Cassazione
civile Sezione Lavoro, Sentenza 02-08-2019, n. 20842
Segretario Comunale privazione dell’incarico prima della scadenza del
medesimo – diritto alla reintegra insussistenza – diritto al risarcimento del
danno sussiste in presenza di adeguati elementi probatori.
La Corte di Cassazione con la recente sentenza di seguito trascritta
svolge tutta una serie di considerazioni in merito alla peculiarità del
rapporto di lavoro dei segretari comunali.
In forza di tale specialità e del rapporto strettamente fiduciario che
lega il segretario al vertice dell’amministrazione, la Corte ritiene che la
professionalità del segretario comunale debba trovare tutela nell’ambito del
rapporto temporale che lo lega all’amministrazione e che nel caso di privazione
delle funzioni questi non possa chiedere la reintegra nelle funzioni , ma
esclusivamente nel danno la cui prova non è in re ipsa, ma deve essere oggetto
di dimostrazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2019,
n. 20842
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25859-2014 proposto da:
F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO
CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CALARCO, che la rappresenta
e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI BOLTIERE, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato YVONNE MESSI;
– MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i
cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 252/2014 della CORTE D’APPELLO
di BRESCIA, depositata il 03/06/2014 R.G.N. 395/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato NORBERTO MANENTI per delega Avvocato
GIOVANNI CAGLIANONE;
udito l’Avvocato GOFFREDO GOBBI.
Svolgimento
del processo
1. F.M., nominata segretario comunale del Comune di
Boltiere in data 26 febbraio 2005, si vedeva revocare tale incarico in data 12
settembre 2006, ben prima della sua naturale scadenza (2009), per violazione
dei doveri d’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 100,
del D.P.R. n. 465
del 1997, art. 15 e
dell’art. 18 del c.c.n.l. di categoria.
Con ricorso al Tribunale di Brescia, proposto nei
confronti del Comune di Boltiere e del Ministero dell’Interno, la F. impugnava
detta revoca chiedendo la reintegrazione nelle funzioni, il pagamento delle
retribuzioni maturate medio tempore ed il risarcimento degli ulteriori danni
patrimoniali e non patrimoniali subiti per effetto della revoca illegittima.
2. Il Tribunale annullava il provvedimento di revoca,
respingeva la domanda di reintegrazione e accoglieva solo parzialmente quella
risarcitoria (riconoscendo un quantum di danno patrimoniale ridotto rispetto a
quello preteso e, quanto al profilo non patrimoniale, attribuendo il danno solo
in relazione al pregiudizio all’integrità psico-fisica).
3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello
di Brescia.
La Corte territoriale dichiarava preliminarmente
l’inammissibilità dell’appello notificato anche al Ministero dell’Interno senza
che vi fossero censure nella parte in cui il giudice di primo grado aveva
espressamente escluso ogni responsabilità in capo all’Agenzia Autonoma,
assolvendola da ogni pronuncia di condanna.
Quindi rigettava l’impugnazione incidentale del Comune
di Boltiere ritenendo che l’insussistenza dei presupposti per la revoca
emergesse da una serie di significativi e concordanti elementi.
Quanto all’appello della F., riteneva infondata la
pretesa volta ad ottenere la reintegra considerando che la Giunta Municipale
era decaduta in data 7/6/2009 e che si trattava di nomina di durata
corrispondente a quella del mandato del Sindaco.
Rilevava che l’appellante avesse configurato il danno
alla professionalità in dipendenza della sola privazione delle mansioni di
segretario comunale e che fossero mancate deduzioni di circostanze concrete
atte a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile. Precisava, al
riguardo, che il segretario comunale revocato o comunque privo di incarico è
posto a disposizione dell’Agenzia autonoma per le attività dell’Agenzia stessa
nonchè per incarichi di supplenza o di reggenza ovvero per altre funzioni ed
evidenziava che le circostanze che la F. non avesse rivestito più incarichi di
segretario comunale, salvo alcune supplenze o reggenze, e fosse stata poi posta
in mobilità e infine transitata presso la Prefettura di Bergamo, con
cancellazione dall’Albo dei Segretari comunali, non costituissero conseguenza
immediata e diretta della perdita dell’incarico o comunque non costituissero
prova del verificarsi in concreto di un danno alla professionalità.
