Carta europea dei ricercatori e codice di condotta per la loro assunzione. Le raccomandazioni dell’UE.

Si riporta di seguito il testo integrale della raccomandazione della Commissione Europea dell’11 marzo 2005 riguardante la Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori, seguito da un breve commento.

LA COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE

visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo 165, considerando quanto segue:

(1) Nel gennaio 2000, la Commissione ha ritenuto necessario istituire lo Spazio europeo della ricerca come perno centrale della futura azione comunitaria in questo settore, al fine di consolidare e strutturare la politica europea di ricerca.

 

(2) Il Consiglio europeo di Lisbona ha fissato per la Comunità l’obiettivo di diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo entro il 2010.

 

(3) Nella risoluzione del 10 novembre 2003, il Consiglio ha affrontato alcune problematiche legate alla professione e alla carriera dei ricercatori nello Spazio europeo della ricerca, accogliendo con particolare favore l’intenzione della Commissione di lavorare per l’elaborazione di una Carta europea dei ricercatori e di un codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori.

 

(4) L’individuato rischio di una carenza di ricercatori, soprattutto in alcune discipline fondamentali, mette a repentaglio la forza innovatrice dell’Unione europea, il patrimonio di conoscenze e la crescita della produttività nel futuro prossimo e potrebbe impedire di conseguire gli obiettivi di Lisbona e Barcellona. L’Europa deve pertanto rafforzare significativamente la propria capacità di attrarre i ricercatori e potenziare la partecipazione delle donne ricercatrici, favorendo la creazione delle condizioni necessarie per carriere più sostenibili e interessanti per loro nel settore della R&S.

 

(5) L’esistenza di risorse umane sufficienti e adeguatamente sviluppate nella R&S costituisce l’elemento fondamentale per lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e del progresso tecnologico, il rafforzamento della qualità della vita, la garanzia del benessere dei cittadini europei e il potenziamento della competitività dell’Europa.

 

(6) Si dovrebbero introdurre ed attuare nuovi strumenti per lo sviluppo della carriera dei ricercatori, contribuendo in questo modo al miglioramento delle prospettive di carriera per i ricercatori in Europa.

 

(7) L’esistenza di prospettive di carriera migliori e più visibili contribuisce anche allo sviluppo di un atteggiamento positivo del pubblico nei confronti della professione di ricercatore, spingendo con ciò più giovani ad abbracciare una carriera nel settore della ricerca.

 

(8) L’obiettivo politico finale della presente raccomandazione è contribuire allo sviluppo di un mercato europeo del lavoro attrattivo, aperto e sostenibile per i ricercatori, in cui le condizioni di base consentano di assumere e trattenere ricercatori di elevata qualità in ambienti veramente favorevoli alle prestazioni e alla produttività.

 

(9) Gli Stati membri dovrebbero sforzarsi di offrire ai ricercatori dei sistemi di sviluppo di carriera sostenibili in tutte le fasi della carriera, indipendentemente dalla loro situazione contrattuale e dal percorso professionale scelto nella R&S, e impegnarsi affinché i ricercatori vengano trattati come professionisti e considerati parte integrante delle istituzioni in cui lavorano.

 

(10) Nonostante i considerevoli sforzi degli Stati membri per superare gli ostacoli amministrativi e giuridici che si frappongono alla mobilità geografica ed intersettoriale, molti di questi ostacoli persistono.

 

(11) Dovrebbero essere incoraggiate tutte le forme di mobilità nell’ambito di una politica globale delle risorse umane nel campo della R&S a livello nazionale, regionale e istituzionale.

 

(12) Il valore di tutte le forme di mobilità dev’essere pienamente riconosciuto nei sistemi di valutazione della carriera e di avanzamento professionale dei ricercatori, affinché questo tipo di esperienza possa contribuire positivamente al loro sviluppo professionale.

 

(13) Lo sviluppo di una politica coerente per la carriera e la mobilità dei ricercatori (5) che vengono nell’Unione europea o la lasciano dovrebbe essere considerato tenendo conto della situazione nei paesi in via di sviluppo e nelle regioni dentro e fuori l’Europa, affinché lo sviluppo delle capacità di ricerca dell’Unione europea non avvenga a scapito dei paesi e delle regioni meno sviluppate.

 

(14) I finanziatori o i datori di lavoro dei ricercatori dovrebbero, nel loro ruolo di «reclutatori», assumersi la responsabilità di offrire ai ricercatori procedure di selezione ed assunzione aperte, trasparenti e comparabili a livello internazionale.

 

(15) La società dovrebbe apprezzare più pienamente il senso di responsabilità e la professionalità dimostrati dai ricercatori nello svolgimento del loro lavoro durante le varie fasi della carriera e nel loro ruolo poliedrico di lavoratori del sapere, dirigenti, coordinatori di progetti, manager, supervisori, mentori, consulenti di orientamento professionale o comunicatori scientifici.

 

(16) La presente raccomandazione parte dal principio che i datori di lavoro o i finanziatori dei ricercatori hanno l’obbligo assoluto di garantire il rispetto dei requisiti della normativa nazionale, regionale o settoriale pertinente.

 

(17) La presente raccomandazione fornisce agli Stati membri, ai datori di lavoro, ai finanziatori e ai ricercatori uno strumento prezioso per intraprendere, su base volontaria, nuove azioni per il miglioramento e il consolidamento delle prospettive professionali dei ricercatori nell’Unione europea e per la creazione di un mercato del lavoro per i ricercatori aperto.

 

(18) I principi generali e i requisiti illustrati nella presente raccomandazione sono frutto di un processo di consultazione pubblica al quale membri del gruppo di pilotaggio «Risorse umane e mobilita» sono stati pienamente associati

RACCOMANDA:

1) Gli Stati membri s’impegnino a compiere i passi necessari per assicurare che i datori di lavoro o i finanziatori dei ricercatori sviluppino e mantengano un ambiente di ricerca e una cultura di lavoro favorevoli, in cui gli individui e le équipe di ricerca siano considerati, incoraggiati e sostenuti, e beneficino del sostegno materiale e immateriale necessario per conseguire i loro obiettivi e svolgere i loro compiti. In tale contesto, si dovrebbe accordare particolare priorità all’organizzazione delle condizioni di lavoro e di formazione nella fase iniziale della carriera dei ricercatori, in quanto questa contribuisce alle scelte future e rafforza l’attrattiva delle carriere nel settore della R&S.

 

2) Gli Stati membri si impegnino a compiere, laddove necessario, i passi fondamentali per garantire che i finanziatori e i datori di lavori dei ricercatori perfezionino i metodi di assunzione e i sistemi di valutazione delle carriere al fine di istituire un sistema di assunzione e uno sviluppo professionale più trasparenti, aperti, equi e accettati a livello internazionale, come presupposto per un vero mercato europeo del lavoro per i ricercatori.

 

3) Gli Stati membri — nell’elaborare e adottare le loro strategie e i loro sistemi per lo sviluppo di carriere sostenibili per i ricercatori — tengano adeguatamente conto e s’ispirino ai principi generali e alle prescrizioni contenuti nella Carta europea dei ricercatori e nel codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori di cui in allegato.

 

4) Gli Stati membri s’impegnino a recepire questi principi generali e requisiti rientranti nel loro ambito di competenza, nel quadro normativo e regolamentare nazionale o nei principi e orientamenti settoriali e/o istituzionali (carte e/o codici per i ricercatori). Così facendo, dovrebbero tenere conto della molteplicità di leggi, regolamenti e pratiche che, nei vari paesi e nei vari settori, determinano il percorso, l’organizzazione e le condizioni di lavoro di una carriera nel settore R&S.

 

5) Gli Stati membri considerino questi principi generali e requisiti come parte integrante dei meccanismi istituzionali di garanzia della qualità, vedendoli come un mezzo per fissare criteri di finanziamento per i sistemi di finanziamento nazionali e regionali, e, allo stesso tempo, adottandoli per le procedure di audit, monitoraggio e valutazione degli organismi pubblici.

 

6) Gli Stati membri continuino ad impegnarsi per superare i rimanenti ostacoli giuridici e amministrativi alla mobilità, ivi compresi quelli relativi alla mobilità intersettoriale e alla mobilità tra e nell’ambito di funzioni diverse, tenendo conto dell’allargamento dell’Unione europea.

 

7) Gli Stati membri s’impegnino a garantire che i ricercatori beneficino di un’adeguata copertura sociale in funzione del loro status giuridico. Nell’ambito di tale contesto, occorrerebbe prestare particolare attenzione alla trasferibilità dei diritti pensionistici, di base o integrativi, per i ricercatori che si spostano all’interno dei settori privato e pubblico dello stesso paese e anche per quelli che cambiano paese nell’Unione europea. Tali sistemi dovrebbero garantire che i ricercatori, che nel corso della loro vita cambiano professione o interrompono la carriera, non perdano ingiustamente i loro diritti sociali.

 

8) Gli Stati membri istituiscano le necessarie strutture di controllo per riesaminare periodicamente la presente raccomandazione e per valutare in che misura datori di lavoro, finanziatori e ricercatori hanno applicato la Carta europea dei ricercatori e il codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori.

 

9) I criteri di misurazione dell’applicazione siano stabiliti e concordati con gli Stati membri nell’ambito dei lavori svolti dal gruppo di pilotaggio «Risorse umane e mobilità».

 

10) Gli Stati membri, nelle loro funzioni di rappresentanza presso le organizzazioni internazionali istituite a livello intergovernativo, tengano adeguatamente conto della presente raccomandazione quando propongono strategie e adottano decisioni riguardanti le attività di tali organizzazioni.

