Le ragioni sinora esposte portano a condividere sia il dictum di questa Corte, secondo cui nei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche il diritto al riconoscimento della categoria di quadro postula la previsione del contratto collettivo applicabile, sia l’ulteriore statuizione secondo cui al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, dopo la cosiddetta privatizzazione, non è applicabile la disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 cod. civ. e L. n. 190 del 1985), stante la specialità del regime giuridico previsto per il primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti cosicchè la contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite dell’inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato, quale emerge dal complesso normativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, testo che ora costituisce lo “statuto” di tale rapporto di lavoro, il quale – dettando regole peculiari solo per i dirigenti e per i vice-dirigenti – attribuisce per il resto delega piena alla contrattazione collettiva, senza che possa desumersi un obbligo di prevedere la categoria dei quadri dall’art. 40, del suddetto testo, che rinvia ad eventuali distinte discipline dei contratti collettivi per peculiari posizioni lavorative (cfr. in tali sensi: Cass. 5 luglio 2005 n. 14193).[13]

            In seguito la Cassazione è nuovamente tornata sul tema, con la sentenza 5651/2009, la quale conferma nuovamente il sopraesposto orientamento, rigettando la domanda del riconoscimento della categoria dei quadri nel pubblico impiego privatizzato in applicazione del seguente ragionamento: “La pretesa azionata è intesa al riconoscimento della detta categoria, nell’assunto della corrispondenza delle mansioni a quelle descritte della legge, legge che sarebbe direttamente applicabile al rapporto controverso, ancorché non attuata dal contratto nazionale di lavoro del comparto regioni-autonomie locali. In altri termini, all’inquadramento previsto dal contratto, dovrebbe sostituirsi, in applicazione di previsione inderogabile di legge, l’inserimento nella categoria dei quadri. La pretesa, dunque, non ha ad oggetto un superiore inquadramento sulla base dello svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica posseduta, sfuggendo alla preclusione stabilita dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1, secondo periodo.

E’, tuttavia, priva di fondamento perché l’art. 2095 c.c., non è applicabile al rapporto di lavoro pubblico contrattuale, come disciplinato dal corpus normativo delle disposizioni raccolte nel menzionato D.Lgs.

Rimane, perciò, assorbita la questione della portata – precettiva o descrittiva – della sola definizione della categoria contenuta nella L. n. 190 del 1985, art. 2, comma 1, in mancanza dell’intervento attuativo della competente contrattazione collettiva…

Sono le norme ora raccolte nel D.Lgs. n. 165 del 2001, a costituire lo “statuto” del lavoro contrattuale alle dipendenze delle pubbliche amministrazione, nel quale si rinviene il corpus di regole imperative non derogabili dal contratto collettivo, siccome si tratta proprio della fonte di legittimazione dei poteri di autonomia. Sulla materia della classificazione del personale, la legge detta regole del tutto peculiari soltanto per la categoria dei dirigenti. Per il restante personale, la delega alla contrattazione collettiva appare piena, come si desume dall’art. 52 (Disciplina delle mansioni), laddove, diversamente dall’art. 2103 c.c., compare il riferimento esclusivo alla “classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”. 12. I connotati di autonomia del sistema emergono ancora più evidenti in base ad altre disposizioni legislative.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, ultima parte, dispone che “per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca, sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi comparto”. Sembra evidente l’inconsistenza della tesi che legge la norma non come speciale rispetto a quanto previsto per i rapporti privatistici dalla L. n. 190 del 1985, art. 2, comma 1, ma come “rafforzamento” dell’indicazione contenuta nel comma 2 dello stesso art. 2, siccome nessun dato autorizza a ritenere che alla contrattazione collettiva sia stato imposto l’obbligo di contemplare una “categoria” distinta dal personale delle aree e dai dirigenti.

Di fatto, la contrattazione collettiva ha dato, allo stato, attuazione alla norma con la previsione delle c.d. “posizioni organizzative”, rispondenti certo all’esigenza di creare ad un livello inferiore a quello della dirigenza incarichi a termine e specificamente retribuiti, per lo svolgimento di mansioni inerenti a posizioni di particolare valore e contenuto gerarchico, ovvero professionale, ma sicuramente, stante il carattere transitorio e revocabile di questi incarichi, esulanti dalla nozione di “categoria di inquadramento”.

Una conferma definitiva dell’autonomia dei sistemi di classificazione del settore pubblico è, infine, costituito dall’intervento legislativo attuato con la L. 15 luglio 2002, n. 145, – “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato” – che ha introdotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17 bis (art. 7, n. 3), con la previsione della figura professionale del “vicedirigente”, demandando alla contrattazione collettiva del comparto Ministeri l’istituzione di un’apposita area della vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato con una determinata anzianità e, in fase di prima applicazione, anche il personale non laureato in possesso di determinati requisiti.

Conclusivamente, il ricorso va rigettato perché il sistema di classificazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, come attuato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non contempla la categoria dei quadri”.[14]

            Sul punto la giurisprudenza è ormai consolidata e non risultano essere intervenuti ulteriori tentativi di riconoscimento della categoria dei quadri all’interno del pubblico impiego, i quali come riportato dalla sentenza 5651/2009, paiono sostituiti dalla previsione delle c.d. “posizioni organizzative”. Sul punto, neppure la Legge Madia (124/2015) di Riforma della P.A. sembra intervenire;[15] infatti, nel novero dei decreti attuativi vi è un decreto, attualmente approvato in via definitiva ed in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, riguardante la disciplina della dirigenza della Repubblica, mentre non è previsto alcun riconoscimento o riferimento alla categoria dei quadri.

Le posizioni organizzative, pur coincidendo per numerosi aspetti con la figura del quadro, si differenziano da tale categoria in virtù del carattere transitorio e revocabile degli incarichi, mentre la qualifica di quadro, una volta ottenuta, non è temporanea né può essere revocata. Peraltro, l’introduzione delle posizioni organizzative (P.O.) ha comportato in seno alle pubbliche amministrazioni più problemi che benefici, dal momento che l’attribuzione della P.O. risulta appartenere più alla disciplina della retribuzione che a quella dell’inquadramento, in quanto sono quasi sempre previste specifiche indennità di funzione comportanti una retribuzione aggiuntiva, rimanendo al contempo invariata la posizione classificatoria occupata dal dipendente a cui viene attribuita la P.O.

Altro possibile elemento di sostituzione della categoria dei quadri all’interno del pubblico impiego risulta essere la vicedirigenza, istituita dalla legge 145/2002, che ha aggiunto l’art. 17-bis al D.Lgs. 165/2001, il quale nella sua versione originaria così prevedeva: “1. La contrattazione collettiva del comparto Ministeri disciplina l’istituzione di un’apposita area della vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato appartenente alle posizioni C2 e C3, che abbia maturato complessivamente cinque anni di anzianità in dette posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente ordinamento. In sede di prima applicazione la disposizione di cui al presente comma si estende al personale non laureato che, in possesso degli altri requisiti richiesti, sia risultato vincitore di procedure concorsuali per l’accesso alla ex carriera direttiva anche speciale. I dirigenti possono delegare ai vice dirigenti parte delle competenze di cui all’articolo 17.

2. La disposizione di cui al comma 1 si applica, ove compatibile, al personale dipendente dalle altre amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, appartenente a posizioni equivalenti alle posizioni C2 e C3 del comparto Ministeri; l’equivalenza delle posizioni è definita con decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Restano salve le competenze delle regioni e degli enti locali secondo quanto stabilito dall’articolo 27”.

            L’articolo, modificato una prima volta dal D.L. 115/2005 convertito dalla legge 168/2005 e successivamente dalla legge 15/2009, è stato infine abrogato nel 2012 dal D.L. 95/2012, convertito dalla legge 135/2012. Inizialmente considerata come figura professionale assimilabile a quella dei quadri nel lavoro privato[16] nonostante il nome stesso indicasse una volontà del legislatore di non assecondare una omologazione alla categoria dei quadri, tale istituto in realtà non è mai stato attivato, poiché il movimento confederale si è rifiutato di dargli cittadinanza nella contrattazione di comparto, nonostante la chiara lettera della legge. Infatti, l’art. 17bis del D.Lgs. 165/2001 affidava alla contrattazione collettiva del comparto Ministeri di disciplinare l’istituzione di un’apposita area della vicedirigenza, ma nonostante i vari rinnovi del CCNL, la disciplina afferente alla vicedirigenza non è mai stata approntata.

            Ad apporre la parola fine alla questione della vicedirigenza ci ha pensato la Corte Costituzionale, che con la sentenza 214/2016 “dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 5, comma 13, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1, della L. 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la L. 4 agosto 1955, n. 848 – dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe”.[17]

In conclusione, ad oggi, la vicedirigenza non è dunque più prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico.

La proposta di un contratto-tipo per i quadri

La categoria dei quadri presenta una serie di potenzialità ed opportunità non ancora sfruttate.

Uno dei principali ostacoli alla valorizzazione della categoria è sicuramente costituito dalla difficoltà, pur in presenza della Legge 190/1985, di individuare con chiarezza ed immediatezza le attribuzioni relative ai quadri.

Una soluzione che possa dare nuovo slancio al dibattito in materia, per la verità al momento non considerato come una priorità né dal legislatore né dalla dottrina, potrebbe essere quella di valorizzare definitivamente la contrattazione collettiva, in applicazione peraltro di quanto previsto dall’art. 2 comma 2 della legge 190/1985.

L’idea di riflettere e di pervenire ad un contratto-tipo o perlomeno di riferimento con riguardo alla categoria dei quadri permetterebbe inoltre di conciliare le diverse posizioni sul tema della rilevanza e del rapporto tra contrattazione collettiva aziendale e nazionale: il contratto-tipo fisserebbe i principi fondamentali e basilari, mentre la contrattazione di secondo livello ben potrebbe inserire clausole di maggior favore o prevedere specifici ed ulteriori benefici per i lavoratori.

Peraltro non bisogna dimenticare che in Italia la stragrande maggioranza dei datori di lavoro è costituita da piccole e medie imprese, al cui interno il sindacato non è nemmeno presente; anche in questo caso, la possibilità di avere come riferimento un contratto-tipo chiaro e fruibile potrebbe incentivare la scelta del datore di lavoro di affidarsi e farsi affiancare in alcuni aspetti della gestione dell’impresa da parte di un quadro dotato delle necessarie competenze professionali.

Ancora, se adeguatamente incentivate, potrebbero rientrare nella categoria di quadro anche figure quali il professionista o il ricercatore aziendale.

Ricapitolando, la previsione di un contratto-tipo, di semplice ed immediata applicazione, rilancerebbe la figura e la professionalità del quadro, individuandone con precisione i contorni e valorizzando le enormi possibilità previste da una definizione ampia quale quella prevista dall’art. 2 comma 1 della legge 190/1985.

Peraltro la categoria dei quadri viene sempre più frequentemente utilizzata con il corrispettivo termine inglese, “middle management”. Il predetto termine indica uno degli aspetti più importanti per i quadri, ovvero stare nel mezzo e mediare tra dirigenti e impiegati/operai, ovvero tra dimensione strategica e dimensione operativa, apportando la propria prestazione in tale “terra di mezzo” con competenze sia tecniche che manageriali. Devono dunque raccogliere esigenze e richieste derivanti sia dai dirigenti che da impiegati/operai, pertanto sono sempre maggiormente richieste grandi doti di relazione, comunicazione e spesso devono essere anche bravi motivatori.

Una interessante analisi sul middle management è stata svolta nel 2013 da Wyser, che ha messo a confronto aspettative ed attese dei middle manager italiani con quelle dei colleghi di Cina, India, Brasile, Serbia e Bulgaria.[18] In particolare, dalla ricerca emerge che i middle manager italiani ed indiani si considerano dei comunicatori, quelli brasiliani e serbi dei responsabili, quello bulgaro si definisce un gestore delle diversità e quello cinese un esecutore della visione strategica del “top manager”.

Inoltre, dovrebbe essere dedicato apposito spazio al tema dei ricercatori all’interno delle aziende private. Secondo Eurostat, i ricercatori sono “soprattutto professionisti della creazione di nuova conoscenza, prodotti, processi, metodi e sistemi, capaci di gestire a pieno i progetti in cui sono coinvolti come dei veri e propri manager”. L’Italia è uno dei paesi con il minor numero di ricercatori in area OCSE         , quale diretta conseguenza del fatto che la spesa delle imprese nei settori di ricerca e sviluppo è ancora ben al di sotto (1,38% del PIL nel 2014) del target dell’1,75% del PIL fissato dalla Commissione Europea per il 2020.[19] Del tema se ne sta occupando anche l’associazione Adapt.[20]

Verranno a questo punto esaminati i principali temi che dovrebbero essere inclusi nella disciplina.

All’ipotetico art. 1, andrebbe indicata la definizione di quadro, il quale, oltre all’esplicito e diretto riferimento all’art. 2 comma 1 della legge 190/1985, potrebbe essere individuato come il lavoratore non dirigente collocato nella categoria apicale e posto alle dirette dipendenze di un dirigente o dell’imprenditore al quale siano ad ogni modo attribuiti compiti di rilevante professionalità e responsabilità direttamente finalizzati al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Andrebbero successivamente previste almeno quattro categorie di quadro sulla base dell’esperienza e delle capacità acquisite. Si potrebbero dunque individuare:

  1. un quadro “junior”, ricomprendendo in tale figura i lavoratori neo-assunti o comunque con meno di 10 anni di anzianità di ruolo;
  2. un quadro “senior”, con almeno 10 anni di esperienza e quindi con un bagaglio di conoscenze costruito nel tempo;
  3. un quadro “super”, figura dotata di particolari nozioni di organizzazione e gestione aziendali che soprattutto con riguardo alle medie-piccole imprese, potrebbe sostituire la figura del dirigente, definizione che ricordiamo essere esclusivamente contrattuale e giurisprudenziale. Va notato infatti che con l’entrata in vigore del Jobs Act le tutele in caso di licenziamento per coloro che siano stati assunti dal marzo 2015, si sono notevolmente abbassate, con la conseguenza che il contratto a tutele crescenti applicabile ai quadri appare in tal caso meno garantista della normativa posta a tutela dei dirigenti in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò dovrebbe favorire l’interesse delle aziende per creare figure di quadri apicali con compiti che ben potrebbero sostituire quelli affidati ad un dirigente;
  4. un quadro “professionista”, in cui rientrerebbero i professionisti per i quali è richiesta l’iscrizione ad un albo;
  5. un quadro “ricercatore”, per i ricercatori impegnati in particolari e rilevanti progetti di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda.

Nell’ipotetico articolo 2, si potrebbero definire i requisiti necessari per l’attribuzione della qualifica di quadro, individuabili in:

  1. positivo superamento di un periodo di prova, non inferiore a 6 mesi;
  2. ininterrotto svolgimento delle mansioni di quadro per almeno 6 mesi ininterrotti, eccettuato il caso di sostituzione di altro lavoratore in servizio.

All’art. 3 andrebbe preso in considerazione il trattamento retributivo previsto per i quadri. Oltre alla parte fissa, dovrebbe essere fornito specifico rilievo ed importanza alla parte variabile della retribuzione, mediante un sistema di indennità e di premi di risultato, soprattutto con riguardo ai professionisti ed ai ricercatori, con uno schema riassumibile nei seguenti termini:

  1. Retribuzione base, ovvero un corrispettivo mensile ispirato ai minimi tabellari di ciascun settore produttivo. Peraltro, andrebbero individuate almeno 3 fasce retributive per ogni qualifica di quelle da indicare nell’ipotetico art. 1 del contratto, all’interno delle quali individuare delle progressioni economiche orizzontali, creando così dei sistemi retributivi basati sulla professionalità, istituendo a fronte di ciò, un processo valutativo, trasparente e soggetto a periodica verifica, mediante l’individuazione degli obiettivi cui dare un peso e contestualmente creando dei parametri per valutare condotta e prestazione;
  2. Indennità di vario tipo e titolo, articolate a seconda delle specificità del settore lavorativo e del CCNL di categoria. Potrebbe essere ad ogni modo prevista una generale indennità di funzione per remunerare le particolari caratteristiche tecniche e professionali possedute dal lavoratore;
  3. Premi, previsti al raggiungimento di determinati obiettivi, articolati sia come obiettivi di produttività aziendale che come obiettivi prefissi annualmente per il lavoratore. Per i ricercatori andrebbero indicati nello specifico dei premi di risultato individuali, divisi in tre fasce in ordine crescente a seconda dei risultati ottenuti anche non su base annuale ma con riguardo alla durata indicata o necessitata dal progetto. Per coinvolgere e responsabilizzare il ricercatore, lo stesso prima di intraprendere l’attività potrebbe compilare un documento contenente quanto si aspetta di conseguire col progetto di ricerca ed anche sulla base di quanto indicato andrebbe poi parametrato il risultato che l’azienda si aspetta che il lavoro raggiunga;
  4. Fringe benefits, accordati in ragione di determinate modalità di svolgimento della prestazione, ad esempio vettura aziendale per trasferte, telefono cellulare e personal computer aziendale peraltro utilizzabili quali strumenti di lavoro;
  5. Partecipazioni azionarie, per collegare maggiormente i quadri con l’andamento ed i risultati dell’azienda, permettendo loro inoltre una partecipazione attiva alla governance dell’impresa. Nello specifico, le modalità potrebbero essere due, secondo modelli già utilizzati da alcune grandi realtà europee: il primo modello prevede il semplice conferimento gratuito di un determinato numero di azioni scelto dall’azienda al quadro, il secondo invece prevede la possibilità per il quadro di scegliere un numero di azioni da comprare e il corrispettivo obbligo per l’azienda di conferire altrettante azioni al quadro;
  6. Retribuzione “formativa”, ovvero destinare parte del budget aziendale a finanziare attività di formazione e ricerca dei lavoratori: sostenere ad esempio spese di viaggio, partecipazione a convegni o incontri formativi, contributi a pubblicazioni a nome dei lavoratori. Tale retribuzione andrebbe personalizzata per andare maggiormente incontro alle esigenze soprattutto di professionisti e ricercatori.