Sottolineava che anche il mancato conferimento di convenzioni con altri Comuni
fosse dipeso da decisioni che involgevano esclusivamente la responsabilità dei
Comuni medesimi.
Quanto alle altre voci di danno esistenziale riteneva
che la modestissima percentuale di danno biologico accertata (4-5%) non
consentisse, in assenza di specifiche deduzioni di ritenere provato che la
revoca avesse comportato anche un radicale peggioramento a titolo definitivo
delle abitudini di vita della lavoratrice.
Escludeva la fondatezza delle rivendicazioni relative
alla retribuzione di risultato ed alla maggiorazione della retribuzione di
posizione essendo mancata, quanto alla prima di dette voci, la prova che
qualora l’incarico non fosse stato revocato gli obiettivi sarebbero stati
raggiunti, non potendo identificarsi l’elevata probabilità del raggiungimento
con l’accertata assenza di una violazione dei doveri d’ufficio a base delle
revoca e rilevando, quanto alla maggiorazione della retribuzione di posizione,
che non avesse l’appellante dimostrato la sussistenza delle condizioni per
l’attribuzione nella misura massima richiesta (e cioè l’esistenza di risorse
disponibili e le capacità generali) dovendo altresì essere escluso che nel
corso del rapporto tale maggiorazione fosse stata già corrisposta nella misura
rivendicata.
Quantificava le differenze spettanti a titolo di danno
patrimoniale in Euro 41.896,32 e riteneva nuova la questione, posta
dall’appellante, del mantenimento del trattamento in godimento non solo fino
alla scadenza dell’incarico ma anche per il biennio successivo.
4. Per la cassazione della sentenza F.M. ha proposto
ricorso sulla base di sette motivi ai quali hanno opposto difese il Comune di
Boltiere e il Ministero dell’Interno.
5. Il Comune di Boltiere ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità
della sentenza o del procedimento ex art. 360
c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 342, 348 bis, 348 ter, 434, 436
bis e 437 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di inammissibilità
dell’appello nei confronti del Ministero dell’Interno.
Rileva che nella sentenza di primo grado l’estraneità
del Ministero era stata affermata solo in relazione alla condanna al
risarcimento del danno mentre tale Ministero era stato evocato in giudizio in
appello in relazione alla domanda di reintegrazione poichè senza la presenza in
giudizio di tale Ministero ogni statuizione di reintegrazione rivolta al solo
Comune di Boltiere sarebbe risultata di difficile, se non impossibile, esecuzione
concreta.
2. Il motivo è infondato.
La pronuncia di inammissibilità della Corte d’appello
è stata effettuata in via preliminare con riguardo alla posizione del Ministero
come delineata in causa dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo del
giudizio ed intesa come limitata alla sola condanna al risarcimento.
Riguardo a tale affermazione, che appare del tutto in
linea con le stesse conclusioni di cui al ricorso di primo grado come riportate
nella stessa sentenza impugnata (“….ha convenuto in giudizio il Comune
di Boltiere e l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari
Comunali… chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di
revoca, con condanna del Comune alla reintegrazione nell’incarico e di entrambe
le parti convenute al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali
patiti per effetto della revoca”), la ricorrente oppone che l’appello nei
confronti del Ministero si sarebbe reso necessario in relazione alle
contestazioni concernenti il rigetto della domanda di reintegrazione.
Tuttavia non risulta che già in primo grado la F.
avesse avanzato anche domanda di reintegrazione nei confronti dell’Agenzia
Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali e sul
punto il motivo di ricorso è assolutamente privo di specificità, non riportando
il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio. Nè vale a superare la
suddetta carenza la circostanza che la cancellazione dall’Albo sarebbe
sopravvenuta rispetto al maturare delle preclusioni nel giudizio di primo grado
e che perciò in sede di appello si sarebbe reso necessario richiedere la
reintegrazione anche nei confronti dell’Agenzia (v. pag. 6 del ricorso per
cassazione), trattandosi, evidentemente, di un ampliamento del thema decidendum
non consentito in sede di gravame.