 

11) La presente raccomandazione è destinata agli Stati membri, ma è concepita anche come strumento per incoraggiare il dialogo sociale e il dialogo tra ricercatori, referenti interessati e società in senso lato.

 

12) Gli Stati membri sono invitati ad informare la Commissione, nella misura del possibile, entro il 15 dicembre 2005 e in seguito ogni anno, su eventuali misure adottate sulla base della presente raccomandazione e sui primi risultati derivanti dalla sua applicazione, nonché a fornire esempi di buone pratiche.

 

13) La Commissione riesaminerà periodicamente la presente raccomandazione nell’ambito del metodo aperto di coordinamento.

Fatto a Bruxelles, l’11 marzo 2005.

ALLEGATO

SEZIONE 1

La Carta europea dei ricercatori

La Carta europea dei ricercatori è un insieme di principi generali e requisiti che specificano il ruolo, le responsabilità e i diritti dei ricercatori e delle persone che assumono e/o finanziano i ricercatori. Scopo di tale Carta è garantire che la natura dei rapporti tra ricercatori e datori di lavoro o finanziatori favorisca esiti positivi per quanto riguarda la produzione, il trasferimento, la condivisione e la diffusione delle conoscenze e dello sviluppo tecnologico, e sia propizia allo sviluppo professionale dei ricercatori. La Carta riconosce inoltre il valore di tutte le forme di mobilità come strumento per migliorare lo sviluppo professionale dei ricercatori.

In tal senso la Carta costituisce un quadro di riferimento per ricercatori, datori di lavoro e finanziatori che sono invitati ad agire in modo responsabile e in quanto professionisti nel loro ambiente di lavoro, nonché a considerarsi reciprocamente tali.

La Carta è destinata a tutti i ricercatori dell’Unione europea in tutte le fasi della loro carriera e disciplina tutti i campi di ricerca nel settore pubblico e privato, indipendentemente dal tipo di nomina o di occupazione, dalla natura giuridica del datore di lavoro o dal tipo di organizzazione o istituto nei quali viene svolto il lavoro. Essa tiene conto della molteplicità dei ruoli svolti dai ricercatori che sono assunti non solo per svolgere attività di ricerca e/o effettuare attività di sviluppo, ma intervengono anche nella supervisione, nel mentoring, nella gestione o nei compiti amministrativi.

La Carta si basa sul presupposto che i ricercatori e le persone che li impiegano e/o li finanziano hanno l’obbligo assoluto di garantire il rispetto dei requisiti della legislazione nazionale o regionale rispettiva. Qualora i ricercatori beneficino di uno status e di diritti più favorevoli, per alcuni aspetti, di quelli previsti dalla presente Carta, le disposizioni di quest’ultima non debbono essere invocate per modificare in senso sfavorevole lo status e i diritti già acquisiti.

I ricercatori, i datori di lavoro e i finanziatori che aderiscono alla Carta devono inoltre rispettare i diritti fondamentali e osservare i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

PRINCIPI GENERALI E REQUISITI APPLICABILI AI RICERCATORI

Libertà di ricerca

I ricercatori dovrebbero orientare le loro attività di ricerca al bene dell’umanità e all’ampliamento delle frontiere della conoscenza scientifica, pur godendo della libertà di pensiero ed espressione, nonché della libertà di stabilire i metodi per risolvere problemi, secondo le pratiche e i principi etici riconosciuti.

I ricercatori dovrebbero, tuttavia, riconoscere i limiti di tale libertà che potrebbero derivare da circostanze particolari di ricerca (compresi la supervisione, l’orientamento e la gestione) o da vincoli operativi, ad esempio per motivi di bilancio o di infrastruttura o, soprattutto nel settore industriale, per motivi di tutela della proprietà intellettuale. Tali limiti non devono tuttavia contravvenire alle pratiche e ai principi etici riconosciuti cui i ricercatori devono conformarsi.

Principi etici

I ricercatori dovrebbero aderire alle pratiche etiche riconosciute e ai principi etici fondamentali applicabili nella o nelle loro discipline, nonché alle norme etiche stabilite dai vari codici etici nazionali, settoriali o istituzionali.

Responsabilità professionale

I ricercatori dovrebbero impegnarsi a garantire che i loro lavori siano utili per la società e non riproducano ricerche già effettuate altrove.

Dovrebbero evitare il plagio e rispettare il principio della proprietà intellettuale e della proprietà congiunta dei dati, nel caso di ricerche svolte in collaborazione con uno o più supervisori e/o altri ricercatori. L’esigenza di convalidare le nuove osservazioni dimostrando che gli esperimenti sono riproducibili non dovrebbe essere considerato plagio, a condizione che i dati da convalidare siano espressamente menzionati.

I ricercatori dovrebbero garantire che, nel caso di delega di un elemento qualsiasi del loro lavoro, la persona delegata abbia la competenza necessaria.

Comportamento professionale

I ricercatori dovrebbero conoscere gli obiettivi strategici che regolano il loro ambiente di ricerca, nonché i meccanismi di finanziamento e dovrebbero chiedere tutte le autorizzazioni necessarie prima di avviare le loro attività di ricerca o di accedere alle risorse fornite.

Dovrebbero informare i loro datori di lavoro, finanziatori o supervisori del ritardo, modifica o completamento del progetto di ricerca o avvertire se il loro progetto deve terminare prima del previsto o essere sospeso per una ragione qualsiasi.

Obblighi contrattuali e legali

I ricercatori di tutti i livelli devono conoscere i regolamenti nazionali, settoriali o istituzionali che regolano le condizioni di formazione e/o di lavoro, ivi compresi i diritti di proprietà intellettuale, nonché i requisiti e le condizioni di eventuali sponsor o finanziatori, indipendentemente dalla tipologia del loro contratto. I ricercatori dovrebbero rispettare tali regolamenti fornendo i risultati richiesti (ad esempio, tesi, pubblicazioni, brevetti, relazioni, sviluppo di nuovi prodotti, ecc.) come stabilito dai termini del contratto o del documento equivalente.

Responsabilità finanziaria

I ricercatori devono essere consapevoli del fatto che sono responsabili nei confronti dei loro datori di lavoro, finanziatori o altri organismi pubblici o privati collegati e, su un piano più strettamente etico, nei confronti della società nel suo insieme. In particolare, i ricercatori finanziati con fondi pubblici sono responsabili anche dell’utilizzo efficace del denaro dei contribuenti e pertanto dovrebbero aderire ai principi di una gestione finanziaria solida, trasparente ed efficace e cooperare in caso di audit autorizzati sulla loro ricerca, effettuati dai loro datori di lavoro/finanziatori o da comitati etici.

I metodi di rilevazione e di analisi dei dati, i risultati e, se del caso, le informazioni dettagliate concernenti tali dati dovrebbero essere accessibili a esami tanto interni che esterni, qualora necessario e su richiesta delle autorità competenti.

Buona condotta nel settore della ricerca

I ricercatori dovrebbero adottare sempre procedure di lavoro sicure, conformi alla legislazione nazionale, e in particolare prendere le precauzioni necessarie sotto il profilo sanitario e di sicurezza, anche per evitare le conseguenze d’incidenti gravi legati alle tecnologie dell’informazione, ad esempio istituendo strategie di backup adeguate. Dovrebbero inoltre essere al corrente dei vigenti requisiti legali nazionali per quanto riguarda la protezione dei dati e della riservatezza, e adottare le misure necessarie per soddisfarli in qualsiasi momento.

Diffusione e valorizzazione dei risultati

Tutti i ricercatori dovrebbero accertarsi, conformemente alle prescrizioni contrattuali, che i risultati delle loro ricerche siano diffusi e valorizzati, ossia comunicati, trasferiti in altri contesti di ricerca o, se del caso, commercializzati. I ricercatori di comprovata esperienza sono particolarmente tenuti ad accertarsi che le ricerche siano proficue e che i risultati siano valorizzati o resi accessibili al pubblico (o entrambe le cose) laddove possibile.

Impegno verso l’opinione pubblica

I ricercatori dovrebbero assicurare che le loro attività di ricerca siano rese note alla società in senso lato, in modo tale che possano essere comprese dai non specialisti, migliorando in questo modo la comprensione delle questioni scientifiche da parte dei cittadini. Il coinvolgimento diretto dell’opinione pubblica consentirà ai ricercatori di comprendere meglio l’interesse del pubblico nei confronti della scienza e della tecnologia e anche le sue preoccupazioni.

Rapporti con i supervisori

I ricercatori, durante la loro fase di formazione, dovrebbero stabilire rapporti regolari e strutturati con i loro supervisori e rappresentanti di facoltà/dipartimento in modo da trarre il massimo beneficio da tale relazione.

Ciò significa anche conservare traccia dei progressi del lavoro svolto e degli esiti delle ricerche, e ricevere un feedback sotto forma di relazioni e seminari, tenendo conto di tale feedback e lavorando secondo le scadenze, le tappe, le consegne e i risultati della ricerca convenuti.

Doveri di supervisione e gestione

I ricercatori di comprovata esperienza dovrebbero prestare particolare attenzione al loro ruolo poliedrico di supervisori, mentori, consulenti in materia di orientamento professionale, responsabili e coordinatori di progetto, manager e comunicatori scientifici. Dovrebbero svolgere questi compiti secondo i dettami della massima professionalità. Per quanto riguarda il loro ruolo di supervisori o mentori dei ricercatori, i ricercatori di comprovata esperienza dovrebbero stabilire un rapporto costruttivo e positivo con i ricercatori agli inizi di carriera, al fine di creare le condizioni per un efficace trasferimento delle conoscenze e per uno sviluppo continuo e positivo della carriera dei ricercatori.