Il successivo art. 4 sarebbe dedicato alla formazione dei quadri. La formazione dev’essere considerata non solo quale strumento di crescita nel rapporto contrattuale ma anche al fine di garantire un costante aggiornamento ed una maggiore capacità di pronta reazione alle sfide della globalizzazione e per fronteggiare al meglio i periodi di crisi aziendale o di settore. Dunque, con riferimento anche al precedente art. 3, potrebbero essere previsti dei corsi di aggiornamento e formazione a cadenza semestrale o annuale per i quadri, il cui costo verrebbe interamente coperto dall’azienda nel caso di interesse diretto ed attuale della stessa, oppure solo parzialmente quando il corso di formazione al quale il lavoratore andrebbe a partecipare risulti maggiormente legato a temi di interesse professionale e personale del lavoratore.  Tre dunque sarebbero gli aspetti da considerare:

  1. Percorsi di formazione personali utili ed inerenti o collegati alla posizione lavorativa attuale o da ricoprire al termine del percorso formativo per il quadro, da svolgersi a scelta del lavoratore in orario extra lavorativo oppure nell’ambito dell’orario di lavoro mediante un apposito sistema di permessi, contemplando altresì l’opportunità di una sospensione sabbatica del rapporto. Questa formazione sarebbe coperta solo in una determinata percentuale dal datore di lavoro, comunque mai inferiore al 50%;
  2. Percorsi di formazione aziendale, intesa come formazione utile e necessaria al percorso lavorativa, voluta dall’azienda, da svolgersi in orario di lavoro e interamente svolta a spese del datore di lavoro;
  3. Percorsi formativi di tutela, da attivarsi nei momenti di rischio per l’occupazione o in casi di comprovata obsolescenza della professionalità, al termine dei quali il quadro potrebbe mutare parzialmente le proprie mansioni per reinventarsi e trovare impiego all’interno di un altro settore aziendale.

Di conseguenza, si potrebbero studiare e costituire appositi enti o società di formazione, a cui verrebbe inoltre affidato il compito di certificare le competenze raggiunte ed ottenute. Addirittura potrebbe essere previsto un sistema nazionale, con un funzionamento simile a quello di una banca dati, all’interno del quale verrebbero inseriti i nominativi dei singoli quadri, con allegato il relativo Curriculum Vitae certificato dall’ente. In tal modo si costituirebbe, all’interno della piattaforma, uno spazio in cui domanda ed offerta di lavoro si potrebbero incontrare con estrema rapidità, dal momento che basterebbe inserire una aggiornata sezione dedicata a ricerca/offerta di lavoro.

In tema di formazione dei quadri potrebbe essere utilizzato come spunto quanto previsto dal CCNL Commercio in tema:

Al fine di valorizzare l’apporto dei Quadri e il loro sviluppo professionale e per mantenere nel tempo la loro partecipazione ai processi produttivi e gestionali, le parti convengono sull’opportunità di favorire la realizzazione di adeguati investimenti formativi, anche attraverso l’attivazione di progetti collegati ai programmi europei con particolare riferimento al dialogo sociale.

Analogo impegno viene assunto per quanto concerne i sistemi di comunicazione, al fine di trasferire a tali figure professionali tutte le conoscenze relative all’impresa.

Quanto sopra indicato verrà realizzato in coerenza con gli impegni assunti nel presente contratto e favorendo la parità di sviluppo professionale del personale femminile nell’impresa. 

A tal fine le parti individuano in QUADRIFOR, Istituto per lo sviluppo della formazione dei quadri del terziario, l’ente cui le imprese faranno riferimento per offrire ai Quadri opportunità di formazione nell’ambito delle finalità di cui al primo comma.

Il contributo obbligatorio annuo a favore di QUADRIFOR è pari a euro 75,00 (settantacinque/00), di cui euro 50,00 (cinquanta/00) a carico azienda e euro 25,00 (venticinque/00) a carico del lavoratore appartenente alla categoria dei Quadri.   

      L’art. 5 avrebbe come contenuto la disciplina dell’apprendistato. In effetti, la mutata disciplina dell’istituto a seguito del D.Lgs. 81/2015 permetterebbe di prevedere l’ingresso nella categoria, con riferimento nello specifico alla figura del quadro “junior”, mediante un percorso di apprendistato; effettivamente, possono essere assunti con contratto di apprendistato professionalizzante oppure di alta formazione e ricerca i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Il limite dei 29 anni e 364 giorni si applica esclusivamente al momento dell’assunzione, dunque non rileva che al termine del contratto il lavoratore superi il limite dei 30 anni.

      Non vanno dimenticati gli incentivi previsti per i datori di lavoro che assumono apprendisti, sostanzialmente confermati in toto dal D.Lgs. 81/2015, costituiti da agevolazioni contributive, non computabilità degli apprendisti nel numero di lavoratori impiegati all’interno dell’azienda, minore trattamento economico da erogare.

Va tenuto presente che già esiste apposito accordo tra Confapi e Federmanager sui contratti di Alta Formazione e Ricerca per Quadri superiori delle PMI, che pertanto potrebbe essere utilizzato come ispirazione per la costituenda disciplina.

      La riflessione sottesa all’art. 6, dedicato all’orario di lavoro, deve necessariamente cominciare con riferimento alla sottrazione della categoria dei quadri, esattamente come per i dirigenti, dai limiti in tema di orario di lavoro, con la conseguente privazione del pagamento dello straordinario svolto che non risulta però adeguatamente bilanciata da una rilevante libertà di poter gestire in autonomia e secondo le esigenze del lavoratore l’orario di lavoro. Dando seguito alle dichiarazioni del dicembre 2015 rilasciate all’Università LUISS dal Ministro Poletti in materia di orario di lavoro, ovvero la considerazione della misurazione ora-lavoro come uno strumento vecchio e che in qualche maniera ponesse degli ostacoli rispetto agli elementi di innovazione, sottolineando la necessità di una partecipazione attiva e responsabile del lavoratore alla propria attività di lavoro[21], il problema potrebbe trovare adeguata soluzione nel disegno di legge 2233/2016, recentemente approvato dal Senato[22], intitolato “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, che in particolare introduce il concetto di smart working o “lavoro agile”[23], in base al quale l’attività lavorativa andrebbe svolta in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa di lavoro, con regolamentazione affidata all’accordo tra le parti, nel rispetto dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

      La categoria dei quadri, per quanto abbiamo appena visto, rappresenta la “palestra” ideale per sperimentare il lavoro agile, consentendo, ai quadri che ne esprimono la volontà, di poter lavorare presso la sede dell’azienda per un periodo limitato della giornata e di gestire liberamente la prestazione nei luoghi e nei tempi preferiti, rimanendo, nel rispetto al diritto alla disconnessione[24], comunque rintracciabili per alcune fasce orarie, magari proprio tramite cellulare aziendale fornito come fringe benefit.

Peraltro, nel settore alimentare, è già intervenuta una regolamentazione sperimentale in merito, di seguito trascritta:

“Il lavoro agile” consiste in una prestazione di lavoro subordinato che si svolge al di fuori dei locali aziendali attraverso il supporto di strumenti telematici, senza l’obbligo di utilizzare una postazione fissa durante il periodo di lavoro svolto fuori dall’azienda, pur nel rispetto tassativo della idoneità del luogo quanto agli aspetti relativi alla sicurezza e alla riservatezza dei dati trattati.

Il dipendente assolverà alle proprie mansioni con diligenza, attenendosi all’osservanza delle norme legali e contrattuali (nazionali e aziendali), ed alle istruzioni ricevute dall’impresa per l’esecuzione del lavoro, adottando ogni prescritta e/o necessaria cautela al fine di assicurare l’assoluta segretezza delle informazioni aziendali.

Resta inteso che il lavoro agile sarà attuato su base volontaria. Le parti a livello aziendale potranno definire eventuali criteri che determinino condizioni di priorità di accesso al lavoro agile.

La valutazione circa la sussistenza delle condizioni necessarie per la concessione del lavoro agile è di esclusiva competenza del datore di lavoro. Il lavoro agile può essere concesso anche a tempo determinato e/o parziale con modalità definite tenendo in considerazione i dovuti parametri di efficienza.

L’esecuzione dell’attività lavorativa al di fuori dei locali aziendali avrà una durata stabilita tra le Parti.

L’azienda è responsabile della fornitura e della manutenzione degli strumenti informatici e/o telematici eventualmente utilizzati dal lavoratore per lo svolgimento della prestazione lavorativa in regime di “lavoro agile” se non diversamente pattuito nell’apposito accordo attuativo.

La prestazione dell’attività lavorativa in “lavoro agile” non incide sull’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, sulla connotazione giuridica del rapporto subordinato e non comporta nessuna modifica della sede di lavoro ai fini legali né ha alcun effetto sull’inquadramento, sul livello retributivo e sulle possibilità di crescita professionale, ai sensi del presente C.C.N.L.

Il dipendente in regime di “lavoro agile” conserva integralmente i diritti sindacali esistenti e potrà partecipare all’attività sindacale che si svolge nell’impresa.

Nel caso di disposizioni di legge o di accordi interconfederali, inerenti il “lavoro agile”, le parti si incontreranno per verificare la compatibilità e coerenza del presente accordo con le stesse eventualmente procedere con le necessarie armonizzazioni.

Sono fatti salvi gli accordi integrativi di secondo livello, già sottoscritti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente accordo di rinnovo.

Le parti si impegnano a effettuare interventi congiunti per contribuire all’implementazione delle normative afferenti la materia”.

      La Barilla, una delle prime aziende ad applicare il lavoro agile (già dal 2013), ha ad oggi oltre 1000 lavoratori coinvolti nello smart-working ed ha progressivamente aumentato le giornate in cui è prevista la possibilità di utilizzazione del lavoro agile fino alle attuali 8 di lavoro flessibile al mese.

      Il lavoro agile, le cui modalità di attuazione andrebbero di volta in volta concordate tra azienda e lavoratore nel rispetto degli interessi di entrambi, risulta sicuramente incentivato e reso possibile dalle nuove tecnologie, le cui opportunità verrebbero adeguatamente sfruttate, fornendo ai quadri, come abbiamo visto sopra, i necessari fringe benefits.

      La regolamentazione del lavoro agile permetterebbe inoltre a professionisti e ricercatori di gestire il proprio tempo con maggiore autonomia, evitando di perdere interessanti occasioni di formazione o divulgazione quali partecipazione a incontri di studio, formazione, pubblicazioni ed altre iniziative.

Ancora, la possibilità di gestire in maniera autonoma il proprio tempo andrebbe a sicuro vantaggio dei giovani, che potrebbero in tal modo meglio affrontare le difficoltà e le sfide derivanti dal formare una famiglia o dal dover gestire figli piccoli. Al contempo, permettere ai meno giovani di non dover passare l’intera giornata lavorativa all’interno dell’ufficio o della sede aziendale, potrebbe permettere a questi ultimi una decisa diminuzione dello stress derivante dagli spostamenti e della presenza fissa e continuativa nel tempo presso la sede o l’ufficio.

L’art. 7 risulterebbe dedicato ai temi della mobilità e dei trasferimenti. Oltre a richiamare espressamente le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per il trasferimento del quadro in unità produttive di diverso comune si dovrebbe operare altresì un espresso riferimento alle condizioni personali e familiari del quadro, che spesso costituiscono fonte di problemi e di difficoltà; ancora, dovrebbe essere data priorità in caso di trasferimento ai quadri più giovani o comunque a coloro che non si opporrebbero all’eventualità del trasferimento. Dunque, l’eventuale trasferimento andrebbe comunicato con un preavviso variabile ma sicuramente non inferiore, salvo particolari ragioni d’urgenza, a 60 giorni. Andrebbe altresì previsto per il quadro trasferito, qualora lo spostamento comporti il trasferimento in altra città o comunque il cambio di residenza, un rimborso delle spese per il trasferimento proprio e dell’eventuale famiglia, con un tetto massimo non inferiore a 10.000 euro, oltre ad eventuali incentivi ed all’assistenza al lavoratore nella ricerca di un’abitazione ed un contributo per un eventuale contratto di locazione.

Per converso, dovrebbe essere incentivata la mobilità dei quadri, mediante la previsione della possibilità di collocarsi in aspettativa, sia retribuita che non retribuita, per periodi di tempo anche considerevoli. Un tanto permetterebbe al quadro di intraprendere rilevanti percorsi professionali che arricchirebbero il bagaglio esperienziale e cognitivo senza pesare sull’azienda. Con specifico riferimento ai quadri professionisti o ricercatori, sempre nel rispetto delle esigenze aziendali, potrebbe essere prevista la possibilità di sospendere il rapporto di lavoro per esercitare attività libero-professionali, con il limite della non concorrenza e del rispetto di eventuali incompatibilità con l’attività aziendale. Un tanto incentiverebbe soprattutto i più giovani liberi professionisti e ricercatori ad “entrare” nelle aziende, in quanto sarebbe loro permesso di avere una sicurezza economica tale da permettere di pianificare la propria vita, salvo lasciare loro aperte le porte per svolgere in un secondo momento attività libero professionale. Ovviamente il vantaggio dell’azienda, al termine della sospensione del rapporto di lavoro, sarebbe quello di riaccogliere un professionista o ricercatore più “completo” a costo zero.

All’art. 8 troverebbe collocazione la questione della responsabilità e dell’assicurazione per i quadri. Sarebbe da istituire una apposita polizza assicurativa per il quadro, che copra il lavoratore per ogni ipotesi di responsabilità civile verso terzi conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie funzioni. Ancora, andrebbe istituita ulteriore apposita polizza assicurativa, interamente a carico del datore di lavoro per un certo massimale, integrabile ed innalzabile però mediante versamento della differenza a carico del lavoratore, per la copertura delle spese e per l’assistenza legale in caso di procedimenti civili relative a fatti connessi con l’esercizio delle funzioni svolte.

L’art. 9 si riferirebbe al tema delle invenzioni del quadro ed andrebbe a tutelare il caso di invenzioni o innovazioni professionali attribuibili al quadro. Fatte salve le norme generali che concernono l’intero personale dipendente in tema di brevetti e diritto d’autore, in applicazione di quanto previsto dall’art. 4 della legge 190/1985 “i contratti collettivi possono definire le modalità tecniche di valutazione e l’entità del corrispettivo economico della utilizzazione (…) delle invenzioni fatte dai quadri, nei casi in cui le predette innovazioni o invenzioni non costituiscano oggetto della prestazione di lavoro dedotta in contratto”, andrebbe espressamente previsto un equo premio (art. 64 D.Lgs. 30/2005 “Codice della Proprietà Industriale”) rafforzato. L’equo premio è quella somma di denaro riconosciuta al lavoratore-inventore qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l’invenzione in regime di segretezza industriale. Ebbene per i quadri tale premio dovrebbe essere indicato direttamente e consistere in una somma di denaro rilevante.

In ragione di quanto sopra considerato appare inoltre necessaria la possibilità che mediante specifica autorizzazione aziendale il quadro ma soprattutto i professionisti ed i ricercatori possano pubblicare articoli e contributi a proprio nome su riviste scientifiche, partecipare alla stesura di libri e manuali e svolgere relazioni in ordine a ricerche e lavori afferenti nello specifico l’attività e le esperienze maturate nel corso della prestazione lavorativa svolta in azienda.

Ancora, dovrebbero essere istituiti degli appositi permessi per fornire a quadri, professionisti e ricercatori la possibilità di svolgere interventi a convegni ed incontri di studio; in tal modo il quadro avrebbe la possibilità di confrontare ed ampliare la propria professionalità, mentre in cambio l’azienda otterrebbe la pubblicità gratuita derivante dalla diffusione nel nome.