E’ comunque opportuno ricordare che la disciplina del
rapporto di lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata
dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15 maggio 2012,
n. 7510) che ha delineato i seguenti principi:
a) il rapporto di impiego di questi dipendenti è
sempre stato caratterizzato dalla non coincidenza dell’amministrazione datrice
di lavoro con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20
giugno 2007, n. 14288); con l’importante riforma del relativo ordinamento
introdotta dalla L. n. 127 del
1997 e dal D.P.R. n. 465
del 1997 (le cui norme sono state, poi, trasfuse nel D.Lgs. n. 18 agosto
2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali,
contenente il regime definitivo), l’amministrazione datrice di lavoro dei
segretari è diventata l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali, avente personalità giuridica di diritto
pubblico (D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 102,
oggi abrogato a seguito dell’intervenuta soppressione dell’Agenzia per effetto
del D.L. n. 78
del 2010, convertito con L. n. 122 del
2010);
b) è rimasta confermata la peculiarità della non
coincidenza – di regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con
utilizzazione diretta da parte dell’Agenzia, ai sensi del D.P.R. n. 465
del 1997, art. 7, comma 1,
– dell’amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza
le prestazioni (Comune o Provincia);
c) in ragione di tale distinzione, nelle controversie
giudiziarie relative al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore
non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con la predetta
Agenzia (v. Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 11 agosto 2016, n. 17065);
d) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro
del segretario comunale, compresi quelli posti in essere dall’amministrazione
locale nell’ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la
revoca dall’incarico ai sensi della L. 15 maggio
1997, n. 127, art. 17, comma 71),
rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro
(così Cass., Sez. Un., 24 maggio 2006 n. 12224);
e) la non coincidenza dell’amministrazione datrice di
lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia
avere quale conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria
parte, siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di
riprendere la propria prestazione lavorativa e che l’inadempimento di ciascuna
di tali proprie e specifiche obbligazioni generi l’obbligazione risarcitoria di
cui all’art. 1218
c.c. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è da
riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che appartiene
alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le capacità e i
poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass., Sez. Un., 19
ottobre 1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677; Cass. 3
marzo 2012, n. 3419).
Quindi, nella specie, se legittimamente era stata
proposta anche nei confronti dell’Agenzia una domanda risarcitoria, la mancata
impugnazione da parte della F. della sentenza di primo grado nella parte in cui
questa aveva escluso ogni responsabilità dell’Agenzia in relazione ai danni
patiti dalla ricorrente aveva processualmente definito la posizione del
Ministero dell’Interno (subentrato all’Agenzia) senza che fatti sopravvenuti
potessero in qualche modo rimetterla in discussione.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 99 dell’art.
100 medesimo D.Lgs., della L. n. 300 del 1980, art. 18, del D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 63,
dell’art. 2058 c.c. tutti letti e interpretati anche alla luce dell’art. 97
Cost., comma 2, in relazione al rigetto della domanda di
reintegrazione.
Rileva che l’ordinamento di settore in caso di revoca
della nomina prevede la reintegrazione e richiama al riguardo Cass., Sez. Un.,
1 febbraio 2007, n. 2233.
Sostiene che, contrariamente a quanto affermato in sentenza,
tra cessazione del mandato sindacale e cessazione dell’incarico non vi è alcun
automatismo, ma solo la possibilità offerta al sindaco subentrante di nominare
un nuovo e diverso segretario decorso il termine di sessanta giorni
dall’insediamento ed entro il termine di 120 giorni, spirato il quale
l’incarico si intende confermato.
4. Il motivo è infondato.
Va innanzitutto ricordato che la dipendenza funzionale
del segretario dall’organo di vertice dell’ente locale (competente per la
nomina e la revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto
caratterizzato dall’elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo
cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del
presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica
dall’incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica
continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del nuovo segretario (D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 99, comma 2).