Sviluppo professionale continuo

In tutte le fasi della loro carriera, i ricercatori dovrebbero cercare di perfezionarsi, aggiornando ed ampliando le loro conoscenze e competenze. A tal fine possono ricorrere a vari mezzi, tra cui la formazione tradizionale, i seminari, i convegni e l’e-learning.

PRINCIPI GENERALI E REQUISITI VALIDI PER I DATORI DI LAVORO E I FINANZIATORI

Riconoscimento della professione

Tutti i ricercatori che hanno abbracciato la carriera di ricercatore devono essere riconosciuti come professionisti ed essere trattati di conseguenza. Si dovrebbe cominciare nella fase iniziale delle carriere, ossia subito dopo la laurea, indipendentemente dalla classificazione a livello nazionale (ad esempio, impiegato, studente post-laurea, dottorando, titolare di dottorato-borsista, funzionario pubblico).

Non discriminazione

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori non devono discriminare i ricercatori sulla base del genere, dell’età, dell’origine etnica, nazionale o sociale, della religione o delle convinzioni, dell’orientamento sessuale, della lingua, delle disabilità, delle opinioni politiche, e delle condizioni sociali o economiche.

Ambiente di ricerca

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero garantire un ambiente di ricerca o di formazione alla ricerca il più stimolante possibile e in grado di offrire attrezzature, apparecchi e opportunità adeguati, ivi compresa la collaborazione a distanza nell’ambito di reti di ricerca. Dovrebbero inoltre garantire l’osservanza dei regolamenti nazionali o settoriali in materia di sanità e sicurezza. I finanziatori dovrebbero garantire la fornitura di risorse adeguate a sostegno del programma di lavoro concordato.

Condizioni di lavoro

I datori di lavori e/o i finanziatori dovrebbero garantire che le condizioni di lavoro dei ricercatori, ivi compresi i ricercatori disabili, prevedano, se del caso, la flessibilità ritenuta necessaria per l’adeguato svolgimento delle attività di ricerca, conformemente alla legislazione nazionale vigente e ai contratti collettivi nazionali o settoriali. Dovrebbero offrire condizioni di lavoro che consentano sia alle donne sia agli uomini di conciliare famiglia e lavoro, figli e carriera (4). Si dovrebbe inoltre prestare particolare attenzione agli orari di lavoro flessibili, al lavoro part time, al telelavoro e ai periodi sabbatici, nonché alle disposizioni finanziarie e amministrative necessarie per regolamentare questo ventaglio di possibilità.

Stabilità e continuità dell’impiego

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero garantire che le prestazioni dei ricercatori non risentano dell’instabilità dei contratti di lavoro e dovrebbero pertanto impegnarsi nella misura del possibile a migliorare la stabilità delle condizioni di lavoro dei ricercatori, attuando e rispettando le condizioni stabilite nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio.

Finanziamento e salari

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero assicurare ai ricercatori condizioni giuste e attrattive in termini di finanziamento e/o salario, comprese misure di previdenza sociale adeguate e giuste (ivi compresi le indennità di malattia e maternità, i diritti pensionistici e i sussidi di disoccupazione), conformemente alla legislazione nazionale vigente e agli accordi collettivi nazionali o settoriali. Ciò vale per i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, ivi compresi i ricercatori nella fase iniziale di carriera, conformemente al loro status giuridico, alla loro prestazione e al livello di qualifiche e/o responsabilità.

Equilibrio di genere

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero mirare ad un rappresentativo equilibrio di genere a tutti i livelli del personale, ivi compreso quello che esercita funzioni di supervisione e manageriali. Tale obiettivo dovrebbe essere conseguito sulla base di una politica di pari opportunità al momento dell’assunzione e nelle seguenti fasi della carriera, senza tuttavia che questo criterio abbia la precedenza sui criteri di qualità e competenza. Per garantire un trattamento equo, i comitati di selezione e valutazione dovrebbero vantare un adeguato equilibrio di genere.

Sviluppo professionale

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero elaborare, preferibilmente nell’ambito della loro gestione delle risorse umane, un’apposita strategia di sviluppo professionale per i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, indipendentemente dalla situazione contrattuale. Tale strategia dovrebbe prevedere anche la presenza di mentori destinati a fornire sostegno e orientamento per lo sviluppo umano e professionale dei ricercatori, motivandoli e contribuendo a ridurre eventuali insicurezze circa il loro futuro professionale. Tutti i ricercatori dovrebbero essere informati di questi dispositivi e accordi.

Valore della mobilità

I datori di lavoro e/o i finanziatori devono riconoscere il valore della mobilità geografica, intersettoriale, inter- e trans-disciplinare e virtuale nonché della mobilità tra il settore pubblico e privato, come strumento fondamentale di rafforzamento delle conoscenze scientifiche e di sviluppo professionale in tutte le fasi della carriera di un ricercatore. Dovrebbero pertanto integrare queste opzioni nell’apposita strategia di sviluppo professionale e valutare e riconoscere pienamente tutte le esperienze di mobilità nell’ambito del sistema di valutazione/avanzamento della carriera.

E’ pertanto necessario creare gli strumenti amministrativi che consentano la «trasferibilità» dei diritti in materia di previdenza sociale e retribuzioni, conformemente alla legislazione nazionale.

Accesso alla formazione alla ricerca e alla formazione continua

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero garantire che i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, indipendentemente dalla situazione contrattuale, abbiano la possibilità di progredire professionalmente e migliorare la loro occupabilità, mediante l’accesso a misure per lo sviluppo continuo delle competenze e delle conoscenze.

Tali misure dovrebbero essere periodicamente riesaminate per valutarne l’accessibilità, l’accettabilità e l’efficacia nel perfezionamento delle competenze, delle capacità e dell’occupabilità.

Accesso all’orientamento professionale

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero garantire che in tutte le fasi della loro carriera, indipendentemente dalla loro situazione contrattuale, vengano offerti ai ricercatori servizi di orientamento professionale e di assistenza nella ricerca di un lavoro, sia negli istituti interessati sia mediante la collaborazione con altre strutture.

Diritti di proprietà intellettuale

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero garantire che i ricercatori, in tutte le fasi della carriera, godano dei benefici (se previsti) della valorizzazione dei loro risultati di R&S, tramite tutela giuridica e, in particolare, tramite un’adeguata tutela dei diritti di proprietà intellettuale, ivi compresi i copyright.

Le politiche e le consuetudini dovrebbero specificare quali sono i diritti dei ricercatori e/o, se del caso, dei loro datori di lavoro o di terzi, ivi compresi gli organismi commerciali o industriali esterni, come stabilito, se possibile, da accordi specifici di collaborazione o ad altri tipi di accordo.

Coautore

Nella valutazione del loro personale, gli enti dovrebbero valutare positivamente l’essere «coautore» quale prova di un approccio costruttivo nello svolgimento dell’attività di ricerca. I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero pertanto elaborare strategie, pratiche e procedure per fornire ai ricercatori, ivi compresi quelli all’inizio di carriera, le condizioni di base necessarie perché possano godere del diritto di essere riconosciuti ed elencati e/o citati, nell’ambito delle loro collaborazioni, come coautori di pubblicazioni, brevetti, ecc. e di pubblicare i loro risultati in modo autonomo dai loro supervisori.

Supervisione

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero assicurare che venga chiaramente identificata una persona cui i ricercatori nella fase iniziale di carriera possano fare riferimento per lo svolgimento dei loro doveri professionali e dovrebbero, di conseguenza, informarne i ricercatori.

In tale ambito, si dovrebbe specificare chiaramente che i supervisori proposti vantano un’adeguata esperienza nella supervisione della ricerca e hanno il tempo, le conoscenze, l’esperienza, le competenze e la disponibilità per offrire al ricercatore in questione il sostegno adeguato. A chi viene formato alla ricerca dovrebbero inoltre essere fornite le adeguate procedure di avanzamento e di esame, nonché i meccanismi di feedback necessari.

Insegnamento

L’insegnamento è un mezzo essenziale per strutturare e diffondere le conoscenze e dovrebbe pertanto essere considerato un’opzione valida nel percorso professionale dei ricercatori. Tuttavia, gli impegni legati all’insegnamento non dovrebbero essere eccessivi e non dovrebbero impedire ai ricercatori, soprattutto nella fase iniziale della loro carriera, di svolgere attività di ricerca.

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero accertarsi che i compiti d’insegnamento siano adeguatamente remunerati, siano presi in considerazione nei sistemi di valutazione e che il tempo consacrato dai membri più esperti del personale addetto alla formazione dei ricercatori nella fase iniziale di carriera sia considerato come tempo dedicato ad attività di insegnamento. Si dovrebbe offrire una formazione adeguata per le attività di insegnamento e di mentoring nell’ambito dello sviluppo professionale dei ricercatori.

Sistemi di valutazione

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero adottare per tutti i ricercatori, ivi compresi i ricercatori di comprovata esperienza, dei sistemi di valutazione che consentano ad un comitato indipendente (e, nel caso dei ricercatori di comprovata esperienza, un comitato preferibilmente internazionale) di valutare periodicamente e in modo trasparente le loro prestazioni professionali.