Specificamente riferito ai ricercatori sarebbe l’art. 10. Rispetto a tale categoria andrebbero previste delle specifiche e personalizzate possibilità di rendere la prestazione lavorativa che si aggiungano a quanto già indicato in ragione della particolarità della categoria

In particolare, andrebbero instaurate delle relazioni e dei contatti privilegiati con le Università, le Pubbliche Amministrazioni e l’estero.

Con riguardo alle Università, oltre alla già prevista possibilità di permettere agli studenti maggiormente meritevoli di svolgere stage o tirocini formativi in azienda anche prima della laurea, in maniera da individuare e valutare i profili dei migliori candidati per ricoprire la posizione di quadro, andrebbero stabilite delle specifiche condizioni per permettere ai dottorandi di ricerca o ai ricercatori universitari di lavorare anche all’interno delle aziende, in maniera da concentrare il momento formativo all’interno dell’Accademia mentre quello più operativo in azienda. A beneficiare di tale situazione sarebbero tutte le parti coinvolte: il ricercatore potrebbe confrontarsi contemporaneamente con due realtà diverse, senza privilegiare l’aspetto teorico rispetto a quello pratico o viceversa, l’azienda avrebbe a disposizione un ricercatore per il quale andrebbe ad investire di meno nella formazione e di cui potrebbe valutare le capacità mentre l’Università avrebbe un maggior numero di candidati ad iscriversi ai dottorati in quanto sarebbero le stesse aziende a sovvenzionare apposite borse di studio per il periodo di svolgimento del dottorato di ricerca o dello specifico progetto di ricerca.

Con le Pubbliche Amministrazioni si potrebbero raggiungere degli specifici accordi per garantire la mobilità del professionista e del ricercatore o comunque la possibilità di collaborare sia con l’azienda sia con le P.A., con obbligo di comunicazione ed astensione in capo al lavoratore in caso di conflitto d’interessi e comunque sempre previa valutazione positiva congiunta della P.A. e dell’azienda.

Nei rapporti con l’estero, andrebbero stipulate apposite convenzioni di ricerca con appositi e dedicati benefici per accogliere ricercatori provenienti sia dall’Unione Europea sia da paesi extracomunitari. In tal senso andrebbe garantito ai ricercatori provenienti dall’estero l’espletamento di tutte le pratiche relative alle procedure di ingresso e di ricerca di una residenza, con riguardo soprattutto all’iter burocratico necessario per i lavoratori extracomunitari. Per i ricercatori stranieri e per le loro famiglie andrebbero inoltre offerti in un pacchetto “accoglienza” anche corsi di lingua italiana al fine di permetter loro di stabilirsi ed integrarsi al meglio sul territorio italiano. Ancora, andrebbe garantita l’assistenza fiscale necessaria al ricercatore ed alla sua famiglia.

Enorme rilevanza sarebbe affidata all’art. 11, che andrebbe a riguardare la soluzione delle eventuali controversie insorte nel corso del rapporto di lavoro.

In considerazione delle alterne vicende e fortune relative all’istituto del tentativo di conciliazione, la cui obbligatorietà è peraltro venuta meno col c.d. Collegato Lavoro del 2010, per evitare un contenzioso giudiziale la soluzione maggiormente percorribile risulta essere quella dell’arbitrato.

Nello specifico, l’art. 31 della legge 183/2010 sostituisce tra gli altri l’art. 412 del c.p.c., che nella nuova versione prevede la possibilità di una risoluzione arbitrale delle controversie insorte tra lavoratore e datore di lavoro.

Si tratterebbe quindi di istituire un apposito collegio arbitrale, costituito da un numero minimo di tre arbitri, incrementabile in caso di particolare difficoltà della materia del contendere. Un arbitro andrebbe designato dal lavoratore, uno dal datore di lavoro ed il terzo scelto di comune accordo o indicato a sorte all’interno di un apposito elenco di professori di diritto del lavoro o avvocati specializzati nella materia. Il numero degli arbitri dev’essere sempre e comunque indicato in un numero dispari e la componente tecnica del collegio deve attestarsi in ogni caso in una percentuale pari al 33% dei componenti dello stesso.

Si potrebbe prendere come riferimento anche la disciplina introdotta dal D.Lgs. 28/2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.

Inoltre, risulta possibile istituire apposite camere arbitrali per i quadri, costituite da quelli che sono gli organi di certificazione sulla base all’articolo 31, comma 12 della legge 183/2010. In effetti, il D.Lgs. n. 276 del 2003 colloca gli enti bilaterali nel novero dei soggetti abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro. La legge individua a tal fine le commissioni istituite presso gli enti bilaterali (art. 76 D.Lgs. n. 276 del 2003).

Si definiscono enti bilaterali ex art. 2 lettera h) del Decreto Legislativo 10 settembre 2003 n. 276 gli “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità, l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento”.

Potrebbe dunque essere istituito un ente bilaterale a competenza nazionale nel cui ambito creare una apposita camera arbitrale altamente specializzata e dedicata esclusivamente alla risoluzione delle controversie legate ai quadri.

Il predetto ente bilaterale a competenza nazionale avrebbe inoltre il compito di certificare le competenze conseguite dal quadro come previste dalla bozza del precedente art. 4.

L’arbitrato può essere sia irrituale che rituale. Nel nostro caso si tratterebbe di arbitrato irrituale, espressamente disciplinato dal codice di rito agli artt. 412-ter e seguenti. Dal momento che nel caso dell’arbitrato irrituale la possibilità per le parti di sottoporre ad arbitri la lite è possibile purché tale facoltà sia prevista da un contratto o accordo collettivo, la clausola compromissoria contenente la convenzione d’arbitrato troverebbe spazio all’interno dell’articolo contrattuale in esame.

L’art. 12 verrebbe dedicato al tema della conciliazione vita-lavoro, alla tutela del lavoro femminile ed a quella dei lavoratori over-50.

In tema di conciliazione vita-lavoro, il punto di partenza dev’essere individuato nel D.Lgs. 80/2015, dedicato appunto alle “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”. In primo luogo va dunque confermato l’impianto del D.Lgs., aggiungendo tuttavia ulteriori possibilità di scelta e permessi oltre ad una ancora più spiccata personalizzazione delle tutele. Ancora, potrebbe essere istituito apposito fondo aziendale, che si affianchi a quello previsto dall’art. 25 del D.Lgs. 80/2015, dedicato alla destinazione di risorse aziendali alle misure di conciliazione tra vita professionale e vita privata, per semplificare il più possibile la vita ai lavoratori, in maniera che si possano concentrare esclusivamente sul lavoro senza dover contemporaneamente portare in azienda problemi privati. Da ultimo, andrebbero previsti, sulla base di modelli già funzionanti in Europa e comunque con riguardo alle aziende di maggiori dimensioni, asili aziendali ed aspetti ricreativi endo-aziendali, quali palestre e strutture sportive dedicate, all’interno delle quali peraltro si potrebbero maggiormente sviluppare e consolidare i rapporti umani tra lavoratori.

Con riguardo alla tutela del lavoro femminile, fatto salvo anche in questo caso l’intero impianto normativo del D.Lgs. 80/2015, potrebbero essere previsti degli incentivi in ingresso per le lavoratrici madri con figli minori non autosufficienti o comunque in difficoltà in quanto al di sotto di determinate soglie reddituali. Peraltro, con riguardo alla tutela del lavoro femminile, risulta fondamentale l’accordo individuale tra lavoratrice e datore di lavoro su eventuali diverse modalità di fruizione di permessi o congedi, da articolare con specifico riferimento alle esigenze di ciascuna lavoratrice.

Rispetto alla tutela dei lavoratori over-50, vanno previsti dei meccanismi di maggior tutela per la fascia d’età che parte dai 50 anni. Un tanto in quanto superata la soglia dei 50 anni diventa sempre più difficile rimanere al passo con la tecnologia e reinventarsi in funzione delle esigenze di un mercato del lavoro che si è più volte modificato dal momento dell’ingresso del lavoratore over-50. In effetti, se per i giovani l’esperienza di un licenziamento o di un trasferimento ha un’incidenza significativa, l’età permette di essere maggiormente reattivi ampliando le proprie conoscenze oppure cominciando un percorso di vita anche a molti chilometri da casa. La fascia 30-50 è invece la fascia maggiormente protetta, non in quanto siano previste maggiori tutele ma in considerazione del fatto che l’offerta di lavoro per la predetta fascia è decisamente maggiore rispetto a quella per i giovani o per gli ultra cinquantenni, in quanto rappresenta quel giusto mix di gioventù ed esperienza che risulta maggiormente ricercato da parte delle aziende.

Pertanto, potrebbe essere studiata una figura di quadro-tutor, che all’interno dell’azienda svolga non compiti operativi ma invece attività di docenza, formazione, tutoraggio, valutazione e selezione del personale. Altra possibilità sarebbe quella, nei casi di disponibilità del quadro over-50, di destinarlo ad apposite iniziative di formazione per aggiornare il bagaglio di conoscenze dello stesso al fine di poterlo ricollocare in altri settori aziendali.

Altra possibilità, in considerazione delle modifiche previste dal D.Lgs. 81/2015 all’art. 2103 del c.c., potrebbe essere quella di demansionare il quadro over-50 a patto però di garantire il mantenimento del livello retributivo precedentemente percepito. In effetti i commi 4 e 5 del novellato art. 2103 c.c. così prevedono: “4. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

5. Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”.

Nel seguente art. 13 andrebbe previsto un patto di non concorrenza, che si rende quanto mai necessario in considerazione di quante risorse l’azienda andrebbe ad investire in termini di tempo e denaro per la formazione del lavoratore. L’art. 2125 del codice civile prevede che il patto di non concorrenza sia nullo qualora non sia pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro ed ancora se il vincolo non risulti contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo; da ultimo, nel caso dei quadri, la durata del vincolo non dev’essere superiore a 3 anni. Nel rispetto di quanto previsto, il patto potrebbe prevedere un robusto corrispettivo, che si potrebbe attestare circa al 25% della retribuzione mensile, al fine di indicare la durata massima del patto, un limite di oggetto che copra la specifica attività di cui si occupava l’azienda ma permetta al quadro di mettere la propria professionalità al servizio di un diverso settore produttivo ed un limite di luogo indicativamente circoscritto alla regione in cui il quadro rendeva la propria prestazione. Salvo queste indicazioni di massima, la percentuale del corrispettivo potrà essere aumentata anche sensibilmente al fine di ampliare i limiti di oggetto tempo e luogo nel caso la professionalità del quadro sia di particolare rilevanza per il meccanismo produttivo o gestionale dell’azienda.

L’art. 14 sarebbe dedicato alla previsione della possibilità di personalizzare le tutele e le disposizioni previste nei precedenti articoli sulla base di specifiche esigenze del lavoratore, soprattutto dei ricercatori, oppure dell’azienda. Ad ogni modo, tale personalizzazione potrebbe intervenire esclusivamente in caso di contrattazione assistita; dunque, il contenuto dei precedenti articoli potrebbe essere modificato solo nel caso in cui il quadro sia affiancato ed assistito da un rappresentante sindacale da lui liberamente scelto, quale garante della protezione degli interessi del lavoratore.

L’ultimo articolo, il 15, avrebbe quale contenuto una clausola di chiusura, in ragione della quale per quanto non espressamente previsto o disciplinato dagli articoli precedenti opererebbe un rinvio alla disciplina contenuta nel CCNL di categoria.


[1] Antonio Vallebona, Breviario di diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2012, p. 247.

[2] In tema si vedano : a cura di Gaetano Zilio Grandi ed Elena Gramano, La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act – Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, Milano, 2016 oppure l’open access M. Menegotto, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act – Nuovi spazi per la flessibilità funzionale, consultabile e scaricabile al seguente link: http://moodle.adaptland.it/pluginfile.php/28157/mod_resource/content/0/wp_2016_7_menegotto.pdf

[3] Cass. civ. Sez. lavoro, 17-08-1998, n. 8060, in Mass. Giur. It., 1998.

[4] Cass. civ. Sez. lavoro, 12-01-1999, n. 275, Mass. Giur. It., 1999 e Orient. Giur. Lav., 1999, I.

[5] Cass. civ. Sez. lavoro, 09-10-2006, n. 21652 (rv. 592411), Mass. Giur. It., 2006 e CED Cassazione, 2006

[6] Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21/10/2015, n. 21431, deciso in Roma, il 17 settembre 2015, depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2015.

[7] Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 04/10/2016, n. 19770, deciso in Roma, il 5 maggio 2016, depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2016.

[8] App. Potenza Sez. lavoro, deciso in data 17 settembre 2015, pubblicato in data 5 novembre 2015.

[9] Cass. civ. Sez. Lavoro, 12-04-2016, n. 7120.

[10] M. Tonetti, Chiare le mansioni e chiara la categoria di appartenenza: dal giudice non si va, Diritto & Giustizia, fasc. 18, 2016, pag. 107.

[11] Cass. civ. Sez. lavoro, 05-07-2005, n. 14193, Mass. Giur. It., 2005 – CED Cassazione, 2005.

[12] Luca Sgarbi, La Cassazione nega il riconoscimento giudiziale dei quadri nelle amministrazioni pubbliche, Argomenti Dir. Lav., 2006, 2 (nota a sentenza).

[13] Cass. civ. Sez. lavoro, 06/03/2008, n. 6063.

[14] Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09/03/2009, n. 5651

[15] Fabio Petracci ed Alessandra Marin, La legge delega 124/2015 – Le modifiche al rapporto di pubblico impiego, 2016, Key Editore, Frosinone.

[16] Serra Dioniso, La vicedirigenza dopo la norma interpretativa (art. 8, L.N. 15/09), Lavoro nella Giur., 2011, 5, 437 (commento alla normativa)

[17] Corte cost., Sent., (ud. 05/07/2016) 03-10-2016, n. 214

[18] http://it.wyser-search.com/2013/10/15/middle-manager-o-manager-a-meta/.

[19] http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2016/11/new-piktochart_17081394_5cb40bce3e4a98d3a809169785fb347ec430666e-copia.png.

[20] M. Tiraboschi, La ricerca ai tempi delle economie di rete e di Industry 4.0 – Contratti di ricerca in impresa e nel settore privato, Giuffrè, Milano, 2016.

[21] http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/poletti-e-lepolemiche-sull-orario-di-lavoro-mai-pensato-di-tornare-alcottimo/220648/219847

[22] A questo link è reperibile il testo completo del Disegno di Legge 2233/2016:  http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/testi/46476_testi.htm

[23] Per un approfondimento sull’istituto si rimanda a: Fabio Petracci e Alessandra Marin, Lavoro autonomo lavoro subordinato e lavoro agile, Key Editore, Frosinone, 2016.

[24] Clara Tourres, Lavoro agile e diritto di disconnessione: una proposta francese, in www.bollettinoadapt.it.  

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

Sanzione disciplinare della retrocessione – Autoferrotranvieri – Questione di incostituzionalità rimessione alla Corte Costituzionale – Cassazione Ordinanza n. 13525/19 del 20 maggio 2019.

L’inquadramento professionale e la professionalità in genere assumono tutela costituzionale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza sopra indicata è investita di un tema a lungo non affrontato.

Esso è individuato nella speciale sanzione della retrocessione professionale prevista esclusivamente per gli autoferrotranvieri dal regio decreto n.148/1931.

Un lavoratore colpito da tale sanzione e dequalificato in base a sanzione disciplinare, si rivolge al Tribunale di Bergamo , ammettendo i fatti contestati, ma contestando invece la legittimità della norma che consente nello specifico caso dei lavoratori autoferrotranvieri la sanzione della dequalificazione.

Il Tribunale di Brescia respinge la domanda ed il lavoratore si rivolge alla locale Corte d’Appello che conferma la decisione del Tribunale.

Si rivolge quindi alla Corte di Cassazione che, ritenendo fondata l’eccezione di incostituzionalità della norma che prevede la sanzione della retrocessione, investe della questione la Corte Costituzionale che, a questo punto, dovrà pronunciarsi.

L’ordinanza affronta il problema della retrocessione per la prima volta.

Altri interventi giurisprudenziali avevano invece smantellato gran parte dell’impianto disciplinare del settore degli autoferrotranvieri  anche relativamente al punto che prevedeva la giurisdizione del giudice amministrativo, laddove ormai ampi settori del lavoro pubblico erano stati devoluti alla giurisdizione ordinaria.

Al di fuori dello specifico settoriale interesse, la pronuncia riconosce il valore costituzionale del lavoro non solo negli elementi della prestazione e della retribuzione con i connessi diritti, ma eleva la professionalità ed il ruolo anche morale che ne consegue come autonomo diritto esplicazione dell’articolo 35 della Costituzione che non consente provvedimenti umilianti e degradanti.