La nomina è disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni
dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia,
decorsi i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A
tal fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo
del segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell’art. 11, e
ne chiede l’assegnazione al competente consiglio di amministrazione
dell’Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.
Quanto al procedimento di nomina del segretario
comunale o provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di
quello di revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in
essere dall’ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v.
Cass. 31 ottobre 2017, n. 25960; Cass. 15 maggio 2012, n. 7510; Cass. 9
febbraio 2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20 giugno 2005, n. 16876; Cass., Sez.
Un., 12 agosto 2005, n. 166876).
La natura fiduciaria dell’incarico, che termina con la
scadenza dell’organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in
particolare, affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla
varietà dei compiti di collaborazione e di assistenza giuridico –
amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena
coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 97, comma 2)
nonchè alle funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del
consiglio e della giunta (D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 97, comma 4,
lett. a) – v. Cass. 23 agosto 2008, n. 12403; Cass. 1 luglio
2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del 22 febbraio 2019 -.
Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite
con la legislazione successiva: in particolare, con la L. n. 190 del
2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), nonchè con
il D.Lgs. n. 33
del 2013 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di
accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) che attribuiscono al
segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della
corruzione e quello di responsabile della trasparenza.
Nè, in ragione di detta fiduciarietà, che
evidentemente non si esaurisce con l’atto di nomina, può dirsi che sussista un
diritto soggettivo alla riconferma.
Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare
automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma),
eppure anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico
ed economico e del suo rapporto d’ufficio, restando iscritto all’Albo dopo la
mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi.
La legge è chiara nello stabilire che il segretario
decade “automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato del
sindaco”, tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni
per un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di
eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell’azione
amministrativa.
Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa
reintegratoria del ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile
(per l’analoga fiduciarietà che caratterizza l’affidamento dell’incarico
dirigenziale) il principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento
alla revoca dell’incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della
giusta causa per il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al
diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente
revocato, per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame,
comprenderebbe anche quello dell’automatica obbligatoria prosecuzione in attesa
di eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la
stessa non è decisiva perchè sconta la circostanza, pacifica agli atti, che la
F. a far data dal 3/1/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di primo grado)
prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era stata cancellata
dall’Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per cassazione). Dunque
aveva perso uno dei requisiti necessari perchè si potesse ricostituire il
rapporto.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267
del 2000, artt. 97, 99, 100 e 101 del D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 19,
dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1218,
1223 e 2059 c.c. nonchè omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno
alla professionalità.
Sostiene che la perdita delle mansioni e il
collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla
professionalità.
6. Il motivo è infondato.
Se è vero che il demansionamento ben può essere
foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del
lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza di questa S.C. –
essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure,
eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume
danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572).
Il principio è stato ulteriormente precisato in
successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del
danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel
ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre
2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio
con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo
quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi
elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno
ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione
di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti
negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso
un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno (così Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832 e negli stessi
termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle
presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del
pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed
ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per
risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214).
In tema di prova del danno da dequalificazione
professionale ex art. 2729
c.c., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza
presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e
quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della
professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e
altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali
categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e
rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni
di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18 agosto 2016, n.
17163).
Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta
applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile
in questa sede, ha ritenuto che la F. si fosse limitata a prospettare un danno
in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la
sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al giudicante i
parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.
Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in
modo inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.
Nè del resto è sostenibile che la perdita
dell’incarico, proprio per il peculiare funzionamento e per la dinamica
professionale del segretario comunale, possa identificare un fatto ex se
generatore di un danno alla professionalità.
7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,
1223 e 2059 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al
rigetto della domanda di danno esistenziale.