Queste procedure di valutazione dovrebbero tenere in debito conto la creatività complessiva nella ricerca e i risultati ottenuti, ossia le pubblicazioni, i brevetti, la gestione della ricerca, le attività di insegnamento e le conferenze, le attività di supervisione e di mentoring, le collaborazioni nazionali o internazionali, i compiti amministrativi, le attività di sensibilizzazione del pubblico e la mobilità. Tali aspetti dovrebbero essere considerati anche per lo sviluppo della carriera

Reclami e ricorsi

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero stabilire procedure adeguate, conformemente alle regole e alle disposizioni nazionali, ricorrendo possibilmente ad una persona imparziale (del genere mediatore) per il trattamento dei reclami e dei ricorsi dei ricercatori, nonché dei conflitti tra supervisori e ricercatori agli inizi di carriera. Queste procedure dovrebbero fornire all’insieme del personale di ricerca, nel rispetto della riservatezza, un’assistenza informale per risolvere i conflitti di lavoro, le controversie ed i reclami, al fine di favorire un trattamento giusto ed equo in seno all’istituzione e migliorare la qualità complessiva dell’ambiente di lavoro.

Partecipazione agli organismi decisionali

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori dovrebbero riconoscere che è del tutto legittimo, nonché auspicabile, che i ricercatori siano rappresentati negli organi consultivi, decisionali e d’informazione delle istituzioni per cui lavorano, in modo da proteggere e promuovere i loro interessi individuali e collettivi in quanto professionisti e da contribuire attivamente al funzionamento dell’istituzione.

Assunzione

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero garantire che le norme di accesso e ammissione per i ricercatori, soprattutto per quelli agli inizi della loro carriera, siano rese note. Dovrebbero inoltre agevolare l’accesso ai gruppi svantaggiati o ai ricercatori che riprendono la loro carriera di ricercatore, ivi compresi gli insegnanti (di qualsiasi livello).

I datori di lavoro e/o i finanziatori dei ricercatori, in fase di nomina o assunzione di ricercatori, dovrebbero conformarsi ai principi stabiliti nel codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori.

SEZIONE 2

Codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori

Il codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori consiste in un insieme di principi generali e prescrizioni che dovrebbero esser applicati dai datori di lavoro e/o dai finanziatori quando nominano o assumono dei ricercatori. Questi principi e prescrizioni dovrebbero garantire il rispetto di criteri quali la trasparenza del processo di assunzione e la parità di trattamento dei candidati, soprattutto nella prospettiva della creazione di un mercato del lavoro europeo attrattivo, aperto e sostenibile per i ricercatori, e sono complementari rispetto ai principi e alle prescrizioni contenuti nella Carta europea dei ricercatori. Le istituzioni e i datori di lavoro che sottoscrivono tale codice daranno prova del loro impegno ad agire in modo responsabile e giusto e a offrire condizioni quadro eque ai ricercatori, nel chiaro intento di contribuire allo sviluppo della Spazio europeo della ricerca.

PRINCIPI GENERALI E REQUISITI DEL CODICE DI CONDOTTA

Assunzione

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero istituire procedure di assunzione aperte, efficaci, trasparenti, favorevoli, equiparabili a livello internazionale e adeguate ai posti di lavoro proposti.

Gli annunci dovrebbero contenere un’ampia descrizione delle conoscenze e delle competenze richieste, ma non dovrebbero richiedere competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati. I datori di lavoro dovrebbero includere una descrizione delle condizioni di lavoro e dei diritti, ivi comprese le prospettive di carriera. Il periodo di tempo concesso tra la pubblicazione dell’avviso o dell’invito a presentare candidature e la data limite per proporre la propria candidatura dovrebbe essere ragionevole.

Selezione

I comitati di selezione dovrebbero comprendere membri con esperienze e competenze diverse, riflettere un adeguato equilibrio tra uomini e donne e, laddove necessario e possibile, comprendere membri provenienti da vari settori (pubblico e privato) e discipline, nonché da altri paesi e con l’esperienza necessaria per valutare i candidati. Nella misura del possibile, si dovrebbero utilizzare procedure di selezione diverse, come la valutazione di esperti esterni e le interviste face-to-face. I membri dei comitati di selezione dovrebbero essere adeguatamente formati.

Trasparenza

I candidati dovrebbero essere informati, prima della selezione, sulle procedure di assunzione e sui criteri di selezione, sul numero di posti disponibili e sulle prospettive di carriera. Al termine del processo di selezione, dovrebbero inoltre essere informati dei punti deboli e dei punti di forza della loro candidatura.

Valutazione del merito

Nella procedura di selezione si dovrebbe tenere contro dell’insieme delle esperienze maturate dai candidati. Pur concentrandosi sul loro potenziale globale in quanto ricercatori, si dovrebbe tenere conto della loro creatività e del loro grado di indipendenza.

Ciò significa che il merito dovrebbe essere valutato sul piano qualitativo e quantitativo, ponendo l’accento sui risultati eccezionali ottenuti in un percorso personale diversificato e non esclusivamente sul numero di pubblicazioni. Pertanto, l’importanza degli indicatori bibliometrici deve essere adeguatamente ponderata nell’ambito di un’ampia gamma di criteri di valutazione, considerando le attività di insegnamento e supervisione, il lavoro in équipe, il trasferimento delle conoscenze, la gestione della ricerca, l’innovazione e le attività di sensibilizzazione del pubblico. Per i candidati provenienti dal settore industriale occorrerebbe prestare particolare attenzione ad eventuali brevetti, attività di sviluppo o invenzioni.

Variazioni nella cronologia del curriculum vitae

Le interruzioni di carriera o le variazioni nell’ordine cronologico del curriculum vitae non dovrebbero essere penalizzate, ma considerate come un contributo potenzialmente valido allo sviluppo professionale dei ricercatori lungo un percorso professionale multidimensionale. I candidati dovrebbero essere autorizzati a presentare dei curricula vitae basati su prove concrete, che rispecchino un insieme significativo di realizzazioni e qualifiche per il posto di lavoro cui aspirano.

Riconoscimento dell’esperienza di mobilità

Eventuali esperienze di mobilità, ossia un soggiorno in un paese o regione diversi o in un altro istituto di ricerca (pubblico o privato), o un cambiamento di disciplina o settore, sia nell’ambito della formazione iniziale che in una fase ulteriore della carriera, o ancora un’esperienza di mobilità virtuale, dovrebbero essere considerate contributi preziosi allo sviluppo professionale del ricercatore.

Riconoscimento delle qualifiche

I datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero provvedere all’adeguata valutazione delle qualifiche universitarie e professionali di tutti i ricercatori, ivi comprese le qualifiche non formali, in particolare nel contesto della mobilità internazionale e professionale. Dovrebbero informarsi e acquisire una buona conoscenza delle regole, procedure e norme che disciplinano il riconoscimento di tali qualifiche ed esaminare la normativa nazionale vigente, le convenzioni e le regole specifiche relative al riconoscimento, attraverso tutti i canali disponibili.

Anzianità

I livelli delle qualifiche richieste dovrebbero corrispondere alle esigenze del posto di lavoro e non essere fissati come un ostacolo all’assunzione. Il riconoscimento e la valutazione delle qualifiche dovrebbero incentrarsi sull’esame dei risultati della persona, più che della sua situazione personale o della reputazione dell’istituto in cui ha acquisito tali qualifiche. Visto che le qualifiche professionali possono essere acquisite all’inizio di una lunga carriera, occorre anche riconoscere il modello di sviluppo professionale lungo l’intero arco della vita.

Nomine post-dottorato

Gli istituti che nominano ricercatori titolari di un dottorato dovrebbero fissare regole chiare e orientamenti espliciti per l’assunzione e la nomina di tali ricercatori, specificando, tra l’altro, la durata massima e gli obiettivi di queste nomine. Tali orientamenti dovrebbero tenere conto delle esperienze maturate come ricercatori post-dottorato presso altri istituti e del fatto che lo statuto di post-dottorato dovrebbe essere transitorio, allo scopo precipuo di offrire ulteriori possibilità di sviluppo professionale nell’ambito di prospettive di carriera a lungo termine.

SEZIONE 3

Definizioni

Ricercatori

Nella presente raccomandazione, viene utilizzata la definizione di ricerca tratta dal manuale di Frascati accettata a livello internazionale. Di conseguenza i ricercatori sono descritti come

«Professionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati»

Più specificatamente, la presente raccomandazione riguarda le persone che svolgono attività professionali nella R & S, in qualsiasi fase della carriera, e indipendentemente dalla loro classificazione. Ciò comprende qualsiasi attività nel campo della «ricerca di base», della «ricerca strategica», della «ricerca applicata», dello sviluppo sperimentale e del «trasferimento delle conoscenze», ivi comprese l’innovazione e le attività di consulenza, supervisione e insegnamento, la gestione delle conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale, la valorizzazione dei risultati della ricerca o il giornalismo scientifico.

Viene fatta una distinzione tra ricercatori nella fase iniziale di carriera e ricercatori dalla comprovata esperienza:

Il termine «ricercatore nella fase iniziale di carriera» si riferisce ai ricercatori nei primi quattro anni (equivalente a tempo pieno) di attività di ricerca, inclusi i periodi di formazione alla ricerca.

 

I «ricercatori dalla comprovata esperienza» sono quelli che vantano almeno quattro anni di esperienza nel campo della ricerca (equivalente a tempo pieno) a decorrere dal momento in cui hanno ottenuto il diploma che dà accesso diretto agli studi di dottorato, nel paese in cui hanno ottenuto la laurea/il diploma, o che sono già titolari di un diploma di dottorato, indipendentemente dal tempo impiegato per ottenerlo.