Un passo importante nel riconoscimento del valore sia morale che contrattuale del bene professionalità e della tutela che merita.

Leggiamo e non possiamo che condividere il punto affrontato dalla difesa del ricorrente  “violazione diritto al lavoro” , laddove afferma che esso non si attua solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro , tra i quali senz’altro il diritto alla qualifica che è definita come bene legato alla persona del lavoratore come livello di esperienze personalmente maturate e conferite nel rapporto di lavoro.

Segue il testo dell’ordinanza.

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 19/02/2019) 20-05-2019, n. 13525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 3038/2015 proposto da:

P.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO DELLA VITE;

– ricorrente –

contro

A.T.B. SERVIZI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MATTEO GOLFERINI, MARGHERITA CAGGESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 327/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/07/2014 R.G.N. 60/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SERGIO GANDI per delega verbale Avvocato MARGHERITA CAGGESE.

Svolgimento del processo

Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 37, all. A, nonchè la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso provvedimento.

Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l’erroneità della decisione.

La società convenuta resisteva all’interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità.

La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio.

La Corte territoriale osservava che, come correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano.

La Corte d’Appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931, non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento stipendiale.

Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di concessione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonchè le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti.

Alla luce della specialità del rapporto, era dunque condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria.

Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non era invocabile proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse.

Secondo la Corte territoriale, era altresì manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente.

Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici.

La Corte di merito condivideva anche l’affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c., prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4. Nè poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni.

Infine, la Corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori discussione.

Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonchè tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018.

All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931,art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poichè esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro.

La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari.

Poichè la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, nè tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando – anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua – addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente.

Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni.

Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost..

D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina.

La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioè della sua capacità tecnicocon il progredire delle esperienze del lavoratore.

Disparità di trattamento.

Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti mansioni.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia.

D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacchè l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost..

Nè potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo.

Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benchè chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorchè la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano.

Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, nè come fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.

Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri, “problematica” da considerarsi fatto controverso e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti.

Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perchè la stessa dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro.

In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt. 37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l’art. 3 Cost..

Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), nè per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991.

In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall’armamentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori.

Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 Cost., non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7.

Il D.Lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicchè aveva opinato nel senso che non vi fossero più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970.

Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purchè sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poichè il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale.

Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti” – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, poichè soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell’art. 3 Cost.. Non era stato esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di motivazione.

Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui è processo.

Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 c.p.c., da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un approfondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931, ma altresì irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso.

Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613 del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22/04 – 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58″, in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti collettivi”. “La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato – già con il primo dei decreti delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonchè alla giurisdizione del giudice ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”.

In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100– 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego – salvo specifiche eccezioni – nell’area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa “devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, – attuativo della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali – il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina.

In proposito, non può non convenirsi con quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius “contrattualizzazione”) dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operatività dell’art. 58. Ed infatti – come già si è rilevato più sopra – il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell'”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del 1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5.

Tale norma – destinata, peraltro ad operare “a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui all’art. 72” (art. 68, comma 4) – è stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego).

Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perchè l’indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo, trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poichè la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è ormai venuta del tutto meno. E’ pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che – concepita in epoca precostituzionale – non può più essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare più possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma….”). Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento – ad es. sanzione disciplinare della retrocessione – la giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore – che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile.

V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio, più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione – peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perchè proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla giurisdizione amministrativa – era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni, giacchè le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata.

Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice amministrativo, anzichè a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria).

D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50(Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies – misure sul trasporto pubblico locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto, stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies è abrogato”.

Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.

L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria.

Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente.

Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorità competenti a giudicare delle mancanze relative.

Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo.

In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato).

Nè può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all’art. 36 Cost..

La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: “…Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce nè un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, nè un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost., comma 1) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)….” (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte – VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio – 10 aprile 2019: “La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una alternativa al licenziamento….”).

P.Q.M.

TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: – dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”, artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione) dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nei sensi meglio indicati nella motivazione che precede;

– dispone la sospensione di questo giudizio;

– ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle Parti di questo giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri;

– ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

– dispone, infine, l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.

Manda alla Cancelleria per gli anzidetti adempimenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della IV Sezione Civile – Lavoro di questa Corte, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019

RSA e RSU: gli accordi interconfederali

Le RSA sono previste dall’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori e sono costituite ad iniziativa dei lavoratori, maesclusivamente nell’ambito di organizzazioni sindacali aventi determinati requisiti di rappresentatività.

La Corte costituzionale, con sentenza del 3 luglio 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede che la Rappresentanza Sindacale Aziendale sia costituita anche da associazioni sindacali che, pur non avendo sottoscritto contratti collettivi applicati nell’azienda, abbiano partecipato alla trattativa.

Le RSU sono state introdotte dall’accordo interconfederale del 1993 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL. Da ultimo è intervenuto il T.U. sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, disciplina specificatamente le rappresentanze sindacali nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, prevedendo che ha stabilito che dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza (o RSU o RSA).

L’iniziativa per la costituzione di RSU e per la presentazione di liste elettorali spetta sia alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2010, del Protocollo 31 maggio 2013 e dello stesso T.U., che alle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva interessata. In alternativa, le stesse facoltà sono riconosciute alle associazioni sindacali che hanno aderito formalmente al contenuto degli accordi di cui sopra e la cui lista elettorale, nelle aziende con più di 60 dipendenti, è corredata da un numero di firme dei lavoratori impiegati in quell’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto (oppure almeno tre firme nelle imprese di dimensione compresa tra 16 e 59 dipendenti). Nel caso di rinnovi successivi, l’iniziativa può essere esercitata anche dalle RSU già esistenti.

Le RSU vengono elette mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti.

Le RSU subentrano alle RSA e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e all’esercizio delle funzioni loro spettanti.

Di seguito il Testo Unico sulla Rappresentanza Confindustria – firmato da Cgil, Cisl e Uil a Roma il 10 gennaio 2014:

“PARTE PRIMA MISURA E CERTIFICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA AI FINI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE DI CATEGORIA

Per la misura e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono i dati associativi (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e i dati elettorali ottenuti (voti espressi) in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie. Il datore di lavoro provvederà, alle condizioni e secondo le modalità contenute nel presente accordo, ad effettuare la rilevazione del numero delle deleghe dei dipendenti iscritti alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo 31 maggio 2013 e del presente Accordo. La delega dovrà contenere l’indicazione della organizzazione sindacale di categoria e del conto corrente bancario al quale il datore di lavoro dovrà versare il contributo associativo. Il contributo associativo non potrà essere inferiore ad un valore percentuale di una retribuzione convenzionale costituita dal minimo tabellare in vigore, nel mese di gennaio di ciascun anno, che ogni singolo Ccnl individuerà. Il lavoratore che intenda revocare la delega, dovrà rilasciare apposita dichiarazione scritta e la revoca, ai fini della rilevazione del numero delle deleghe, avrà effetto al termine del mese nel quale è stata notificata al datore di lavoro. La raccolta delle nuove deleghe dovrà avvenire mediante l’utilizzo di un modulo suddiviso in due parti, la prima delle quali, contenente l’indicazione del sindacato beneficiario del contributo, sarà trasmessa al datore di lavoro e la seconda, sempre a cura del lavoratore, sarà inviata al medesimo sindacato. Le imprese accetteranno anche le deleghe a favore delle organizzazioni sindacali di categoria che aderiscano e si obblighino a rispettare integralmente i contenuti del presente Accordo nonché dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo 31 maggio 2013. Il numero delle deleghe viene rilevato dall’Inps tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali (Uniemens). Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, tramite apposita convenzione, definiranno con l’Inps l’introduzione nelle dichiarazioni mensili Uniemens di un’apposita sezione per la rilevazione annuale del numero delle deleghe sindacali relative a ciascun ambito di applicazione del Ccnl. Per questo scopo, le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo procederanno a catalogare i contratti collettivi nazionali di categoria, attribuendo a ciascun contratto uno specifico codice, che sarà comunicato anche al Cnel. Le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo attribuiranno uno specifico codice identificativo a tutte le organizzazioni sindacali di categoria interessate a partecipare alla rilevazione della propria rappresentanza per gli effetti della stipula dei contratti collettivi nazionali di lavoro e ne daranno tempestiva informativa all’Inps, alla Confindustria e al Cnel. Ciascun datore di lavoro, attraverso il modulo Uniemens, indicherà nell’apposita sezione, il codice del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato e il numero delle deleghe ricevute per ogni singola organizzazione sindacale di categoria con relativo codice identificativo nonché la forma di rappresentanza presente nelle unità produttive con più di quindici dipendenti. Ulteriori dati potranno essere rilevati secondo le modalità definite nella convenzione con l’Inps. In forza della specifica convenzione, l’Inps elaborerà annualmente i dati raccolti e, per ciascun contratto collettivo nazionale di lavoro, aggregherà il dato relativo alle deleghe raccolte da ciascuna organizzazione sindacale di categoria relativamente al periodo gennaio – dicembre di ogni anno. Il numero degli iscritti, ai fini delle rilevazioni della rappresentanza di ciascuna organizzazione sindacale di categoria su base nazionale, sarà determinato dividendo il numero complessivo delle rilevazioni mensili, effettuate in virtù delle deleghe, per dodici. Per l’anno 2014 si rileveranno le deleghe relative al secondo semestre. I dati raccolti dall’Inps saranno trasmessi – previa definizione di un protocollo d’intesa con i firmatari del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo – al Cnel che li pondererà con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle Rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni. I dati degli iscritti rilevati dall’Inps in relazione alle unità produttive che superino i quindici dipendenti e in cui siano presenti Rsa ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale saranno trasmessi, entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello di rilevazione, al Cnel. Per consentire la raccolta dei dati relativi ai consensi ottenuti dalle singole organizzazioni sindacali di categoria in occasione delle elezioni delle Rsu Nei singoli luoghi di lavoro, copia del verbale di cui al punto 19 della sezione terza della Parte Seconda del presente accordo dovrà essere trasmesso a cura della Commissione elettorale al Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo). L’invio dei verbali è previsto sia per le rappresentanze sindacali unitarie che verranno elette successivamente all’entrata in vigore del presente accordo sia per quelle elette antecedentemente ancora validamente in carica. Il Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) raccoglierà tutti i dati relativi alle Rsu validamente in carica alla data del 31 luglio di ogni anno, desumendoli dai singoli verbali elettorali pervenuti al Comitato medesimo, raggruppandoli per ciascuna organizzazione sindacale di categoria, e li trasmette al Cnel entro il mese di gennaio dell’anno successivo a quello di rilevazione. Il Cnel provvederà a sommare ai voti conseguiti da ciascuna organizzazione sindacale di categoria, il numero degli iscritti risultanti nelle unità produttive con più di 15 dipendenti ove siano presenti Rsa ovvero non sia presente alcuna forma di rappresentanza sindacale. Entro il mese di aprile il Cnel provvederà alla ponderazione del dato elettorale con il dato associativo – con riferimento ad ogni singolo Ccnl – secondo quanto previsto ai punti 4 e 5 del Protocollo d’Intesa 31 maggio 2013, ossia determinando la media semplice fra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu sul totale dei votanti, quindi, con un peso del 50% per ciascuno dei due dati. Effettuata la ponderazione, il Cnel comunicherà alle parti stipulanti il presente accordo il dato di rappresentanza di ciascuna organizzazione sindacale di categoria relativo ai singoli contratti collettivi nazionali di lavoro. I dati sulla rappresentanza saranno determinati e comunicati dal Cnel entro il mese di maggio dell’anno successivo a quello della rilevazione e, per l’anno 2015, saranno utili, oltre che per il raggiungimento della soglia del 5%: a) per la verifica della maggioranza del 50%+1, per tutti i rinnovi contrattuali che saranno sottoscritti dopo la comunicazione effettuata dal Cnel; b) ai fini della misurazione delle maggioranze relative alle piattaforme di rinnovo per i contratti che scadono dal novembre 2015. Successivamente e di regola, i dati comunicati dal Cnel saranno validamente utilizzabili, oltre che per il raggiungimento della soglia del 5% anche per la determinazione della maggioranza del 50%+1: a) ai fini della sottoscrizione dei Ccnl, in base all’ultimo dato disponibile; b) ai fini della presentazione delle piattaforme, in base al dato disponibile sei mesi prima della scadenza del contratto.

PARTE SECONDA REGOLAMENTAZIONE DELLE RAPPRESENTANZE IN AZIENDA

Sezione prima. Regole generali sulle forme della rappresentanza in azienda

Le parti contraenti il presente accordo concordano che in ogni singola unità produttiva con più di quindici dipendenti dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza. Nel caso di unità produttive con più di quindici dipendenti ove non siano mai state costituite forme di rappresentanza sindacale, le organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo concordano che, qualora non si proceda alla costituzione di rappresentanze sindacali unitarie ma si opti per il diverso modello della rappresentanza sindacale aziendale: a) dovrà essere garantita l’invarianza dei costi aziendali rispetto alla situazione che si sarebbe determinata con la costituzione della rappresentanza sindacale unitaria; b) alla scadenza della rsa, l’eventuale passaggio alle Rsu potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni sindacali che rappresentino, a livello nazionale, la maggioranza del 50%+1 come determinata nella parte prima del presente accordo. In tutti i casi in cui trova applicazione l’art. 2112 del Codice civile e che determinino rilevanti mutamenti nella composizione delle unità produttive interessate, ferma restando la validità della Rsu in carica fino alla costituzione della nuova Rsu, si procederà a nuove elezioni entro tre mesi dal trasferimento. Sezione seconda. Modalità di costituzione e di funzionamento delle Rappresentanze sindacali unitarie Premessa Le seguenti regole in materia di Rappresentanze sindacali unitarie, riprendono la disciplina contenuta nell’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 con gli adeguamenti alle nuove intese interconfederali. Le seguenti regole trovano applicazione per le procedure di costituzione delle nuove Rsu e per il rinnovo di quelle già esistenti.

1. Ambito e iniziativa per la costituzione Rappresentanze sindacali unitarie possono essere costituite nelle unità produttive nelle quali il datore di lavoro occupi più di 15 dipendenti, a iniziativa delle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo interconfederale. Ai fini del computo del numero dei dipendenti i lavoratori con contratto di lavoro a part time saranno computati in misura proporzionale all’orario di lavoro contrattuale mentre i lavoratori con contratto a tempo determinato saranno computati in base al numero medio mensile di quelli impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro. Hanno potere di iniziativa anche le organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del Ccnl applicato nell’unità produttiva ovvero le associazioni sindacali abilitate alla presentazione delle liste elettorali ai sensi del punto 4, sezione terza, a condizione che abbiano comunque effettuato adesione formale al contenuto dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo. L’iniziativa di cui al primo comma può essere esercitata, congiuntamente o disgiuntamente, da parte delle associazioni sindacali come sopra individuate. La stessa iniziativa, per i successivi rinnovi, potrà essere assunta anche dalla Rsu ove validamente esistente.

2. Composizione Alla costituzione della Rsu si procede mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti. Nella definizione dei collegi elettorali, al fine della distribuzione dei seggi, le associazioni sindacali terranno conto delle categorie degli operai, impiegati e quadri di cui all’art. 2095 del Codice civile, nei casi di incidenza significativa delle stesse nella base occupazionale dell’unità produttiva, per garantire un’adeguata composizione della rappresentanza. Nella composizione delle liste si perseguirà un’adeguata rappresentanza di genere, attraverso una coerente applicazione delle norme antidiscriminatorie.

3. Numero dei componenti Il numero dei componenti le Rsu sarà pari almeno a: a) 3 componenti per la Rsu costituita nelle unità produttive che occupano fino a 200 dipendenti; b) 3 componenti ogni 300 o frazione di 300 dipendenti nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti; c) 3 componenti ogni 500 o frazione di 500 dipendenti nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero di cui alla precedente lett. b).

4. Diritti, permessi, libertà sindacali, tutele e modalità di esercizio I componenti delle Rsu subentrano ai dirigenti delle Rsa nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti; per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3° della legge n. 300/1970. Sono fatte salve le condizioni di miglior favore eventualmente già previste nei confronti delle associazioni sindacali dai Ccnl o accordi collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della Rsa, diritti, permessi e libertà sindacali. Nelle stesse sedi negoziali si procederà, nel principio dell’invarianza dei costi, all’armonizzazione nell’ambito dei singoli istituti contrattuali, anche in ordine alla quota eventualmente da trasferire ai componenti della Rsu. In tale occasione, sempre nel rispetto dei principi sopra concordati, le parti definiranno in via prioritaria soluzioni in base alle quali le singole condizioni di miglior favore dovranno permettere alle organizzazioni sindacali con le quali si erano convenute, di mantenere una specifica agibilità sindacale. Sono fatti salvi in favore delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie il Ccnl applicato nell’unità produttiva, i seguenti diritti: a) diritto a indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite, spettanti a ciascun lavoratore ex art. 20, Legge n. 300/1970; b) diritto ai permessi non retribuiti di cui all’art. 24, Legge n. 300/1970; c) diritto di affissione di cui all’art. 25 della Legge n. 300 del 1970.