8. Il motivo è infondato.
Anche in questo caso a fronte di specifiche
argomentazioni del giudice a quo (il quale ha ritenuto che la modestissima
percentuale di danno biologico derivata – 4-5% – non fosse consentito, in
assenza di specifiche deduzioni che la revoca avesse comportato un radicale
peggioramento a titolo definivo delle abitudini di vita della lavoratrice) la
ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge – allega un’erronea ricognizione, da parte della Corte territoriale,
della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che
non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo
prettamente alla valutazione del giudice di merito.
Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto
decisivo il motivo è inammissibile.
Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’interpretare il
novellato art. 360
c.p.c., n. 5, hanno stabilito che “l’omesso esame di elementi
istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo
previsto (dall’art. 360
c.p.c., n. 5), quando il fatto, storico rappresentato sia stato
comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato
conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Cass.,
Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
E nel caso di specie il fatto storico rappresentato
dall’entità del danno è stato preso in considerazione dalla sentenza, alle pp.
6 e 7.
Le censure sollevate dall’odierna ricorrente tendono
piuttosto a negare la congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte
territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova
complessivamente acquisiti e dei fatti di causa, ma una simile impostazione
critica appare con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea
ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze probatorie ma ciò non è conforme alla nuova
formulazione dell’art. 360
c.p.c., n. 5.
9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 41 del c.c.n.l. di categoria, dell’art. 1 del c.c.n.l.
decentrato integrativo, dell’art.
2697 c.c. alla luce dell’art. 24
Cost. e del principio di riferibilità o vicinanza o
disponibilità della prova, degli artt. 2727 e
2729 c.c..
Lamenta il mancato riconoscimento della maggiorazione
della retribuzione di posizione e rileva che tale emolumento è solo correlato
alle condizioni oggettive e soggettive, al cui esistere se ne determina
l’insorgenza.
10. Il motivo è infondato.
L’art. 41 del c.c.n.l. fa riferimento anche ad
ulteriori condizioni che devono ricorrere affinchè la maggiorazione possa
essere pretesa dal segretario, giacchè la disposizione è chiara innanzitutto
nel prevedere che i criteri ed i parametri delle maggiorazioni devono essere
stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa nazionale, ed
inoltre nel fissare il limite delle risorse disponibili e del rispetto delle
capacità di spesa.
E’ evidente, pertanto, che detti limiti rilevano nella
predeterminazione complessiva della spesa del personale, nel senso che l’ente,
il quale è anche chiamato ad individuare la indennità di posizione spettante al
dirigente o al personale dipendente titolare di posizione organizzativa, dovrà
tener conto del principio della tendenziale equiparazione stabilito dal comma 5
della medesima disposizione (e cioè che la retribuzione di posizione del
segretario non sia inferiore a quella stabilita per la funzione dirigenziale
più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza
o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata
posizione organizzativa).
Ove, però, ciò non avvenga la disposizione
contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo ad una equiparazione che
prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse, perchè ciò equivarrebbe
a legittimare spese non compatibili con le capacità dell’ente territoriale (v.
Cass. 6 ottobre 2016, n. 20065).
Peraltro, ai sensi dell’art. 1 del c.c.i. nazionale,
la maggiorazione della retribuzione di posizione cui all’art. 41 del c.c.n.l.
spetta solo in presenza di condizioni oggettive (riferite all’Ente ed alla sua
complessità organizzativa – in funzione del numero delle Aree o Settori
presenti nell’Ente, della funzione di sovraintendenza e coordinamento di
dirigenti o responsabili di servizio, laddove non siano state conferite,
all’interno o all’esterno, le funzioni di direzione generale -, funzionale –
presenza di particolari uffici o di particolari forme di gestione dei servizi –
ed a ragioni di disagio ambientale – sedi di alta montagna, estrema carenza di
organico, situazioni anche transitorie di calamità naturale o difficoltà
socioeconomiche – e soggettive (in ragione di incarichi speciali di
responsabilità di singoli servizi affidati al segretario).