Datori di lavoro

Nell’ambito della presente raccomandazione, «datori di lavoro» sono tutti gli enti pubblici o privati che impiegano ricercatori in base a un contratto o che li ospitano nell’ambito di altri tipi di contratti o accordi, ivi compresi quelli che non prevedono rapporti economici diretti. In quest’ultimo caso, si tratta di istituti di insegnamento superiore, dipartimenti di facoltà, laboratori, fondazioni o organismi privati presso cui i ricercatori seguono una formazione alla ricerca o svolgono attività di ricerca, grazie ad un finanziamento proveniente da terzi.

Finanziatori

Il termine «finanziatori» si riferisce a tutti gli enti che erogano un finanziamento (ivi compresi stipendi, premi, sovvenzioni e borse) agli istituti di ricerca pubblici e privati, inclusi gli istituti d’insegnamento superiore. In tale veste possono richiedere come condizione primaria per il finanziamento che gli istituti finanziati debbano elaborare e applicare strategie, condotte e meccanismi efficaci, conformemente ai principi generali e alle prescrizioni illustrate nella presente raccomandazione.

Nomina o impiego

Si riferisce a qualsiasi tipo di contratto, remunerazione, borsa; sovvenzione o premio finanziato da terzi, ivi compresi i finanziamenti nell’ambito dei programmi quadro.

 

La sopra riportata Carta Europea dei Ricercatori, unitamente al Codice di Condotta per la loro assunzione, è rivolta a tutti i ricercatori e le ricercatrici dell’Unione Europea e contiene rilevanti principi generali e raccomandazioni in merito al loro ruolo, responsabilità e diritti.

Nel dettaglio, l’obiettivo della Carta Europea dei Ricercatori è sicuramente quello di incentivare la mobilità all’interno dell’Unione Europea (garantendo che i ricercatori godano degli stessi diritti e doveri in ogni Stato membro) nonché di riflettere al fine di migliorare le condizioni e l’ambiente di lavoro; in tal senso devono essere altresì lette le disposizioni inserite al fine di favorire i processi di riconoscimento e di sviluppo professionale nel settore della ricerca.

Il Codice di Condotta per l’assunzione dei Ricercatori si pone invece come obiettivo quello di tracciare le linee guide per il miglioramento dei processi di reclutamento nonché per rendere più eque e trasparenti le procedure di selezione, proponendo a tal fine anche strumenti e criteri alternativi per la valutazione del merito con particolare riferimento allo specifico settore delle attività di ricerca.

Contratto di logistica e responsabilità solidale del committente nei confronti dei dipendenti dall’appaltatore.

Contratto di logistica e tutela del personale

Nell’ambito del decentramento produttivo, la normativa del lavoro prevede forme di responsabilizzazione dei soggetti interessati nei confronti dei lavoratori e di tutela di questi ultimi.

In proposito, la legge vuole evitare che il trasferimento a cascata dei processi produttivi finisca per pregiudicare le ragioni creditorie dei dipendenti che rischiano di affidarsi a controparti via via meno solvibili e consistente.

E’ quanto accade nell’ambito dell’appalto che ad oggi appare come la forma principale di decentramento produttivo.

In tal senso, la normativa agisce su di un duplice piano.

In primo luogo, si vuole combattere l’elusione, circoscrivendo l’ambito di quello che viene definito coma appalto genuino e quindi quello che possiede tutti i requisiti di cui all’articolo 1655 come l’organizzazione da parte dell’appaltatore di tutti i mezzi per il compimento dell’opera e l’assunzione del relativo rischio economico, rispetto al fenomeno della somministrazione di lavoro che assume carattere fraudolento laddove non autorizzato dalla legge.

In secondo luogo, la legge prevede nell’ambito dell’appalto, forme di responsabilità solidale del nei confronti dei dipendenti.

Quivi troviamo in primo luogo l’articolo 29 comma 2 del DLGS 276/2003 che stabilisce come in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro, è obbligato in solido con l’appaltatore e con altri eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto a corrispondere i trattamenti retributivi e contributivi maturati.

Il committente assume così una posizione di garanzia anche a favore dei dipendenti di terzi come l’appaltatore o gli eventuali subappaltatori.

Sempre a tutela dei crediti dei lavoratori, il codice civile prevede l’azione diretta di cui all’articolo 1676 del codice civile che prevede la possibilità per i dipendenti dall’appaltatore di agire direttamente nei confronti del committente per soddisfarsi sui crediti che l’appaltatore vanta nei confronti di quest’ultimo.

Il contratto di logistica

Sempre nel campo del decentramento produttivo, assume sempre maggiore rilievo il campo della logistica che un tempo si limitava al semplice trasporto ed immagazzinamento.

L’appalto di logistica è divenuta ormai un’importante successione di attività e fasi che poco hanno a che fare con il trasporto. Si parla ormai infatti di logistica integrata.

A disciplinare il fenomeno produttivo è intervenuto l’articolo 1677 del Codice Civile che ha stabilito come qualora l’appalto abbia per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo all’altro, si applicano le norme relative al contratto di trasporto in quanto compatibili.

Dunque, pare chiaro come le attività integrate vengano assimilate all’appalto dove l’articolo 1677 del Codice Civile trova la propria collocazione e la restante attività di trasporto se compatibile troverà l’applicazione della normativa in tema di trasporto.

Dunque, una sostanziale equiparazione della logistica integrata all’appalto almeno como sottotipo della stesa.

Le tutele del lavoro nel contratto di logisticaL’opinione del Ministero del Lavoro

Appurata la riconduzione del contratto di logistica integrata quale sottospecie dell’appalto, ci si chiede se a tale forma di decentramento della produzione, possano applicarsi le forme di tutela dei crediti dei dipendenti previsto per gli appalti.

Il Ministero del Lavoro, con l’interpello 1/2022 – Appalto di Servizi di Logistica; Responsabilità Solidale, richiesto dalle Organizzazioni Sindacali FILT CGIL e FIT CISL, in data 17 ottobre 2022 ha ritenuto come l’appalto di logistica configuri un ipotesi di appalto di servizi tenuto conto della scelta del legislatore di collocarne la disposizione nel titolo III Capo VII del Codice Civile che reca le disposizioni in tema di appalto, sia in base al tenore letterale dell’articolo 1677 del Codice Civile che stabilisce l’applicazione delle norme relative al contratto di trasporto” in quanto compatibili”.

Sulla base di tali ragioni, il Ministero del Lavoro ha ritenuto applicabile al contratto di trasporto il regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2 del DLGS 276/2003 e ciò allorquando si accerti il compimento di attività ulteriori rispetto allo schema tipico del traporto, oppure qualora l’attività si configuri come vero e proprio appalto di trasporto che, per come configurato dalla giurisprudenza, si caratterizza per “la predeterminazione e la sistematicità dei servizi, accompagnate dalla pattuizione di un corrispettivo unitario e dall’assunzione dei rischi da parte del trasportatore.” (Cass. n. 6160 del 13 marzo 2009).

Dunque chi affida le attività di trasporto e logistica a terzi deve tener conto della responsabilità che sullo stesso incombe per il pagamento dei dipendenti degli affidatari dei servizi.

Fabio Petracci

Il lavoro intermittente e l’obbligo della comunicazione precedente alla prestazione

  1. Il lavoro intermittente, caratteri distintivi

Il lavoro intermittente rientra nella categoria delle tipologie di lavoro flessibile previste dalla Sezione II del Capo II, rubricato “Lavoro ridotto e flessibile” del D.lgs. 81/2015, il quale contiene una disciplina organica dei contratti di lavoro.

Si tratta del contratto, a tempo determinato o indeterminato, in forza del quale il datore di lavoro “chiama” il lavoratore ad effettuare la prestazione pattuita quando lo ritiene opportuno sulla base delle proprie esigenze. Proprio per questo motivo il contratto viene anche definito “a chiamata”.

La prestazione lavorativa viene, pertanto, svolta in modo discontinuo o intermittente.

Vi è un limite massimo di fruizione rappresentato da quattrocento giornate di effettivo lavoro con il medesimo datore di lavoro, nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento è prevista la “sanzione” per il datore della trasformazione del rapporto a tempo pieno e indeterminato.

Tale limite orario non si applica ai settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

In forza del principio di non discriminazione, <<il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello>> (art. 17).

Si sottolinea che il lavoratore intermittente matura il trattamento economico e normativo solo con riferimento alle giornate in cui svolge effettivamente la prestazione lavorativa.

Nei periodi, però, di sua reperibilità, nei quali, cioè, egli garantisce la propria disponibilità a rispondere alle chiamate ma non è detto che lavori, gli spetta l’indennità di disponibilità (art. 13, comma 4), come prevista dai contratti collettivi o dall’accordo delle parti.

  1. L’ obbligo di comunicazione ex art. 15, comma 3 Dlgs. 81/2015

Il presente punto intende rappresentare una guida all’ottemperanza dell’obbligo previsto dal comma 3 dell’art. 15 del D.lgs. 81/2015, il quale costituisce un onere ulteriore in capo al datore di lavoro, rispetto a quello di comunicazione obbligatoria di assunzione, cessazione e trasformazione del rapporto (UNILAV), previsto per qualsiasi tipologia di lavoro subordinato.

Oltre all’UNILAV il datore deve, infatti, provvedere alla comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, prima dell’inizio della prestazione lavorativa intermittente o di un ciclo integrato di prestazioni intermittenti di durata non superiore a 30 giorni (art. 15, comma 3).

  • Le modalità di trasmissione della comunicazione

Le modalità operative, attualmente in vigore, per eseguire tale comunicazione sono state definite dal Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 e dalla Circolare MLPS n. 27/2013.

La Circolare MLPS del 12 febbraio 2020 fornisce, inoltre, alcuni chiarimenti sulle modalità di comunicazione con riferimento ai lavoratori dello spettacolo.