5. Clausola di armonizzazione Le Rsu subentrano alle Rsa e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge.

6. Durata e sostituzione nell’incarico I componenti della Rsu restano in carica per tre anni, al termine dei quali decadono automaticamente. In caso di dimissioni, il componente sarà sostituito dal primo dei non eletti appartenente alla medesima lista. Le dimissioni e conseguenti sostituzioni dei componenti le Rsu non possono concernere un numero superiore al 50% degli stessi, pena la decadenza della Rsu con conseguente obbligo di procedere al suo rinnovo, secondo le modalità previste dal presente accordo. Il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente della Rsu ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito.

7. Decisioni Le decisioni relative a materie di competenza delle Rsu sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo che recepisce i contenuti dell’Accordo interconfederale 28 giugno 2011. Le Rsu costituite nelle unità produttive di imprese plurilocalizzate potranno dare vita a organi o a procedure di coordinamento fissandone espressamente poteri e competenze. 8. Clausola di salvaguardia Le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo o che, comunque, aderiscano alla disciplina in essi contenuta partecipando alla procedura di elezione della Rsu, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire Rsa ai sensi dell’art. 19, della Legge 20 maggio 1970, n. 300. In particolare, le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque ad essi aderiscano, si impegnano a non costituire Rsa nelle realtà in cui siano state o vengano costituite Rsu. Il passaggio dalle Rsa alle Rsu potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo 31 maggio 2013. Sezione terza. Disciplina della elezione della Rsu

1. Modalità per indire le elezioni Almeno tre mesi prima della scadenza del mandato della Rsu, le associazioni sindacali di cui al punto 1, sezione seconda, del presente accordo, congiuntamente o disgiuntamente, o la Rsu uscente, provvederanno ad indire le elezioni mediante comunicazione da affiggere nell’apposito albo che l’azienda metterà a disposizione della Rsu e da inviare alla Direzione aziendale. Il termine per la presentazione delle liste è di 15 giorni dalla data di pubblicazione dell’annuncio di cui sopra; l’ora di scadenza si intende fissata alla mezzanotte del quindicesimo giorno.

2. Quorum per la validità delle elezioni Le organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti il presente accordo favoriranno la più ampia partecipazione dei lavoratori alle operazioni elettorali. Le elezioni sono valide ove alle stesse abbia preso parte più della metà dei lavoratori aventi diritto al voto. Nei casi in cui detto quorum non sia stato raggiunto, la Commissione elettorale e le organizzazioni sindacali operanti all’interno dell’azienda prenderanno ogni determinazione in ordine alla validità della consultazione in relazione alla situazione venutasi a determinare nell’unità produttiva.

3. Elettorato attivo e passivo Hanno diritto di votare tutti gli apprendisti, gli operai, gli impiegati e i quadri non in prova in forza all’unità produttiva alla data delle elezioni. Hanno altresì diritto al voto i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato che prestino la propria attività al momento del voto. Ferma restando l’eleggibilità degli operai, impiegati e quadri non in prova in forza all’unità produttiva, candidati nelle liste di cui al successivo punto 4, la contrattazione di categoria, che non abbia già regolato la materia in attuazione dell’Accordo del 20 dicembre 1993, dovrà regolare l’esercizio del diritto di elettorato passivo dei lavoratori non a tempo indeterminato.

4. Presentazione delle liste All’elezione della Rsu possono concorrere liste elettorali presentate dalle: a) organizzazioni sindacali di categoria aderenti a confederazioni firmatarie del presente accordo oppure dalle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva; b) associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo a condizione che: 1) accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo, dell’Accodo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013; 2) la lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti. Nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti la lista dovrà essere corredata da almeno tre firme di lavoratori. Non possono essere candidati coloro che abbiano presentato la lista ed i membri della Commissione elettorale. Ciascun candidato può presentarsi in una sola lista. Ove, nonostante il divieto di cui al precedente comma, un candidato risulti compreso in più di una lista, la Commissione elettorale di cui al punto 5, dopo la scadenza del termine per la presentazione delle liste e prima di procedere alla affissione delle liste stesse ai sensi del punto 7, inviterà il lavoratore interessato a optare per una delle liste. Il numero dei candidati per ciascuna lista non può superare di oltre 2/3 il numero dei componenti la Rsu da eleggere nel collegio.

5. Commissione elettorale Al fine di assicurare un ordinato e corretto svolgimento della consultazione, nelle singole unità produttive viene costituita una Commissione elettorale. Per la composizione della stessa ogni organizzazione abilitata alla presentazione di liste potrà designare un lavoratore dipendente dall’unità produttiva, non candidato.

6. Compiti della Commissione La Commissione elettorale ha il compito di: a) ricevere la presentazione delle liste, rimettendo immediatamente dopo la sua completa integrazione ogni contestazione relativa alla rispondenza delle liste stesse ai requisiti previsti dal presente accordo; b) verificare la valida presentazione delle liste; c) costituire i seggi elettorali, presiedendo alle operazioni di voto che dovranno svolgersi senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale; d) assicurare la correttezza delle operazioni di scrutinio dei voti; e) esaminare e decidere su eventuali ricorsi proposti nei termini di cui al presente accordo; f) proclamare i risultati delle elezioni, comunicando gli stessi a tutti i soggetti interessati, ivi comprese le associazioni sindacali presentatrici di liste.

7. Affissioni Le liste dei candidati dovranno essere portate a conoscenza dei lavoratori, a cura della Commissione elettorale, mediante affissione nell’albo di cui al punto 1, almeno otto giorni prima della data fissata per le elezioni.

8. Scrutatori È in facoltà dei presentatori di ciascuna lista di designare uno scrutatore per ciascun seggio elettorale, scelto fra i lavoratori elettori non candidati. La designazione degli scrutatori deve essere effettuata non oltre le 24 ore che precedono l’inizio delle votazioni.

9. Segretezza del voto Nelle elezioni il voto è segreto e diretto e non può essere espresso per interposta persona.

10. Schede elettorali La votazione ha luogo a mezzo di scheda unica, comprendente tutte le liste disposte in ordine di presentazione e con la stessa evidenza. In caso di contemporaneità della presentazione l’ordine di precedenza sarà estratto a sorte. Le schede devono essere firmate da almeno due componenti del seggio; la loro preparazione e la votazione devono avvenire in modo da garantire la segretezza e la regolarità del voto. La scheda deve essere consegnata a ciascun elettore all’atto della votazione dal Presidente del seggio. Il voto di lista sarà espresso mediante crocetta tracciata sulla intestazione della lista. Il voto è nullo se la scheda non è quella predisposta o se presenta tracce di scrittura o analoghi segni di individuazione.

11. Preferenze L’elettore può manifestare la preferenza solo per un candidato della lista da lui votata. Il voto preferenziale sarà espresso dall’elettore mediante una crocetta apposta a fianco del nome del candidato preferito, ovvero scrivendo il nome del candidato preferito nell’apposito spazio della scheda. L’indicazione di più preferenze date alla stessa lista vale unicamente come votazione della lista, anche se non sia stato espresso il voto della lista. Il voto apposto a più di una lista, o l’indicazione di più preferenze date a liste differenti, rende nulla la scheda. Nel caso di voto apposto ad una lista e di preferenze date a candidati di liste differenti, si considera valido solamente il voto di lista e nulli i voti di preferenza.

12. Modalità della votazione Il luogo e il calendario di votazione saranno stabiliti dalla Commissione elettorale, previo accordo con la Direzione aziendale, in modo tale da permettere a tutti gli aventi diritto l’esercizio del voto, nel rispetto delle esigenze della produzione. Qualora l’ubicazione degli impianti e il numero dei votanti lo dovessero richiedere, potranno essere stabiliti più luoghi di votazione, evitando peraltro eccessivi frazionamenti anche per conservare, sotto ogni aspetto, la segretezza del voto. Nelle aziende con più unità produttive le votazioni avranno luogo di norma contestualmente. Luogo e calendario di votazione dovranno essere portati a conoscenza di tutti i lavoratori, mediante comunicazione nell’albo esistente presso le aziende, almeno 8 giorni prima del giorno fissato per le votazioni.

13. Composizione del seggio elettorale Il seggio è composto dagli scrutatori di cui al punto 8, parte terza, del presente Accordo e da un Presidente, nominato dalla Commissione elettorale.

14. Attrezzatura del seggio elettorale A cura della Commissione elettorale ogni seggio sarà munito di un’urna elettorale, idonea ad una regolare votazione, chiusa e sigillata sino alla apertura ufficiale della stessa per l’inizio dello scrutinio. Il seggio deve inoltre poter disporre di un elenco completo degli elettori aventi diritto al voto presso di esso.

15. Riconoscimento degli elettori Gli elettori, per essere ammessi al voto, dovranno esibire al Presidente del seggio un documento di riconoscimento personale. In mancanza di documento personale essi dovranno essere riconosciuti da almeno due degli scrutatori del seggio; di tale circostanza deve essere dato atto nel verbale concernente le operazioni elettorali.

16. Compiti del Presidente Il Presidente farà apporre all’elettore, nell’elenco di cui al precedente punto 14, la firma accanto al suo nominativo.

17. Operazioni di scrutinio Le operazioni di scrutinio avranno inizio subito dopo la chiusura delle operazioni elettorali di tutti i seggi dell’unità produttiva. Al termine dello scrutinio, a cura del Presidente del seggio, il verbale dello scrutinio, su cui dovrà essere dato atto anche delle eventuali contestazioni, verrà consegnato – unitamente al materiale della votazione (schede, elenchi, ecc.) – alla Commissione elettorale che, in caso di più seggi, procederà alle operazioni riepilogative di calcolo dandone atto nel proprio verbale. La Commissione elettorale al termine delle operazioni di cui al comma precedente provvederà a sigillare in un unico piego tutto il materiale (esclusi i verbali) trasmesso dai seggi; il piego sigillato, dopo la definitiva convalida della Rsu Sarà conservato secondo accordi tra la Commissione elettorale e la Direzione aziendale in modo da garantirne la integrità e ciò almeno per tre mesi. Successivamente sarà distrutto alla presenza di un delegato della Commissione elettorale e di un delegato della Direzione.

18. Attribuzione dei seggi Ai fini dell’elezione dei componenti della Rsu, il numero dei seggi sarà ripartito, secondo il criterio proporzionale, con applicazione del metodo dei resti più alti, in relazione ai voti conseguiti dalle singole liste concorrenti. Nell’ambito delle liste che avranno conseguito un numero di voti sufficiente all’attribuzione di seggi, i componenti saranno individuati seguendo l’ordine dei voti di preferenza ottenuti dai singoli candidati e, in caso di parità di voti di preferenza, in relazione all’ordine nella lista.

19. Ricorsi alla Commissione elettorale La Commissione elettorale, sulla base dei risultati di scrutinio, procede alla assegnazione dei seggi e alla redazione di un verbale sulle operazioni elettorali, che deve essere sottoscritto da tutti i componenti della Commissione stessa. Trascorsi 5 giorni dalla affissione dei risultati degli scrutini senza che siano stati presentati ricorsi da parte dei soggetti interessati, si intende confermata l’assegnazione dei seggi di cui al primo comma e la Commissione ne dà atto nel verbale di cui sopra, che sarà trasmesso al comitato provinciale dei Garanti (o analogo organismo costituito per lo scopo di rilevare i risultati elettorali). Ove invece siano stati presentati ricorsi nei termini suddetti, la Commissione deve provvedere al loro esame entro 48 ore, inserendo nel verbale suddetto la conclusione alla quale è pervenuta. Copia di tale verbale e dei verbali di seggio dovrà essere notificata a ciascun rappresentante delle associazioni sindacali che abbiano presentato liste elettorali, entro 48 ore dal compimento delle operazioni di cui al comma precedente e notificata, a mezzo raccomandata con ricevuta ovvero a mezzo posta elettronica certificata, nel termine stesso, sempre a cura della Commissione elettorale, al Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) e alla Associazione industriale territoriale, che, a sua volta, ne darà pronta comunicazione all’azienda.

20. Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo) Contro le decisioni della Commissione elettorale è ammesso ricorso entro 10 giorni ad apposito Comitato provinciale dei garanti (o analogo organismo che dovesse essere costituito per lo scopo). Tale Comitato è composto, a livello provinciale, da un membro designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali, presentatrici di liste, interessate al ricorso, da un rappresentante dell’associazione industriale locale di appartenenza, ed è presieduto dal Direttore della Dtl o da un suo delegato. Il Comitato si pronuncerà entro il termine perentorio di 10 giorni.

21. Comunicazione della nomina dei componenti della Rsu La nomina dei componenti della Rsu, una volta definiti gli eventuali ricorsi, sarà comunicata per iscritto alla Direzione aziendale per il tramite della locale organizzazione imprenditoriale d’appartenenza a cura delle organizzazioni sindacali di rispettiva appartenenza dei componenti.

22. Adempimenti della Direzione aziendale La Direzione aziendale metterà a disposizione della Commissione elettorale l’elenco dei dipendenti aventi diritto al voto nella singola unità produttiva e quanto necessario a consentire il corretto svolgimento delle operazioni elettorali.

PARTE TERZA TITOLARITÀ ED EFFICACIA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE DI CATEGORIA E AZIENDALE

Il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale. Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni sindacali firmatarie del presente Accordo e dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel. Nel rispetto della libertà e autonomia di ogni Organizzazione sindacale, le Federazioni di categoria – per ogni singolo Ccnl – decideranno le modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni con proprio regolamento. In tale ambito, e in coerenza con le regole definite nella presente intesa, le Organizzazioni sindacali favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie. Ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’articolo 19 e seguenti della Legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del Ccnl definito secondo le regole del presente accordo. Fermo restando quanto previsto al secondo paragrafo, in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+1. I contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle Organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza, come sopra determinata, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice – le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto – saranno efficaci ed esigibili. La sottoscrizione formale dell’accordo, come sopra descritta, costituirà l’atto vincolante per entrambe le Parti. Il rispetto delle procedure sopra definite comporta che gli accordi in tal modo conclusi sono efficaci ed esigibili per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici nonchè pienamente esigibili per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa. Conseguentemente le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti. La contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge. I contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e del presente Accordo, o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, operanti all’interno dell’azienda, se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali convenute con il presente Accordo. In caso di presenza delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ex art. 19 della Legge n. 300/70, i suddetti contratti collettivi aziendali esplicano pari efficacia se approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati ai sensi della presente intesa. Ai fini di garantire analoga funzionalità alle forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, come previsto per le rappresentanze sindacali unitarie anche le rappresentanze sindacali aziendali di cui all’articolo 19 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, quando presenti, durano in carica tre anni. Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali con le modalità sopra indicate devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione sindacale espressione di una delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti. I contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative così definite esplicano l’efficacia generale come disciplinata nel presente accordo.

PARTE QUARTA DISPOSIZIONI RELATIVE ALLE CLAUSOLE E ALLE PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO E ALLE CLAUSOLE SULLE CONSEGUENZE DELL’INADEMPIMENTO

Le parti firmatarie dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 ovvero del presente Accordo convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate. Pertanto i contratti collettivi nazionali di categoria, sottoscritti alle condizioni di cui al Protocollo d’intesa 31 maggio 2013 e del presente accordo, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto. I medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa. Le disposizioni definite dai contratti collettivi nazionali di lavoro, al solo scopo di salvaguardare il rispetto delle regole concordate nell’accordo del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e nel presente accordo, dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa. I contratti collettivi aziendali, approvati alla condizioni previste e disciplinate nella parte terza del presente accordo, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori.