La Corte territoriale, dopo aver fatto puntuale
riferimento alle condizioni legittimanti l’erogazione della maggiorazione in
questione, ha correttamente ritenuto (con valutazione che supera la questione
dell’operatività in concreto degli oneri probatori) che dal complesso del
materiale probatorio a sua disposizione non fosse emerso che l’indennità
predetta era stata corrisposta alla F. nel periodo di svolgimento dell’incarico
di segretario e che pertanto non sussistessero elementi di prova, pur
presuntiva, a sostegno della pretesa.
11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e
2729 c.c..
Lamenta il mancato riconoscimento della voce
retribuzione di risultato evidenziando che il giudice di appello ben avrebbe
potuto far ricorso al ragionamento presuntivo in dipendenza del fatto che nel
periodo di vigenza dell’incarico la F. lo aveva sempre svolto al meglio.
12. Il motivo è infondato.
Le deduzioni dell’odierno ricorrente in realtà si
risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte
del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato
difformi dalle sue aspettative e nell’inammissibile pretesa di una lettura
dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di
merito (“la lavoratrice non ha allegato alcunchè da cui desumere la
possibilità di ottenimento dei risultati, nè risulta che abbia mai percepito la
retribuzione di risultato”).
Del resto, quando si imputi al giudice di merito, in
mancanza di una presa di posizione nella motivazione da esso resa, di non avere
applicato un ragionamento presuntivo che la situazione delle emergenze fattuali
probatorie emersa nel giudizio avrebbe invece giustificato, si è del tutto al
di fuori della logica della c.d. falsa applicazione dell’art.
2729 c.c..
In tal caso, infatti, quello che si imputa al giudice
è l’omesso esame della situazione fattuale, cioè del fatto noto o dei fatti
noti, che, se fossero stati considerati, avrebbero dovuto condurre alla
conoscenza di un fatto ignoto e, dunque, anch’esso ignorato nella motivazione.
Si ricade, quindi, nell’ipotesi che le Sezioni Unite
nella citata sentenza n. 8053/2014, nello scrutinare il significato
dell’espressione fatto di cui all’art. 360
c.p.c., n. 5 hanno individuato come omesso esame di un fatto
secondario.
13. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 437
c.p.c. e conseguente omessa pronuncia in relazione all’art. 112
c.p.c..
Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto nuova
la domanda relativa alla corresponsione delle retribuzioni nei due anni
successivi alla scadenza dell’incarico rispetto a quanto dalla medesima
percepito nel periodo di disponibilità, essendo questa da considerarsi inclusa
nella domanda di risarcimento del danno maturato e maturando ritualmente
avanzata.
14. Il motivo è inammissibile.
La Corte territoriale non ha omesso alcuna pronuncia
ma ha ritenuto che la voce di danno prospettata dalla ricorrente solo in grado
di appello integrasse una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437
c.p.c., fondata sui diritti riconosciuti al segretario revocato
durante il periodo di disponibilità.
Ha, inoltre, evidenziato che si trattava anche di
danno del tutto eventuale che poteva ricorrere solo se nel corso della
disponibilità non fossero stati affidati altri incarichi e che in ogni caso in
ordine allo stesso non si era mai svolto alcun contraddittorio.
Se è vero che la certezza che deve sussistere per
rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza
il danno presente, tuttavia questa Corte ha affermato che per ritenere tale
danno sussistente non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro,
essendo invece sufficiente la rilevante probabilità che esso si verifichi.
Tale rilevante probabilità di conseguenze
pregiudizievoli è configurabile come danno futuro immediatamente risarcibile solo
qualora l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo
di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella
probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del
caso concreto (v. Cass. 27 aprile 2010, n. 10072).
Il motivo di ricorso non consente di ritenere che una
richiesta di danno futuro sulla base di fatti sintomatici della probabilità di
verifica dello stesso fosse stata ritualmente dedotta sin dal ricorso di primo
grado.
15. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
16. Le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.
17. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater,
nel testo introdotto dalla L. 24
dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio
che liquida, in quanto al Comune di Boltiere, in Euro 200,00 per esborsi ed
Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e
rimborso forfetario in misura del 15% e, quanto al Ministero dell’Interno,
in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre sperse prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater,
dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23
maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2019