Si riportano di seguente le modalità e i contenuti di tale ulteriore comunicazione, come individuate dai sopra menzionati decreto interministeriale e circolare esplicativa.

Dal punto di vista soggettivo, i soggetti abilitati ad effettuare la comunicazione sono il datore di lavoro o i “soggetti obbligati”, ossia coloro i quali, ai sensi della normativa vigente possono effettuare le comunicazioni in loro nome e per conto, come, per esempio, i consulenti del lavoro.

Le modalità di trasmissione della comunicazione sono esclusivamente le seguenti:

  1. a) via email all’indirizzo di posta certificata intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it;
  2. b) per il tramite del servizio informatico attraverso il portale cliclavoro (www.cliclavoro.gov.it).
  3. c) via sms al numero 339-9942256.

Per quanto concerne la modalità sub a), per utilizzare tale canale, dovrà essere inviato in allegato alla mail, il modello “UNI_Intermittente” compilato in ogni sua parte.

Ai fini dell’adempimento dell’obbligo verranno prese in considerazione esclusivamente le e-mail contenenti il modello “UNI-Intermittente” debitamente compilato.

Tale modello richiede l’inserimento dei seguenti dati:

– codice fiscale e indirizzo di posta elettronica del datore di lavoro;

– codice fiscale del lavoratore interessato;

– codice di comunicazione del modello UNILAV cui la chiamata si riferisce (campo non obbligatorio);

– data inizio e data fine della prestazione per la quale si sta effettuando la comunicazione.

Non sono previste mail di conferma di ricezione e, ai fini di dimostrare l’esatto adempimento dell’obbligo, il datore di lavoro dovrà consegnare copia del modello compilato e allegato alla e-mail inviata. A tal fine il modello contiene in basso due opzioni: una di “stampa” che permette di stampare il modello e una “Genera xml e invia via e-mail” necessaria per adempiere all’obbligo, inviando il modello così generato all’indirizzo di posta elettronica certificata già indicata.

Si evidenzia che per utilizzare tale modalità di comunicazione non è necessario che l’indirizzo e-mail del mittente sia un indirizzo di posta elettronica certificata. La casella intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it è infatti abilitata a ricevere comunicazioni anche da indirizzi di posta non certificata.

La modalità sub b), si attua mediante la registrazione e poi l’accesso al portale “cliclavoro” (www.cliclavoro.gov.it).

Anche in questo caso, il portale richiede la compilazione di un apposito modulo, con le modalità evidenziate nell’apposita sezione.

Per facilitare l’inserimento delle informazioni, non appena indicato il codice fiscale del lavoratore interessato alla chiamata, saranno proposte, se presenti, l’elenco delle comunicazioni obbligatorie di tipo intermittente aperte e il datore di lavoro dovrà semplicemente indicare il relativo codice di comunicazione.

Circa l’opzione sub c), questa è una modalità eccezionale prevista dall’articolo 4, comma 2 del decreto ministeriale del 27 marzo 2013.

Essa va utilizzata, infatti, esclusivamente per le prestazioni che hanno inizio non oltre le 12 ore dal momento della comunicazione (e che quindi possono terminare anche dopo le 12 ore dalla comunicazione), avendo cura di indicare almeno il codice fiscale del lavoratore utilizzato.

Al fine di identificare il datore di lavoro che sta inviando l’SMS è necessario che lo stesso si sia precedentemente registrato al portale cliclavoro, avendo cura di indicare nel form di registrazione il numero di telefono cellulare che sarà utilizzato per l’invio del modello. Solo in questo modo gli organi di vigilanza potranno verificare l’esatto adempimento dell’obbligo.

Non verranno prese in considerazione le comunicazioni inviate con un SMS che non contiene le informazioni sopra indicate ovvero provenienti da un numero di cellulare non registrato.

Come sopra accennato, le modalità appena delineate sono esclusive, pertanto non vengono prese in considerazione dagli organi ispettivi comunicazioni effettuate per vie diverse.

  • Cosa succede in caso di malfunzionamento del servizio informatico?

Il Decreto Ministeriale 27 marzo 2013 al comma 6 dell’articolo 4 prevede che in caso di malfunzionamento del servizio informatico di cui alla precedente lettera c), i soggetti abilitati possano adempiere agli obblighi inviando, nei termini previsti dalla legge, il Modello “UNI-intermittente” al numero di fax della competente Direzione territoriale del lavoro.

In tal caso, il datore di lavoro dovrà conservare la copia del fax unitamente alla ricevuta di malfunzionamento rilasciata direttamente dal servizio informatico.

Questa comunicazione serve esclusivamente per attestare agli organi di vigilanza la buona fede del datore di lavoro e la circostanza che l’inosservanza dei termini è stata determinata da un oggettivo impedimento.

  • È possibile annullare la comunicazione?

Le comunicazioni effettuate con le modalità precedentemente descritte possono essere annullate secondo quanto chiarito con circ. n. 20/2012.

L’annullamento può essere effettuato esclusivamente tramite e-mail da indirizzare all’indirizzo PEC di cui alla precedente lettera a) ovvero riprendendo il modello on line precedentemente inviato, avendo cura di selezionare le prestazioni già comunicate da annullare nonché il tasto “annullamento”.

  • Disciplina speciale per i lavoratori dello spettacolo

Le aziende che intendono utilizzare con contratto di lavoro intermittente i lavoratori di cui al Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947, n. 708 adempiono all’obbligo in esame con la presentazione del c.d. “certificato di agibilità” di cui all’articolo 10 dello stesso decreto provvisorio del capo dello stato del 1947. Utilizzando la cooperazione applicativa già funzionante tra Enpals e il Ministero del lavoro tali comunicazioni vengono rese disponibili altresì agli uffici del predetto Ministero.

  • Trasferimento dei dati

Il Ministero riceve la comunicazione e mette a disposizione le informazioni relative alle chiamate di lavoro intermittente, effettuate con le modalità descritte nei paragrafi precedenti, alle Direzioni territoriali del lavoro attraverso i propri servizi di rete interna nonché agli ispettorati del lavoro ubicati presso le Regioni e Province Autonome che hanno “regionalizzato” tali funzioni, attraverso il sistema di cooperazione applicativa.

  • Sanzioni

In caso di violazione dell’obbligo di comunicazione si applica la sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.

Si tenga presente che non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.

Sul punto va altresì evidenziato che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare del 22 aprile 2013, ha chiarito che “la sanzione in esame trova applicazione con riferimento ad ogni lavoratore e non invece per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto l’obbligo comunicazionale. In sostanza, per ogni ciclo di 30 giornate che individuano la condotta del trasgressore, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore”.

Dottoressa Anna Chiara Monti

Alte professionalità

Pubblico impiego: la nuova area EP, “elevate professionalità”.

La presente trattazione riguarda la materia dell’inquadramento nell’ambito del pubblico impiego, laddove con il decreto legge 9.6.2021 n.80 si è cercato di rivalutare le professionalità medio-alte, troppo spesso schiacciate tra il ruolo preminente della dirigenza e quello generale delle altre categorie non dirigenziali.

Si è voluto inoltre valorizzare in funzione della professionalità acquisita la dinamica di progressione tra le diverse aree.

Si procederà quindi in sintesi ad un sommario esame della normativa citata (sub.1) e quindi della sua trasposizione nel contratto collettivo di comparto delle funzioni centrali (sub.2) per poi esaminare le prime indicazioni operative fornite dall’ARAN e ricavate dal bollettino periodico emesso dall’agenzia (sub.3).

  1. Sul piano normativo

Il decreto legge 9.6.2021 n.80 introduce alcune importanti modifiche all’articolo 52 del d.lgs. n.165/2001, che riguarda l’inquadramento del personale.

È quivi stabilito come i dipendenti pubblici, ad esclusione dei dirigenti e del personale della scuola, debbano essere inquadrati in almeno 3 distinte aree funzionali con l’aggiunta, come vedremo, di una quarta area per le elevate professionalità.

La novità è data proprio dal fatto che la norma stessa delega la contrattazione collettiva ad individuare un’ulteriore aerea per inquadrarvi il personale ad elevata qualificazione.

Si passa a regolamentare le modalità di progressione all’interno di ciascuna area delegando anche qui la contrattazione collettiva nei limiti imposti dalle capacità culturali e professionali e dall’esperienza maturata, seguendo dei principi di selettività che tengano conto anche dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito.

La legge passa quindi a disciplinare il passaggio tra aree di inquadramento.

È stabilita in primo luogo una riserva nell’accesso a ciascuna area nella misura del 50% a favore dei candidati esterni.

Precisato un tanto, stabilisce la norma di legge come le progressioni tra aree per i candidati esterni avvengano tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva del dipendente nell’ultimo triennio di servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli e competenze professionali ovvero di titoli di studio ulteriori rispetto a quelli necessari per l’accesso all’area dall’esterno e sul numero e la tipologia degli incarichi rivestiti.

Quindi, al fine di evitare, come spesso accade, un generale trascinamento verso l’alto, la norma stabilisce come la contrattazione collettiva a venire per il periodo 2020 – 2021 potrà effettuare nuovi inquadramenti per il tramite di tabelle di corrispondenza, ad esclusione dell’area per le elevate professionalità.

  1. Il CCNL 9 maggio 2022 funzioni centrali

Il CCNL 2021/2022 del Comparto Funzioni Centrali accoglie e traduce le disposizioni di legge che abbiamo appena esaminato.

Esso stabilisce in primo luogo l’inquadramento in quattro aree professionali per il personale non dirigente.