CLAUSOLE TRANSITORIE E FINALI Le parti firmatarie della presente intesa si impegnano a far rispettare le regole qui concordate e si impegnano, altresì, affinché le rispettive organizzazioni di categoria ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto pattuito nel presente accordo. In via transitoria, e in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia disciplinata dalla parte quarta del presente accordo, le parti contraenti concordano che eventuali comportamenti non conformi agli accordi siano oggetto di una procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale. A tal fine, le organizzazioni di categoria appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a richiedere alle rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato composto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro, che riveste la carica di Presidente, individuato di comune accordo o, in mancanza di accordo, a sorteggio fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo, entro 30 giorni, dalle parti stipulanti il presente accordo. Nella decisone del collegio, che dovrà intervenire entro dieci giorni dalla sua composizione, dovranno essere previste le misure da applicarsi nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro in caso di inadempimento degli obblighi assunti con il presente accordo e, in particolare, dell’obbligo di farne rispettare i contenuti alle rispettive articolazioni, a tutti i livelli. Viene poi istituita, a cura delle parti firmatarie del presente accordo, una Commissione Interconfederale permanente con lo scopo di favorirne e monitorarne l’attuazione, nonché di garantirne l’esigibilità. La Commissione sarà composta, pariteticamente, da sei membri, designati da Confindustria e dalle tre organizzazioni sindacali più rappresentative al momento della composizione della Commissione, tra esperti in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Un settimo componente della Commissione Interconfederale, che assumerà funzioni di Presidente, sarà individuato fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo. La Commissione potrà avvalersi della consulenza di esperti. Ai componenti non spetta alcuna indennità. La Commissione è nominata per un triennio e i suoi membri possono essere confermati una sola volta. Fatte salve le clausole che disciplinano l’esigibilità per i singoli contratti collettivi nazionali di categoria, la Commissione Interconfederale stabilisce, con proprio regolamento, da definire entro tre mesi dalla stipula del presente accordo, le modalità del proprio funzionamento ed i poteri di intervento per garantire l’esigibilità dei contenuti del presente accordo, definendo ogni controversia anche attraverso lo svolgimento di un giudizio arbitrale. La Commissione Interconfederale provvede all’autonoma gestione delle spese relative al proprio funzionamento, nei limiti degli stanziamenti previsti da un apposito fondo istituito a tale scopo dalle parti stipulanti il presente accordo. Il presente accordo potrà costituire oggetto di disdetta e recesso ad opera delle parti firmatarie, previo preavviso pari a 4 mesi”.

Funzionari del Pubblico Impiego: non sempre per far valere i propri diritti è necessario ricorrere al Giudice

Numerose sono le vie che si aprono al dipendente pubblico vittima di una condotta negativa dell’amministrazione di appartenenza o al suo sindacato.

Nell’illustrare queste particolari sedi di confronto, possiamo in qualche modo tentare una classificazione tenendo conto della procedura attuata e del tipo d’intervento richiesto

A) Sedi amministrative interne

Tratteremo al punto a di tutti quei reclami che possono essere attuati in sede di pubblica amministrazione, spesso su temi che coinvolgono la buona amministrazione e di riflesso anche il trattamento del personale,

Indicheremo i principali organi cui possono essere inviati esposti o richieste di intervento quando il malgoverno della cosa pubblica tocca anche i dipendenti:

Elenchiamo per praticità gli organi in questione:

  1. CUG – Comitati Unici di Garanzia
  2. Ispettorato Per la Funzione Pubblica.
  3. Nucleo della Concretezza.
  4. ANAC
  5. La Consulta Nazionale per l’Integrazione in ambiente di lavoro delle persone con disabilità.

B) Sedi contrattuali

  1. L’interpretazione autentica dei contratti collettivi
  2. La prevenzione del mobbing.
  3. La conciliazione facoltativa delle controversie

C) Sedi precontenziose

  1. La conciliazione facoltativa delle controversie.
  2. Il contenzioso stragiudiziale in materia di trasferimenti.
  3. La conciliazione in tema di provvedimenti disciplinari.
  4. Procedure contrattuali di conciliazione ed arbitrato. Il Contratto Quadro Nazionale.

D) La tutela penale o meglio la denuncia per abuso d’ufficio.

A) Sedi amministrative interne

  1. I Comitati Unici di Garanzia. – CUG.

Sono stati istituiti mediante l’articolo 21 legge 4 novembre 2010 n.183 con il nome di Comitati Unici di Garanzia per le Pari Opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni.

Nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato tra cui la Scuola, la realizzazione ed i compiti sono previsti dall’articolo 57 del DLGS 165/2001.

Il comitato volto agli interventi in tema di pari opportunità e discriminazioni di genere, mira anche per definizione ed obiettivo alla realizzazione di un contesto lavorativo improntato al benessere dei lavoratori nell’intento di garantire il miglioramento dell’organizzazione del lavoro.

Esso è sorto con l’intenzione del legislatore di sostituire i vari comitati per la prevenzione del mobbing e delle discriminazioni di origine contrattuale , razionalizzandone e rafforzandone le competenze.

La legge inoltre ne amplia l’azione oltre alle discriminazioni legate al genere e quindi ad ogni altra forma di discriminazione, diretta ed indiretta, che possa discendere da tutti quei fattori di rischio più volte enunciati dalla legislazione comunitaria: età, orientamento sessuale, razza, origine etnica, disabilità e lingua, estendendola all’accesso, al trattamento e alle condizioni di lavoro, alla formazione, alle progressioni in carriera e alla sicurezza.

È prevista la costituzione di un CUG presso ogni amministrazione.

I suoi componenti sono di nomina sindacale e dell’amministrazione.

A titolo esemplificativo, il CUG esercita i compiti di seguito seguenti indicati

Propositivi su:

– predisposizione di piani di azioni positive, per favorire l’uguaglianza sostanziale sul lavoro tra uomini e donne;

– promozione e/o potenziamento di ogni iniziativa diretta ad attuare politiche di conciliazione vita privata/lavoro e quanto necessario per consentire la diffusione della cultura delle pari opportunità;

– temi che rientrano nella propria competenza ai fini della contrattazione integrativa;

– iniziative volte ad attuare le direttive comunitarie per l’affermazione sul lavoro della pari dignità delle persone nonché azioni positive al riguardo;

– analisi e programmazione di genere che considerino le esigenze delle donne e quelle degli uomini (es. bilancio di genere);

– diffusione delle conoscenze ed esperienze, nonché di altri elementi informativi, documentali, tecnici e statistici sui problemi delle pari opportunità e sulle possibili soluzioni adottate da altre amministrazioni o enti, anche in collaborazione con la Consigliera di parità del territorio di riferimento;

– azioni atte a favorire condizioni di benessere lavorativo;

– azioni positive, interventi e progetti, quali indagini di clima, codici etici e di condotta, idonei a prevenire o rimuovere situazioni di discriminazioni o violenze sessuali, morali o psicologiche – mobbing – nell’amministrazione pubblica di appartenenza.

Consultivi, formulando pareri su:

– progetti di riorganizzazione dell’amministrazione di appartenenza;

– piani di formazione del personale;

– orari di lavoro, forme di flessibilità lavorativa e interventi di conciliazione;

– criteri di valutazione del personale,

– contrattazione integrativa sui temi che rientrano nelle proprie competenze.

Di verifica su:

– risultati delle azioni positive, dei progetti e delle buone pratiche in materia di pari opportunità;

– esiti delle azioni di promozione del benessere organizzativo e prevenzione del disagio lavorativo;

– esiti delle azioni di contrasto alle violenze morali e psicologiche nei luoghi di lavoro – mobbing;

– assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza, all’origine etnica, alla disabilità, alla religione o alla lingua, nell’accesso, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, promozione negli avanzamenti di carriera, nella sicurezza sul lavoro.

Il CUG opera in stretto raccordo con il vertice amministrativo dell’ente di appartenenza ed esercita le proprie funzioni utilizzando le risorse umane e strumentali, idonee a garantire le finalità previste dalla legge, che l’amministrazione metterà a tal fine a disposizione, anche sulla base di quanto previsto dai contratti collettivi vigenti.

Le amministrazioni forniscono ai CUG tutti i dati e le informazioni necessarie a garantirne l’effettiva operatività.

Quali tipi di interventi ad evitare il contenzioso possono essere richiesti a quest’organo?

Ritengo che difficilmente possa essere sottoposto al CUG un intervento su di un caso singolo concernente mobbing o problemi di carriera.

Ritengo quest’organo più adatto per interventi di carattere generale e di vasta portata mediante verifica di situazioni di cattiva organizzazione, discriminazione, cattivo utilizzo del personale. In ogni caso ritengo che ben possa quest’organo effettuare segnalazioni alle amministrazioni in merito a situazioni negative rilevate.

Il CUG può ottenere dall’amministrazione documentazione e relazioni concernenti i fatti dedotti.

La sua operatività è limitata alle discriminazioni, al mobbing, alla cattiva organizzazione delle carriere, alla tutela del benessere lavorativo.

Esso può operare anche in collaborazione con gli OIV (Organismi Interni di Valutazione) in tema di questioni attinenti le valutazioni del personale.

2. L’Ispettorato per la Funzione Pubblica

Trattasi di organo previsto dall’articolo 60, comma 6 del DLGS 165/2001, costituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento Funzione Pubblica.

Esso vigila e svolge verifiche per accertare la conformità dell’azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, con riferimento particolare alla semplificazione delle procedure, al corretto conferimento degli incarichi, all’esercizio dei poteri disciplinari, al controllo dei costi.

Questo organismo possiede poteri ispettivi in quanto collabora alle visite dei Servizi ispettivi della Ragioneria Generale dello Stato, può avvalersi dell’apporto della Guardia di Finanza, e dispone di un nucleo di 10 funzionari, può accedere ai dati in possesso del Dipartimento della Funzione Pubblica.

L’Ispettorato, inoltre, al fine di corrispondere a segnalazioni da parte di cittadini o pubblici dipendenti circa presunte irregolarità, ritardi o inadempienze delle amministrazioni di cui all’articolo 11, comma 2, può richiedere chiarimenti e riscontri in relazione ai quali l’amministrazione interessata ha l’obbligo di rispondere, anche per via telematica, entro quindici giorni. A conclusione degli accertamenti, gli esiti delle verifiche svolte dall’ispettorato costituiscono obbligo di valutazione, ai fini dell’individuazione delle responsabilità e delle eventuali sanzioni disciplinari di cui all’articolo 55, per l’amministrazione medesima. Gli ispettori, nell’esercizio delle loro funzioni, hanno piena autonomia funzionale ed hanno l’obbligo, ove ne ricorrano le condizioni, di denunciare alla Procura generale della Corte dei conti le irregolarità riscontrate. 

Come è dato a vedere, i poteri attribuiti all’Ispettorato sono alquanto rilevanti.

Il campo d’azione può anche estendersi a questioni riguardanti il personale, ma ritengo, esclusivamente a quelle che involgono non solo violazioni del contratto o delle leggi sul lavoro, ma che comportino anche aspetti di cattivo funzionamento dell’apparato pubblico, di abusi d’ufficio, di sprechi di denaro.

Principalmente l’azione dell’Ispettorato è quella di garantire l’efficacia e l’imparzialità dell’azione amministrativa, ma nulla vieta che di fronte ad attività illecite dell’amministrazione nei confronti dei dipendenti o della contrattazione collettiva idonee a ledere la funzionalità della pubblica amministrazione se ne possa chiedere l’intervento.

In tema di amministrazione del personale, l’Ispettorato è intervenuto per la mancata analisi degli effettivi fabbisogni di personale e  per la violazione delle disposizioni in materia di progressioni orizzontali e verticali, per la violazione della disciplina che regola il conferimento degli incarichi di collaborazione, l’assenza di una metodologia per la graduazione delle posizioni organizzative, l’illegittima liquidazione della retribuzione di risultato e l’irregolare incremento della retribuzione di posizione del Segretario Comunale, per la costituzione e l’utilizzo del fondo accessorio del personale di comparto, nonché l’attribuzione della retribuzione di risultato ai titolari di posizione organizzativa, in contrasto con la normativa vigente e per l’inosservanza del principio di riduzione della spesa per il personale.

La richiesta di intervento dovrà essere strutturata considerando sempre la prevalenza degli aspetti della questione aventi rilievo generale sulla pubblica amministrazione.

Ad integrazione di questi interventi, sempre presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, si trova l’ufficio per l’organizzazione ed il lavoro pubblico cui è demandata la materia dell’organizzazione degli uffici e del lavoro pubblico nonché le politiche del personale in tema di assunzioni, concorsi, mobilità, corrispondenze professionali, contratti flessibili, condizioni di lavoro, conferimento di incarichi dirigenziali, gestione del contenzioso in materia.

L’Ufficio è a sua volta articolato nei seguenti servizi:

3. Il Nucleo della Concretezza. (introdotto con la legge 56/2019 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale da pochi giorni)

In tema di controlli, interessa pure la recentissima costituzione del nucleo della concretezza.

Questo intervento legislativo con l’articolo 1 interessa ed amplia la portata dell’articolo 60 del DLGS 165/2001 già esaminato in riferimento alle funzioni dell’Ispettorato che ora esamineremo e commenteremo nell’ordine:

Quivi il primo comma dell’articolo 1 della legge 56/2019 (concretezza) enuncia la costituzione del Nucleo della Concretezza destinato ad operare senza eliminare l’Ispettorato già previsto dall’articolo 60 del DLGS 165/2001 e dell’Unità per la Semplificazione.

Sono quindi di seguito al comma 3 chiariti il ruolo e la missione del Nucleo per la Concretezza che unitamente al già esistente Ispettorato di cui all’articolo 60 del DLGS 165 / 2001 dovranno attuare piani per la concreta attuazione di misure concrete atte a favorire il buon funzionamento dell’Amministrazione, anche effettuando visite e sopralluoghi.

Le attribuzioni del Nucleo della Concretezza consistono nella collaborazione con l’Ispettorato per la Funzione Pubblica, effettuando sopralluoghi e visite per rilevare lo stato di attuazione dei provvedimenti in tema di efficienza amministrativa, nonché la gestione e l’organizzazione della pubblica amministrazione in base a criteri di efficienza ed economicità, proponendo eventuali interventi correttivi, imponendo pure dei tempi per l’effettuazione.

Ogni sopralluogo dovrà essere documentato e verbalizzato, indicando le eventuali misure correttive suggerite.

Quindi, le pubbliche amministrazioni provvedono alla comunicazione al Nucleo della Concretezza dell’avvenuta attuazione delle misure correttive entro quindici giorni dall’attuazione medesima, fermo restando, per le pubbliche amministrazioni di cui al terzo periodo del comma 3, il rispetto del termine assegnato dal Nucleo medesimo.

Sono di conseguenza previste sanzioni di natura amministrativa, di responsabilità dirigenziale e disciplinare e con la creazione anche di un elenco delle amministrazioni inadempienti.

4. ANAC. La tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.

Anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad una norma che se, come scopo principale, tutela l’integrità della pubblica amministrazione, d’altro lato, e di riflesso tutela anche eventuali ausi contro il dipendente che segnala l’irregolarità, facilitandone la tutela.

Stabilisce l’articolo 54 bis del DLGS 165/2001 (tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti).

La norma è rivolta a qualsiasi pubblico dipendente che, dopo aver denunciato al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, o all’Autorità Nazionale Anticorruzione ANAC o all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile, condotte illecite in seno all’amministrazione, venga demansionato, licenziato o trasferito o sottoposto a misura organizzativa avente riflessi negativi sul suo rapporto di lavoro, può direttamente, o tramite il sindacato di appartenenza, rivolgersi all’ANAC che a sua volta interesserà il Dipartimento per la Funzione Pubblica per l’adozione dei provvedimenti di competenza.

Pregnanti sono in questo caso i termini di tutela, in quanto il comma 6 dell’articolo 54 bis prevede che qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.

E’ previsto inoltre che qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche , fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi nel trattare la segnalazione ricevuta, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga invece accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.

A rafforzare le previsioni si qui esposte, la norma prevede che è a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente coinvolto dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli.

E’ previsto inoltre che il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.

Le tutele invece, non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.

5. Consulta Nazionale per l’Integrazione in ambiente di lavoro delle persone con disabilità.

Quest’organo costituito presso il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri in base all’articolo 39 bis del DLGS 165/2001 si occupa dell’integrazione in ambiente di lavoro delle persone con disabilità.

Tra le funzioni della Consulta vi è la verifica dello stato di attuazione e della corretta attuazione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della disabilità da parte delle amministrazioni, con particolare riferimento alle forme di agevolazione previste dalla legge e alla complessiva disciplina.

Quest’organo potrà essere attivato, senza ricorrere al giudice, qualora l’inserimento lavorativo del disabile non sia correttamente attuato dalla pubblica amministrazione.

B) In sede contrattuale

1. L’interpretazione autentica dei contratti collettivi

Allorquando insorga una controversia sull’interpretazione dei contratti collettivi, le parti che li hanno sottoscritti si incontrano per definire consensualmente il significato delle clausole controverse. E’ quanto prevede l’articolo 49 del DLGS 165/2001.

Qualora le parti raggiungano l’accordo interpretativo, esse dovranno poi seguire tutta la procedura di contrattazione collettiva prevista dall’articolo 47 del DLGS 165/2001. Una volta stipulata la clausola interpretativa essa sostituirà sin dall’inizio la clausola di dubbia interpretazione, ponendo fine ad ogni contenzioso ed evitando l’avvio di ulteriori contenziosi.

2. La prevenzione del mobbing 

Anche il fenomeno del Mobbing può trovare definizione in sede contrattuale.

L’articolo 98 del già citato CCNL Personale Comparto Istruzione e Ricerca nel delimitare il proprio campo di applicazione fornisce una definizione del mobbing non molto simile a quella ripetutamente aggiornata dalla letteratura in materia.