La titolazione delle aree è mutata nelle seguenti:

  1. Area degli operatori;
  2. Area degli assistenti;
  3. Area dei funzionari;
  4. Area delle elevate professionalità.

All’interno di ciascuna area sono individuate delle progressioni economiche atte a remunerare economicamente il maggior grado di competenza professionale.

Dette progressioni sono individuate in apposita tabella allegata al CCNL.

Precisa il contratto come l’attribuzione di differenziali stipendiali non comporti l’attribuzione di mansioni superiori e come comunque la stessa debba avvenire mediante procedura selettiva in relazione alle risorse disponibili presso il Fondo Risorse Decentrate.

Sono inoltre stabiliti i requisiti di partecipazione alla procedura selettiva, riservata ai lavoratori che negli ultimi 3 anni non abbiano beneficiato di alcuna progressione economica, termine che in ogni caso può essere ridotto a 2 anni o aumentato a 4 anni.

Ulteriore requisito è dato dall’assenza negli ultimi 2 anni di provvedimenti disciplinari superiori alla multa o al rimprovero scritto per le fattispecie contemplate nel codice disciplinare.

Per quanto riguarda la terza area, quella dei funzionari, le amministrazioni in base ai propri ordinamenti possono conferire a questi ultimi incarichi a termine di natura organizzativa o professionale che pur rientrando nell’ambito di inquadramento, richiedano lo svolgimento di compiti di maggiore responsabilità.

Su tale base è previsto il conferimento di una apposita indennità di posizione organizzativa.

E’ previsto inoltre che gli incarichi saranno conferiti dai dirigenti con atto scritto e motivato per un periodo non superiore ai 3 anni tenendosi conto dei requisiti culturali e delle capacità professionali dei dipendenti e delle caratteristiche dell’incarico affidato.

Per gravi mancanze è pure previsto che gli incarichi possano essere revocati.

Incarichi di natura specificamente rilevante sono invece conferiti ai dipendenti appartenenti all’area EP – Elevate Professionalità.

In questo caso, come avviene già per i dirigenti, gli incarichi debbono essere necessariamente conferiti agli appartenenti a quest’area. Anche in questo caso, l’incarico presuppone una valutazione delle capacità e delle esperienze dei soggetti.

La durata minima di questi incarichi è di un anno, la massima di tre anni. In ogni caso, essi possono essere rinnovati.

Questi incarichi possono essere revocati a seguito di performance negativa, ma anche in caso di necessità organizzative. A fronte dell’incarico è prevista una retribuzione di posizione e di risultato.

Quindi la contrattazione affronta il delicato tema concernente le norme di prima applicazione ed in particolare l’attribuzione delle nuove qualifiche EP.

È così stabilito un periodo dilatorio di 5 mesi dall’entrata in vigore del nuovo contratto anche per definire l’inquadramento del personale secondo le nuove norme.

Nella norma transitoria sono contenute diverse disposizioni anche per quanto attiene la progressione tra aree e la futura definizione delle cosiddette “famiglie professionali” da ricavarsi all’interno di ciascuna area.

  1. I quesiti all’ARAN

Le novità introdotte hanno determinato il sorgere di numerosi quesiti cui l’ARAN ha dato recente risposta e che di seguito si riportano.

Si può lasciare una EP senza incarico?

No, il contratto non prevede tale eventualità. L’incarico è infatti un elemento sostanziale e qualificante dell’appartenenza all’Area EP, analogamente a quanto avviene per la dirigenza. Pur non essendovi un diritto a coprire un incarico specifico (o a mantenere nel tempo, anche oltre la sua scadenza, l’incarico affidato inizialmente), vi è tuttavia il diritto a coprire uno degli incarichi previsti

dall’amministrazione, per le sue esigenze organizzative e di ottimale funzionamento.

L’incarico affidato ad una EP può essere rinnovato alla scadenza?

Non vi è una preclusione del contratto ad attribuire nuovamente lo stesso incarico, una volta che lo stresso sia giunto a scadenza, previa positiva valutazione da parte dell’amministrazione con le procedure previste dal sistema di valutazione.

Progressioni verticali

Durante la prima applicazione del nuovo ordinamento professionale (dal 1° novembre 2022 fino al 31 dicembre 2024), con quale disciplina si effettueranno le progressioni verticali? Con quella di cui all’art. 17 o con quella di cui all’art. 18, commi 6, 7 e 8 del CCNL 9 maggio 2022? Oppure con entrambe?

In base all’art. 18, comma 6, in fase di prima applicazione del nuovo ordinamento professionale e comunque entro il termine del 31 dicembre 2024, la progressione tra le aree, ad esclusione di quella verso l’area EP, ha luogo con le procedure disciplinate dai commi 6, 7 e 8 dell’art. 18. Si ritiene che tale formulazione escluda la possibilità di far coesistere entrambe le procedure (procedura transitoria ex art. 18 e procedura a regime ex art. 17). Resta, in ogni caso, ferma la possibilità di effettuare progressioni verticali verso EP anche durante il periodo di prima applicazione, ma applicando le regole ordinarie (art. 17 CCNL 9 maggio 2022 e art. 52, comma 1-bis, d.lgs. n. 165/2001). Si ricorda, in proposito, che la previsione contrattuale di cui al citato art. 17 è meramente ricognitiva di quanto previsto dalla legge (art. 52, comma 1-bis, come modificato dall’art. 3, comma 1 del d.l. n. 80/2021), vista la preclusione in materia del CCNL.

Quali sono le differenze e gli elementi comuni tra procedura a regime e procedura transitoria per le progressioni verticali?

Differenze

La prima differenza concerne i requisiti: nella procedura transitoria, i requisiti sono quelli della tabella 3 allegata al CCNL (titolo di studio + esperienza), che dà la possibilità di candidarsi anche a coloro che hanno un titolo di studio immediatamente inferiore a quello richiesto per l’accesso dall’esterno, ma sono in possesso di un numero maggiore di anni di esperienza; nella procedura a regime, i requisiti sono quelli previsti dall’art. 52, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001.

La seconda differenza riguarda i criteri selettivi: nella procedura transitoria, i criteri sono quelli previsti dall’art. 18, comma 7 del CCNL 9 maggio 2022 (esperienza, titolo di studio e competenze professionali) e ciascuno di tali criteri deve pesare almeno il 25%; nella procedura a regime, i criteri sono quelli previsti dall’art. 17 del CCNL 9 maggio 2022 e dal nuovo art. 52, comma 1-bis del d. lgs.n. 165/2001 (valutazione positiva conseguita negli ultimi tre anni di servizio, titoli o competenze professionali, titoli di studio ulteriori rispetto a quelli richiesti per l’accesso dall’esterno, numero e tipologia degli incarichi rivestiti).

La terza differenza riguarda le relazioni sindacali: nella procedura transitoria, i criteri più specifici che declinano i criteri generali stabiliti dal contratto, nonché i pesi loro attribuiti, sono definiti dalle amministrazioni previo confronto con i sindacati; nella procedura a regime, non è previsto il previo confronto con i sindacati sui criteri.

La quarta differenza riguarda il finanziamento: le progressioni verticali effettuate con la procedura transitoria sono finanziate dalle risorse determinate ai sensi dell’art. 1 comma 612 della legge n. 234 del 30 dicembre 2021 (Legge di bilancio 2022) in misura non superiore allo 0,55% del monte salari dell’anno 2018 oltreché dalle facoltà assunzionali; quelle effettuate con la procedura a regime sono invece finanziate solo dalle facoltà assunzionali. Si ricorda che l’utilizzo delle facoltà assunzionali per le progressioni verticali, sia per le procedure a regime che per le procedure effettuate durante la fase transitoria, è possibile nella misura massima del 50% del fabbisogno. Le risorse di cui dell’art. 1 comma 612 della legge n. 234 del 30 dicembre 2021, in quanto risorse attribuite alla contrattazione collettiva il cui utilizzo è limitato alla sola fase transitoria di prima applicazione del nuovo sistema di classificazione ai sensi dell’art. 52, comma 1-bis, penultimo periodo, del d.lgs. n. 165/2001, possono invece essere destinate integralmente alle progressioni verticali.

Elementi comuni

In entrambi i casi:

 vi è una procedura che prevede: un bando, una istanza di ammissione alla procedura da parte del dipendente, un’ammissione alla procedura dopo la verifica dei requisiti, una fase istruttoria per l’attribuzione dei punteggi, un ordine di merito finale tra i candidati in base al quale sono individuati coloro che conseguono la progressione verticale;

 la progressione deve essere prevista nel piano dei fabbisogni (oggi confluito nel PIAO), con indicazione della famiglia professionale (e, ove possibile, delle posizioni di lavoro più specifiche nell’ambito della famiglia professionale) per la quale si manifesta il fabbisogno;

 occorre garantire che una percentuale almeno pari al 50% del personale reclutato con le ordinarie facoltà assunzionali sia destinata all’accesso dall’esterno, in base a quanto previsto dall’art. 52 comma 1-bis del d. lgs. n. 165/2001, in coerenza con i principi, anche di rango costituzionale, che regolano l’accesso alla PA.

Durante il periodo transitorio si possono effettuare progressioni verticali da funzionario ad EP?

Si, si possono effettuare, ma solo ricorrendo alla procedura ordinaria di cui all’art. 52 comma 1-bis del d. lgs. n. 165/2001 ed art. 17 del CCNL. Infatti, per le EP, la citata norma di legge non prevede una fase di prima applicazione del nuovo ordinamento professionale. Si ricorda altresì che le progressioni verso EP possono aver luogo solo dal 1° novembre 2022, data a partire dalla quale è applicabile il nuovo sistema di classificazione professionale, ivi compresa la nuova area EP.