Lo stesso contratto prevede l’istituzione di uno specifico comitato paritetico presso ciascun Ufficio Scolastico Regionale al fine di raccogliere dati in merito alla diffusione del fenomeno, individuarne le cause e le situazioni scatenanti, proporre azioni atte alla prevenzione, formulare proposte per definire dei codici di condotta.

È altresì prevista la costituzione di sportelli di ascolto e l’istituzione della figura del Consigliere di Fiducia.

Sembra peraltro prevalere una funzione di sensibilizzazione e di prevenzione, piuttosto che l’intervento di fronte a casi singoli.

C) In sede precontenziosa

  1. La conciliazione facoltativa delle controversie.

È anch’essa prevista dalla citata contrattazione collettiva all’articolo 135. Il tentativo di conciliazione è di regola facoltativo.

Presso le articolazioni territoriali dell’amministrazione (MPI) è istituito un ufficio con compiti di segreteria cui è annesso un apposito albo per la pubblicazione degli atti della procedura.

La procedura si apre con una domanda che, sottoscritta dalla parte, dovrà essere depositata ( o spedita mediante raccomandata) presso l’ufficio del contenzioso dell’amministrazione competente e presso l’ufficio di segreteria cui si è fatto cenno sopra.

La procedura impone la deduzione precisa e scritta dei termini della controversia. È quindi previsto un primo sommario esame al termine del quale l’amministrazione può accogliere la richiesta del dipendente. Diversamente si terrà la convocazione e la comparizione delle parti.

Il tentativo di conciliazione deve esaurirsi nel termine di cinque giorni dalla data di convocazione delle parti. Se il tentativo riesce, le parti sottoscrivono un processo verbale, predisposto dall’ufficio di segreteria, che costituisce titolo esecutivo, previo decreto del giudice del lavoro competente ai sensi dell’articolo 411 del codice di procedura civile. Il processo verbale relativo al tentativo obbligatorio di conciliazione è depositato a cura di una delle parti o di un’associazione sindacale, presso Direzione provinciale del lavoro competente, che provvede a sua volta a depositarlo presso la cancelleria del tribunale ai sensi dell’articolo 411 del codice di procedura civile per la dichiarazione di esecutività. Il verbale che dichiara non riuscita la conciliazione è acquisito nel successivo giudizio ai sensi e per quanto previsto dall’articolo 66, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

2. La conciliazione in tema di provvedimenti disciplinari

Successivamente all’entrata in vigore del DLGS 150/2009 (Brunetta) che ha modificato l’intero impianto disciplinare del pubblico impiego, lo spazio per la soluzione transattiva nel campo disciplinare è quanto mai ristretto.

L’articolo 55 DLGS 165/2001 al comma 3 stabilisce che la contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari. Resta salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della sanzione. La sanzione concordemente determinata all’esito di tali procedure non può essere di specie diversa da quella prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l’infrazione per la quale si procede e non è soggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano l’inizio e la conclusione.

In base a tale previsione, L’autorità disciplinare competente ed il dipendente, in via conciliativa, possono procedere alla determinazione concordata della sanzione disciplinare da applicare fuori dei casi per i quali la legge ed il contratto collettivo prevedono la sanzione del licenziamento, con o senza preavviso.

La sanzione concordemente determinata in esito alla procedura conciliativa non può essere di specie diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto collettivo per l’infrazione per la quale si procede e non è soggetta ad impugnazione.

L’autorità disciplinare competente o il dipendente può proporre all’altra parte, l’attivazione della cennata procedura conciliativa che non ha natura obbligatoria, entro il termine dei cinque giorni successivi alla audizione del dipendente per il contraddittorio a sua difesa, ai sensi dell’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001. Dalla data della proposta sono sospesi i termini del procedimento disciplinare, di cui all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165/2001. La proposta dell’autorità disciplinare o del dipendente e tutti gli altri atti della procedura sono comunicati all’altra parte con le modalità dell’art. 55-bis, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001.

 La proposta di attivazione deve contenere una sommaria prospettazione dei fatti, delle risultanze del contraddittorio e la proposta in ordine alla misura della sanzione ritenuta applicabile. La mancata formulazione della proposta entro il termine comporta la decadenza delle parti dalla facoltà di attivare ulteriormente la procedura conciliativa.

La disponibilità della controparte ad accettare la procedura conciliativa deve essere comunicata entro i cinque giorni successivi al ricevimento della proposta, con le modalità dell’art. 55-bis, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001. Nel caso di mancata accettazione entro il suddetto termine, da tale momento riprende il decorso dei termini del procedimento disciplinare, di cui all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165/2001. La mancata accettazione comporta la decadenza delle parti dalla possibilità di attivare ulteriormente la procedura conciliativa.

Ove la proposta sia accettata, l’autorità disciplinare competente convoca nei tre giorni successivi il dipendente, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato.

Se la procedura conciliativa ha esito positivo, l’accordo raggiunto è formalizzato in un apposito verbale sottoscritto dall’autorità disciplinare e dal dipendente e la sanzione concordata dalle parti, che non è soggetta ad impugnazione, può essere irrogata dall’autorità disciplinare competente.

 In caso di esito negativo, questo sarà riportato in apposito verbale e la procedura conciliativa si estingue, con conseguente ripresa del decorso dei termini del procedimento disciplinare, di cui all’articolo 55-bis del d.lgs. n. 165/2001.

In ogni caso la procedura conciliativa deve concludersi entro il termine di trenta giorni dalla contestazione e comunque prima dell’irrogazione della sanzione. La scadenza di tale termine comporta la estinzione della procedura conciliativa eventualmente già avviata ed ancora in corso di svolgimento e la decadenza delle parti dalla facoltà di avvalersi ulteriori tutele.

3. Procedure contrattuali di conciliazione ed arbitrato. Il Contratto Quadro Nazionale.

L’accordo sindacale che disciplina nell’ambito del pubblico impiego la conciliazione e l’arbitrato è stato siglato tra l’ARAN e le Organizzazioni Sindacali in data 23 gennaio 2001 presso la sede dell’ARAN. Esso stabilisce in maniera compiuta la procedura al fine di compromettere in arbitri le controversie nel pubblico impiego.

 Fonte normativa del suddetto CCNQ è infatti l’art.412 ter c.p.c che stabilisce che i CCNL possano prevedere la facoltà per le parti di deferire ad arbitri la decisione su una controversia di lavoro, in alternativa al ricorso al Giudice del lavoro.

Ricordiamo che sino al 2010, il tentativo di conciliazione prima di esperire controversia giudiziale era obbligatorio.

Con la legge 183/2010, il tentativo era ridotto a facoltativo, ma era introdotta una sostanziale modifica all’articolo 412 del codice di procedura civile che prevedeva come le parti in sede di tentativo di conciliazione, peraltro facoltativo, potevano compromettere la controversia in arbitri.

Un tanto è sancito all’articolo 412 del codice di procedura civile (Risoluzione arbitrale della controversia) che stabilisce che in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.

Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare:

1) il termine per l’emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato, spirato il quale l’incarico deve intendersi revocato;

2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento e dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all’articolo 1372 e all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile.

D) Il rimedio penale. La tutela penale o meglio la denuncia per abuso d’ufficio

Talora di fronte ad una condotta lesiva dei diritti di un dipendente da parte dell’amministrazione può essere esperito il rimedio penale sicuramente più semplice ed ufficioso rispetto al ricorso innanzi al giudice del lavoro.

Allorquando il rapporto di lavoro era completamente disciplinato dal diritto amministrativo, era pienamente applicabile in caso di illeciti che coinvolgevano il rapporto, il reato di abuso d’ufficio.

Con il DLGS 29/93 il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione era ricondotto al contratto e quindi al diritto civile.

Ciò ha notevolmente ridimensionato l’applicazione in tale ambito della fattispecie di cui all’articolo 323 CP.

Esso è sicuramente applicabile laddove la pubblica amministrazione opera ancora nell’ambito del diritto amministrativo. Ci riferiamo all’attività concorsuale, alla macro-organizzazione degli uffici.

In tal senso, la Cassazione penale 5.3.2014 n.15158 ha ritenuto che commette il delitto di abuso d’ufficio il pubblico ufficiale che procuri illegittimamente assunzioni ad un pubblico impiego, essendo configurabile il profitto o il vantaggio ingiusto di natura patrimoniale nella attribuzione della posizione impiegatizia e nell’acquisizione del relativo “status”.

Non si ritiene invece costituisca abuso d’ufficio la violazione da parte del pubblico ufficiale delle norme collettive contrattuali applicabili ai rapporti di pubblico impiego (Nella specie, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza con la quale i giudici di merito avevano condannato per abuso d’ufficio un pubblico ufficiale per non aver applicato l’art. 28 del C.C.N.L.). Cassazione penale – Sez. VI, 03/11/2005, n. 13511.

Nel caso invece di mobbing e maltrattamenti da cui derivino lesioni dell’integrità fisica e psichica del dipendente è possibile procedere con semplice denuncia penale, salvo la prova dei fatti dedotti.

Fabio Petracci

Proposte di intervento su rappresentatività, salario minimo e contratti “pirata”

Riconduzione ad ordine del campo contrattuale – Salario Minimo – Interventi sulla rappresentatività. La linea di CIU – Unionquadri

E’ forte il richiamo mediatico ai cosiddetti “Contratti Pirata” ed alla violazione dei minimi contrattuali, realtà che imporrebbero l’adozione di un minimo orario legale e più stringenti normative per la rappresentanza sindacale e la contrattazione.

Ha fatto discutere mesi orsono la circolare n.3/2018 dell’Ispettorato del Lavoro che negava qualunque tipo di riconoscimento ai contratti collettivi che non riportavano la sottoscrizione dei tradizionali sindacati definiti “maggiormente rappresentativi.”

La situazione reale.

In realtà, il lavoro subordinato trova un ampia copertura contrattuale con il conseguente rispetto del salario minimo.

Sussiste comunque una rilevante proliferazione dei contratti collettivi che spesso presentano minimi tabellari inferiori rispetto a quelli sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Trattasi di sistemi contrattuali che presentano un livello salariale molto più basso rispetto alla normalità dei contratti collettivi.

Il fenomeno appare accentuato e rilevante sino al 50% nel settore del tessile. La stipula di contratti sotto il trattamento minimo può toccare anche la regolamentazione di altri istituti soprattutto in tema di flessibilità.

Questa tipologia di contrattazione sorgeva all’inizio degli anni 90 nel settore del turismo e dell’agricoltura. Spesso convergevano in un nuovo contratto declaratorie contrattuali tratte da altri settori produttivi.

I primi fenomeni si manifestavano all’ inizio degli anni 90 nel  settore del turismo e dell’ agricoltura mediante la trasposizione nei contratti di mansioni tratte da altri settori produttivi ed inserite in altri contratti collettivi o in altra contrattazione all’uopo creata. Si verificava così un significativo decentramento settoriale.

Questo sistema era destinato ad allargarsi dalle piccole imprese verso sistemi produttivi di maggiori dimensioni, con l’avanzare della crisi e l’aumento del livello di competizione tra le imprese, con ripercussioni anche sulla concorrenza.

La vera emergenza.

La vera emergenza è verificata però tra i lavoratori a rischio povertà che non coincidono quasi mai con le categorie toccate da questi contratti, ma che si identificano in coloro che subiscono un impiego part time involontario con una notevole riduzione delle ore lavorate e retribuite.

Il contratto “pirata”

In ogni caso, la contrattazione così definita come “pirata” presenta due indici di riferimento.

Da una parte, il riscontro oggettivo di clausole non rispettose dei minimi contrattuali e di trattamenti legalmente imposti.

Dall’altra parte, le caratteristiche dei sottoscrittori che non sempre appaiono soggetti dotati di rappresentatività.

In merito al primo aspetto, l’indagine può in termini relativamente semplici acclarare la natura del contratto e dei suoi contenuti.

In tema all’insussistenza dei requisiti di rappresentatività in capo alle parti stipulanti, il requisito dovrebbe ritenersi un mero indice, salvo che, non ci si addentri nelle problematiche ancora aperte concernenti i requisiti di rappresentatività che ancora non hanno trovato piena definizione legale.

Va anche valutata la reale portata del fenomeno contrattuale all’esame anche in relazione ai rimedi già esperibili ed esistenti contro la violazione dei minimi contrattuali.

Rimedi attuabili.

Un primo correttivo seppure non sempre efficace e di agevole soluzione, è dato dall’articolo 36 della Costituzione, esso è definito come un rimedio residuo dal momento che richiede l’intervento giudiziale.

Ulteriore rimedio e non di poco conto è individuato nella disciplina previdenziale che stabilisce il minimo contributivo nei termini di cui articolo 1 DL 338/1989 e articolo 2, comma 25, legge n.549 del 1995).

Trattasi di normative che uniformano il calcolo dei contributi previdenziali ad un trattamento minimo individuabile nella legge e nei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale.

Consiglia inoltre l’applicazione di minimi salariali conformi anche la normativa in tema di appalti che impone il principio di solidarietà tra appaltante ed appaltatore e consiglia quindi l’applicazione di un contratto al riparo di contestazioni dell’INPS.

Inoltre anche le norme concernenti la detassazione di premi ed incentivi di cui all’articolo 51 del DLGS 81/2015 consigliano l’applicazione dei contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o dalle RSA aziendali.

Dunque non è tanto il mancato rispetto dei minimi contrattuali a determinare l’esiguità di molti trattamenti retributivi, quanto piuttosto l’uso forzato e talora truffaldino del part time che talvolta cela veri e propri rapporti a tempo pieno sottratti ad ogni disciplina contrattuale e di legge.

Quali interventi.

Il controllo amministrativo.

I possibili rimedi debbono tener conto di queste considerazioni.

Il primo e possibile rimedio è dato da un assiduo e costante controllo da parte della pubblica amministrazione che non appare particolarmente difficile dal momento che all’esame è principalmente la clausola contrattuale che riguarda i minimi contributivi.

Il salario minimo.

Il secondo rimedio è individuato nell’imposizione di un salario minimo.

La legge delega 183/2014 (delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali all’articolo 1, comma 7, lettera g) prevedeva  l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Un eventuale soluzione normativa di questo tipo pur presentando problematiche connesse al rispetto della concorrenza, nonché aspetti critici concernenti l’adattamento alle varie congiunture economiche, dovrebbe imporre dei minimi che siano effettivamente tali e che non impongano ai fini del loro rispetto un appiattimento del sistema retributivo soprattutto a sfavore delle categorie a maggiore specializzazione, comprimendo trattamenti accessori, incentivanti e benefits aziendali.

Si potrebbe ad evitare un tanto stabilire un minimo orario particolarmente limitato che comprenda al proprio interno anche il valore di benefits e welfare.

Una migliore definizione della rappresentatività e della legittimazione a contrattare.

Un ulteriore via da percorrere per selezionare gli attori contrattuali è quella di stabilire dei criteri certi di rappresentatività tali da non violare i principi contenuti all’articolo 39 della Costituzione e di resistere di fronte a dissociazioni e resistenze di altre associazioni sindacali.

Numerosi sono stati gli interventi delle principali confederazioni sindacali per attuare delle regole atte a legittimare i soggetti e le rappresentanze sindacali e quindi a fornire alla contrattazione quelle caratteristiche di stabilità e certezza che da molte parti sono auspicate.

Contiamo numerosi accordi intersindacali intervenuti sul tema nel tentativo di disciplinare la materia.

Appare quanto mai difficile che i soggetti destinati ad essere regolamentati e legittimati possano da soli e senza il concorso dei soggetti terzi dar luogo a delle regole complete ed inoppugnabili.

Ciò significa che dovrebbe rendersi necessario l’intervento legislativo che per dare totale stabilità al sistema dovrebbe essere profondo partendo dall’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.

Il superamento del dato quantitativo.

Lo stesso intervento dovrebbe partire da un concetto di rappresentatività basato non solo su di un dato numerico e quantitativo, ma che dovrebbe invece tener adeguatamente conto di una rappresentatività garantita per quelle realtà lavorative o per quelle categorie con connotazioni specifiche anche in assenza di numeri di grande entità che le stesse proprio per la loro stessa natura non possono raggiungere.

Nel caso dei quadri, la contrattazione collettiva dei sindacati maggiormente rappresentativi, dovrebbe coesistere con uno spazio contrattuale riservato alle clausole di interesse per la categoria gestito da specifiche rappresentanze degli stessi.

Su questa strada va muovendosi il sindacato CIU – Unionquadri con il manifesto contrattuale dei quadri che vuole esaltare la specificità contrattuale e professionale della categoria.

Alla legge, si chiede poi di individuare specifici spazi elettorali e di rappresentanza per la categoria dei quadri.

La nostra posizione.

In sostanza, la posizione di CIU – Unionquadri è la seguente:

  • Contratti “pirata” – assoluta volontà di affrontare e risolvere il problema nei suoi limiti reali non coinvolgendovi fittiziamente tutte le associazioni sindacali minoritarie o non aderenti a CGIL – CISL – UIL.

Quindi individuazione di tali contratti esclusivamente sulla base dell’individuazione di minimi contrattuali manifestamente difformi e di clausole contrarie alle vigenti leggi, e non sulla base delle associazioni firmatarie.

  • Salario minimo.   Ciu Unionquadri non è convinta della necessità di questa misura, in quanto l’imposizione di un minimo di paga oraria soprattutto nei termini elevati prospettati, coinvolgerebbe risorse destinate a premiare il merito e la professionalità, ad incrementare gli istituti premiali e finirebbe, come già accaduto con la contingenza a dar luogo ad un insopportabile appiattimento retributivo. Ove la misura trovasse accoglimento, nel minimo di legge andrebbe computato il welfare aziendale ed ogni istituto premiale non tassato.
  • Revisione della rappresentatività sindacale.  Interesse di CIU Unionquadri per una contrattazione su clausole specifiche della categoria con un riconoscimento sul punto di rappresentatività e nel caso di intervento legislativo, adozione di norme di protezione/riserva che garantiscano la rappresentanza al di là del mero dato numerico.

Relazione sull’attività svolta dal Centro Studi Corrado Rossitto di CIU Unionquadri

Introduzione

La nostra organizzazione superata una fase di transizione abbastanza complessa sembra aver imboccato la strada del rinnovamento che paradossalmente è un ritorno al passato con il recupero dei valori fondanti rapportato alla nuova situazione socio – economica e culturale in essere.
Il Centro Studi formato verso la fine del 2015, si pone l’obiettivo di contribuire ad individuare le tematiche da affrontare, fornendo idee e documentazione.

Convegni

L’attività del Centro Studi si apriva in maniera tangibile nel marzo, 2017, allorquando con il contributo di Maurizio Cantori, Giuseppe Colucci, e l’intervento di Marco Ancora era presentato a Milano in un convegno presso il Palazzo della Regione uno schema di disposizioni contrattuali specifiche da applicarsi ai quadri delle aziende.
L’occasione coincideva con l’apertura della nuova sede regionale di CIU Unionquadri a Milano.
Sempre nel marzo 2017, in Roma presso il CNEL , la nostra associazione assieme ad ADAPT associazione fondata da Marco Biagi nel 2000, presentava il Convegno Quadri, Ricercatori, Alte Professionalità un percorso comune, per affermare la centralità dei quadri nell’intero contesto delle alte professionalità.
Allacciando i gravi problemi locali con i temi del lavoro, nel febbraio 2018, presso il CNEL alla presenza del Presidente Treu, si teneva un incontro dedicato ai quadri di ATAC ed il ruolo degli stessi nel risanamento aziendale.
Nel novembre 2018, l’attività del Centro Studi si volgeva alla complessa problematica del riconoscimento della qualifica di quadro nell’ambito del pubblico impiego, presentando per il tramite di un componente la Commissione Lavoro della Camera un proprio progetto di legge da inserire nella riforma della dirigenza pubblica.

Studi

Oltre all’attività convegnistica il Centro Studi approfondiva unitamente al professor Perrone, il DLGS 81/2015 , Jobs Act dove era previsto l’istituto della dequalificazione del dipendente, interloquendo con il legislatore ed evitando così che la riduzione dell’inquadramento potesse comportare la retrocessione del quadro alla categoria degli impiegati.
Nel giugno del 2018, era affrontato dal Centro Studio unitamente alla presidenza di CIU Unionquadri l’effetto della circolare n.3/2018 dell’Ispettorato del Lavoro che finiva con il privilegiare la contrattazione confederale, con il pretesto di bandire i cosiddetti contratti pirata.
Riferendomi al 2019, il Centro Studi ha fornito assistenza nella redazione della piattaforma contrattuale aziendale di TPR Azienda di Bologna per la mobilità urbana ed extra urbana.

Progetti


In progetto, abbiamo un convegno da tenersi in Roma ed in Milano dedicato di un manifesto dei quadri dove sono evidenziate le posizioni specifiche della categoria su numerosi temi contrattuali-
La realizzazione in Roma di un corso di elementi di diritto del lavoro e sindacale per i quadri del pubblico impiego e delle aziende.
Nell’autunno 2019, la realizzazione in Trieste o in Udine di un convegno dedicato ai quadri professionisti dipendenti nell’ambito della Sanità titolato: I quadri lavoratori dipendenti nella Sanità Pubblica tra datore di lavoro e ordine professionale.

Sito internet

Novità molto importante, è stato realizzato il Sito Internet del Centro Studi www.centrostudirossitto.it
Il sito è aperto a contenere i curricula di quanto vogliano aderirvi ed è destinato ad implementarsi con tutte le attività svolte dal centro studi.

Roma, 14 giugno 2019.
Il Presidente.
Fabio Petracci

I Quadri nel Pubblico Impiego. Un’occasione mancata ma non persa…

a. Breve cronistoria.

Con il DLGS 165/2001 il rapporto di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni è per la gran parte ricondotto alle regole del codice civile e della ordinaria normativa in tema di lavoro.
Si poneva da subito il problema della operatività in tale ambito dell’articolo 2095 dell’articolo 2095 del codice civile che suddivide i lavoratori nell’ambito delle categorie dei dirigenti, dei quadri, degli impiegati e degli operai.

Il DLGS 165/2001 evidenziava invece esclusivamente la categoria dei dirigenti e quindi del restante personale non dirigenziale, pur sottolineando nell’allora articolo 40, comma 2 la presenza di spazi contrattuali per specifiche elevate professionalità. In particolare rilevava per questa organizzazione il tema dell’inquadramento delle professionalità medio –
alte e quindi dei quadri.

b. La lunga strada del contenzioso.

Ne seguiva una lunga e fitta interlocuzione con la funzione pubblica. Erano quindi avviate numerose cause per il riconoscimento della categoria di quadro nell’ambito del comparto pubblico. Alcune sortivano esito positivo altre no.

Nel 2008, la Corte di Cassazione (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 6 marzo 2008 n. 6063) riteneva definitivamente che l’articolo 2095 del codice civile che prevede anche la categoria dei quadri non doveva trovare attuazione nell’ambito dell’impiego pubblico dove invece, a detta della Suprema Corte esistevano specifiche normative a tutela della professionalità
apicali. La Corte si riferiva all’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 che prevede nell’ambito della contrattazione collettiva apposita disciplina per le figure professionali che “che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” e che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano iscrizione ad albi oppure tecnicoscientifici
e di ricerca”. La Corte in sostanza riteneva questa una specifica disciplina di settore che impediva la trasposizione della categoria dei quadri dal codice civile alla disciplina del pubblico impiego. Va rilevato che ad oggi l’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 non ha trovato attuazione.
Particolare di rilievo, il Tribunale di Treviso, rinviava dapprima all’ARAN il contratto del comparto Ministeri laddove non contemplava la figura dei quadri, per verificare se le parti intendevano trovare una soluzione in merito. Ciò non solo non accadeva, ma ARAN e sindacati firmatari del Comparto Pubblico mandavano risposta al giudice escludendo tale soluzione.
Lo stesso magistrato riteneva il dover affidare la questione alle sole parti stipulanti, di rilevante incostituzionalità e quindi la questione era avviata alla Corte Costituzionale che però non la riteneva tale.

c. L’esperienza della Vice dirigenza mai attuata.

Di seguito anche grazie alle numerose insistenze dell’Organizzazione, la legge 145 /2002 (Legge Frattini) istituiva mediante l’articolo 17 bis la vice dirigenza la cui attuazione era poi affidata alla contrattazione collettiva di comparto.
Un tanto non avveniva e dopo alterne vicissitudini giudiziarie che vedevano anche l’intervento della Corte Costituzionale, l’articolo 17 bis era abrogato. Di seguito minore era l’interesse della Associazione per l’argomento.
Attualmente è pendente un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Va ricordato inoltre che nel 2001, il Parlamento Europeo – Ufficio Petizioni, dopo l’audizione del sindacato DIRSTAT a Bruxelles aveva ritenuto il governo e il parlamento italiano inadempienti perché dopo la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego non aveva istituito un’area quadri per il personale ex direttivo relegandolo nei livelli funzionali.

Per quanto riguarda la legge di abrogazione della vice dirigenza, essa era intervenuta dopo che erano passate
in giudicato alcune pronunce che su diversi versanti ritenevano la sussistenza del diritto.
Si riteneva in tal modo, che si fosse verificata un’indebita ingerenza del potere legislativo nell’ambito di una statuizione consolidata del potere giudiziario.

d. Prospettive

Con la legge 124/2015, erano poste le basi per la riforma della dirigenza (legge Madia). Non seguiva però nei tempi debiti la legge di attuazione e quindi ad oggi, la riforma è ancora in totale attesa di attuazione. Va notato come la legge delega 124/2015 non accenni né alla vice dirigenza, né all’introduzione della categoria dei quadri.
Un aspetto interessante è dato invece dalla riduzione del numero dei dirigenti e dalla prevista istituzione del ruolo unico della dirigenza.

Si potrebbe porre l’opportunità di seguire una nuova strada.
Fondamentalmente, l’istituzione della vice dirigenza è stata bollata come corporativa e costosa e quindi come un arretramento dell’organizzazione amministrativa. In realtà essa ha trovato una forte opposizione da parte del sindacato confederale (CISL in primis) che non ne ha permesso l’avvio.
Se questa ormai è storia, dobbiamo ora esaminare allo stato quali sono le possibilità di introdurre un’area dei quadri o della vice dirigenza nell’ambito del pubblico impiego percorrendo una nuova strada anche alla luce dei nuovi assetti che hanno interessato il settore.
Si propone innanzitutto di inserirsi nel solco della riforma della dirigenza che dovrà di seguito essere nuovamente avviata per sviluppare i temi della riduzione dei costi, della conseguente riduzione dei dirigenti e della costituzione di un ruolo unico che consenta alla Pubblica Amministrazione non solo di ridurre il numero dei dirigenti, ma di disporre anche di un nucleo di personale non dirigente, ma altamente qualificato cui attribuire compiti di sostituzione, di consulenza e di elevata specializzazione.

e. Partendo dalle criticità della legge abrogata.

L’introduzione della vice dirigenza avvenuta con la legge 145/2002 prevedeva una complessa architettura legale collegata alle categorie esistenti, alla delega di funzioni e ad un riconoscimento contrattuale.
Inoltre l’incarico del vice – dirigente presentava delle criticità in riferimento alle modalità di assegnazione degli incarichi al vice dirigente. Questa carenza costituiva un elemento di notevole e notata rigidità organizzativa. In tal modo infatti, i dipendenti assurti alla qualifica di vice – dirigente acquisivano una posizione sostanzialmente irremovibile con una totale
coincidenza tra rapporto di servizio e rapporto organico. In sostanza, i vice dirigenti avrebbero un incarico fisso a differenza dai dirigenti, soggetti, invece, alle valutazioni ed a possibili modifiche degli incarichi dirigenziali.
La sostanziale inamovibilità dall’incarico avrebbe potuto dar luogo ad un effetto perverso nella dinamica del rapporto tra gli organi di governo e la dirigenza, dove quest’ultima presentava un elemento di debolezza costituito dalla potestà di nomina e revoca da parte degli organi di governo a fronte di una sostanziale inamovibilità dei sottoposti vice dirigenti, mettendo così in pericolo il principio di separazione delle funzioni dirigenziali da quelle politiche, conferendo una maggior forza ai cosiddetti funzionari rispetto alla dirigenza.

Inoltre l’accesso alla vice dirigenza previsto dalla legge 145/2002 era pressochè automatico per i livelli più elevati dell’area C con adeguato titolo di studio. Mancava in effetti, una procedura selettiva nei confronti di un’area apicale C abbastanza generalizzata ed inflazionata e nessun criterio di valutazione per l’attribuzione dell’incarico.
Per contro, il sistema oggi vigente delle posizioni organizzative è tutto incentrato sul conferimento di un incarico nella quasi totale discrezionalità della pubblica amministrazione e sull’inesistenza di una base di dipendenti titolari di un diritto ad essere selezionati.
Si poneva così, almeno per i più critici, come una nuova forma di irrigidimento delle strutture dell’impiego pubblico, cui si preferirono le posizioni organizzative che da una parte salvaguardavano l’uniformità dell’inquadramento del personale non dirigenziale e dall’altra garantivano alle amministrazioni una notevole discrezionalità. Essa inoltre era particolarmente invisa ai sindacati tradizionali, in quanto prevedeva la creazione di una specifica e separata area anche contrattuale della vice dirigenza che avrebbe fatto di quadri e vice dirigenti e quindi delle specifiche organizzazioni di categoria dei soggetti della contrattazione collettiva.

f. L’emergere di nuove e attuali esigenze

– Il caso delle Agenzie Fiscali
Sulla base di tali considerazioni, si sarebbe dovuto puntare alla costituzione di un’area quadri anche nel pubblico impiego cui poi conferire appositi incarichi e deleghe su valutazione dei dirigenti.
Fatte queste debite precisazioni, si riscontrano elementi del tutto oggettivi che rendono necessaria ed attuale la costituzione di questa area professionale.

Va ricordato che con sentenza del 25 febbraio 2015, la Corte Costituzionale censurava le Agenzie Fiscali che nella mancanza di quadri intermedi in grado di coprire determinate posizioni, aveva attribuito incarichi dirigenziali a propri funzionari pe assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture e l’attuazione delle misure di contrasto all’evasione.
Ne traeva lo spunto la finanziaria per il 2018 legge 27.12.2017 n.205 che prevedeva all’articolo 1, comma 93 la possibilità per le agenzie fiscali di istituire posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata professionalità o particolare specializzazione ivi compresa la responsabilità di uffici operativi di livello non dirigenziale nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, conferendo dette posizioni a funzionari con almeno cinque anni di
esperienza nella terza area mediante una selezione interna in base alle conoscenze professionali ed alle capacità tecniche ed alle valutazioni conseguite negli anni precedenti, attribuendo agli stessi il potere di adottare atti amministrativi anche a rilevanza esterna con poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, articolando dette posizioni in relazione ai poteri conferiti, favorendo quindi detto personale nell’accesso alla dirigenza tramite concorso facilitato.

La norma citata in maniera settoriale e non sempre chiara e coordinata istituisce di fatto una categoria molto affine alla vice dirigenza, attribuendo delle posizioni organizzative, termine che appartiene alla contrattazione collettiva e non alla legge, a determinati soggetti predeterminati con ampi poteri.
La norma così emanata rivela da un lato un indicibile elemento di confusione e di cattivo coordinamento con il testo unico del pubblico impiego e con la contrattazione collettiva, introducendo così anche elementi di dubbia costituzionalità.
Essa però appare come sintomatica della necessità di un’area professionale intermedia tra la dirigenza ed il resto del personale anche in considerazione di esigenze di risparmio.
Essa per quanto infelicemente formulata, potrebbe dare lo spunto per un ripensamento generale e di ampio respiro per l’introduzione definitiva della vice dirigenza nell’impiego pubblico in termini mutati rispetto alla disciplina abrogata.

– La riforma Madia nella parte non attuata.
Un ulteriore cenno va alla legge delega 124/2015 Riforma Madia nella parte concernente la dirigenza che però non ha trovato attuazione, essendo scaduti i termini per la decretazione.
L’articolo 11 della previsione di legge si occupa della dirigenza pubblica ed in particolare al punto c) dell’accesso alla dirigenza, stabilendo l’immissione dei vincitori del corso concorso in fase iniziale quali funzionari, senza tener conto che il testo unico sul pubblico impiego non prevede né tali figure né un loro equivalente, prevedendo inoltre per i dirigenti privi di incarico la possibilità di avanzare istanza per passare alla carriera di funzionario.
Non si tratta davvero di un semplice lapsus del legislatore, ma ancora una volta di una sensazione di necessità di un’area di quadri – vicedirigenti – funzionari.

– Il piano triennale dei fabbisogni del personale e l’emergere della professionalità.
Va ricordato ancora il recente DLGS 75/2017 che ha modificato l’articolo 6 del DLGS 165/2001 introducendo il piano triennale dei fabbisogni del personale consentendo alle pubbliche amministrazioni di superare il concetto obsoleto di organico intervenendo sull’assetto non solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo delle risorse, del livello di inquadramento e della loro specializzazione.
Si assiste quindi ad un rovesciamento del concetto numerico e qualitativo delle risorse che non dovrà essere più adeguato
esclusivamente alla pianta organica in essere, ma alle reali esigenze della struttura.
Questo primo riconoscimento alla qualità ed alla professionalità del personale ben può dar luogo all’introduzione di un’area di professionisti e specialisti nella pubblica amministrazione.

Fabio Petracci