 Come si valutano le competenze professionali in caso di progressione verticale effettuata durante il regime transitorio?

Per la valutazione delle competenze professionali in caso di progressione verticale effettuata durante il regime transitorio (dal 1° novembre 2022 al 31/12/2024) può essere preso in considerazione l’utilizzo, anche congiunto, di una delle seguenti tipologie di valutazione:

1) valutazione delle competenze espresse in ambito lavorativo basata sulle risultanze della valutazione di performance (anche su più anni);

2) valutazione effettuata attraverso metodi che facciano emergere le competenze, le capacità e lo stile comportamentale che le persone mettono in atto sul lavoro (ad esempio, tecniche di assessment).

3) valutazione dell’accrescimento delle competenze professionali effettuata al termine di percorsi formativi aperti a tutti i candidati alla progressione verticale;

4) valutazione riferita alle certificazioni di competenze possedute dagli interessati, rilasciate da soggetti esterni abilitati a certificare competenze (come avviene, ad esempio, per competenze informatiche o linguistiche).

Le procedure di progressione verticale sono uniche per area oppure vanno svolte procedure distinte per famiglie professionali o posizioni di lavoro?

Poiché le procedure di progressione verticale sono basate sull’accertamento del possesso delle competenze necessarie a svolgere attività di un’area superiore e poiché le competenze attese variano a seconda dei lavori, si è dell’avviso che la progressione verticale vada svolta almeno a livello di “famiglia professionale”.

Durante la prima applicazione del nuovo ordinamento professionale (dal 1° novembre 2022 fino al 31 dicembre 2024), con quale disciplina si effettueranno le progressioni verticali? Con quella di cui all’art. 17 o con quella di cui all’art. 18, commi 6, 7 e 8 del CCNL 9 maggio 2022? Oppure con entrambe?

In base all’art. 18, comma 6, in fase di prima applicazione del nuovo ordinamento professionale e comunque entro il termine del 31 dicembre 2024, la progressione tra le aree, ad esclusione di quella verso l’area EP, ha luogo con le procedure disciplinate dai commi 6, 7 e 8 dell’art. 18. Si ritiene che tale formulazione escluda la possibilità di far coesistere entrambe le procedure (procedura transitoria ex art. 18 e procedura a regime ex art. 17). Resta, in ogni caso, ferma la possibilità di effettuare progressioni verticali verso EP anche durante il periodo di prima applicazione, ma applicando le regole ordinarie (art. 17 CCNL 9 maggio 2022 e art. 52, comma 1-bis, d.lgs. n. 165/2001). Si ricorda, in proposito, che la previsione contrattuale di cui al citato art. 17 è meramente ricognitiva di quanto previsto dalla legge (art. 52, comma 1-bis, come modificato dall’art. 3, comma 1 del d.l. n. 80/2021), vista la preclusione in materia del CCNL.

Come si calcola il “consumo di facoltà assunzionali” per assumere dall’esterno personale di area EP?

Il consumo di facoltà assunzionali si calcola sulla base del valore retributivo deciso da ciascuna amministrazione all’interno del range di valori medi indicati dal comma 3 dell’art. 53 (50.000-70.000 euro annui lordi).

Il valore medio prescelto dall’amministrazione va indicato all’interno del piano dei fabbisogni (oggi confluito nel PIAO).

Se l’amministrazione decide un valore retributivo medio di 60.000 euro e l’assunzione di 5 EP il consumo di facoltà assunzionali sarà pari a 300.000 euro, cui deve aggiungere gli oneri riflessi a carico dell’amministrazione.

Qual è il consumo di facoltà assunzionali nel caso di progressione verticale dall’area dei Funzionari?

In tal caso, il consumo di facoltà assunzionali è dato dalla differenza tra valore retributivo medio di riferimento dell’EP (più oneri riflessi) deciso dall’amministrazione e retribuzione annua lorda (più oneri riflessi) del funzionario.

Nella retribuzione annua lorda del funzionario vanno incluse le seguenti voci: stipendio tabellare, tredicesima mensilità, eventuali IVC ed assegni ad personam.

Per finanziare l’assunzione di EP si possono utilizzare facoltà assunzionali derivanti dalla cessazione di dirigenti?

Si possono utilizzare facoltà assunzionali derivanti dalla cessazione di tutte le qualifiche e, quindi, anche dalla cessazione di dirigenti. In tal caso, la rimodulazione delle dotazioni organiche,conseguente alla previsione di nuovi posti di EP, potrà essere effettuata anche sopprimendo, in tutto o in parte, i posti dirigenziali che si sono resi vacanti a seguito delle cessazioni.

Una volta che l’amministrazione ha determinato il suo Budget per la retribuzione di posizione e di risultato delle EP (BudgetPOS_RIS(EP)) come si determina in concreto la retribuzione di posizione e di risultato di una EP? C’è un tetto massimo alla sua retribuzione?

Il contratto collettivo nazionale ha stabilito che il Budget sia ripartito in distinte quote:

– la quota destinata alle retribuzioni di posizione;

– la quota destinata alle retribuzioni di risultato;

– la quota destinata agli altri utilizzi consentiti (welfare aziendale e mobilità territoriale).

Come stabilito dall’art. 53 comma 5, la quota destinata alle retribuzioni di risultato deve essere almeno pari al 15% delle risorse complessivamente destinate a retribuzione di posizione e a retribuzione di risultato, cioè del BudgetPOS_RIS(EP). La percentuale in concreto destinata è definita in contrattazione integrativa (art. 7, comma 6, lett. ab), ma non può scendere al di sotto di tale valore minimo. Supponiamo che la contrattazione integrativa abbia deciso un valore del 20%: in tal caso, il restante 80% del BudgetPOS_ è destinato a retribuzione di posizione (e, eventualmente, in quota parte agli altri utilizzi consentiti, p.es. welfare aziendale o incentivi alla mobilità territoriale).

La quota destinata a retribuzione di posizione è attribuita a ciascun incarico (e, conseguentemente, ai singoli che lo coprono) in base alla rilevanza delle responsabilità assunte e di altri fattori di complessità organizzativa e/o professionale relativi all’incarico stesso (art. 16, comma 6), all’interno di un range di valori che va da un minimo di 11.000 euro annui lordi ad un massimo di 29.000 euro annui lordi (tali valori sono comprensivi di tredicesima).

La quota destinata a retribuzione di risultato è invece attribuita ai singoli in funzione del livello di valutazione di performance individuale conseguito nell’espletamento dell’incarico (art. 16, comma 8) – ovviamente, a condizione che tale valutazione sia risultata positiva – sulla base di più specifici criteri definiti in contrattazione integrativa (art. 7, comma 6, lett. ab). La retribuzione di risultato può differenziarsi esclusivamente in base ai livelli di performance conseguiti.

Il contratto non ha fissato un valore massimo di retribuzione complessiva dell’EP, ma ha posto dei vincoli che si pongono come oggettivi limiti indiretti al superamento di determinate soglie retributive.

Oltre al valore tabellare di 35.000 euro annui lordi per tredici mensilità, ha stabilito un tetto massimo per la retribuzione di posizione di 29.000 euro. Nel caso in cui sia attribuito il valore massimo di posizione (in presenza di un’oggettiva rilevanza organizzativa dell’incarico assunto) si arriva ad unvalore di 64.000 euro, cui si aggiunge la retribuzione di risultato. I valori di quest’ultima si determinano in funzione della quota complessivamente destinata a retribuzione di risultato (non meno del 15% delle complessive risorse del BudgetPOS_RIS(EP)) e dei livelli di performance individuali conseguiti.

In base a quali criteri o considerazioni viene deciso il valore retributivo medio di riferimentodi una EP?

La decisione del valore medio di riferimento retributivo di una EP è una scelta di politica retributiva dell’amministrazione che va assunta tenendo conto di alcune esigenze:

essere “attrattivi” rispetto al mercato del lavoro;

trovare una soluzione di equilibrio tra vincoli di risorse, dati dalle facoltà assunzionali, e numerosità delle assunzioni programmate (se si sceglie un valore più alto si abbassa il numero delle assunzioni).

Va ricordato che il valore di riferimento retributivo di una EP è un “valore medio”. Nella scelta di tale valore medio l’amministrazione potrebbe anche basarsi su una ragionevole previsione del valore economico di posizione (retribuzione di posizione) che prevede di assegnare alle posizioni di responsabilità che saranno occupate dalle EP. Il valore medio di tali retribuzioni di posizione a cui saranno aggiunti un valore medio di retribuzione di risultato, un valore medio per gli altri eventuali benefici (esempio welfare aziendale) e i 35.000 di stipendio tabellare, potrebbe essere un possibile metodo da utilizzare per definire tale valore retributivo medio di riferimento.

In caso di cessazione di una EP l’amministrazione deve ridurre il suo Budget?

Si, in caso di cessazione l’amministrazione deve ridurre il suo Budget con decorrenza dalla

cessazione. Ciò anche in caso di cessazione per mobilità (indipendentemente dal fatto che la mobilità abbia luogo tra amministrazioni soggette o non soggette a vincoli assunzionali).

I risparmi derivanti dalla cessazione di una EP sono utilizzabili per nuove assunzioni?

In base alle regole generali che disciplinano assunzioni, le cessazioni di personale a tempo indeterminato, ivi comprese quelle delle EP, fanno aumentare le facoltà assunzionali a partiredall’anno successivo alla cessazione. Le nuove facoltà assunzionali possono essere utilizzate, in base ai fabbisogni, per assumere altre EP oppure personale di altre qualifiche.

È importante mantenere distinti i concetti di BudgetPOS_RIS(EP) e di facoltà assunzionali:

il BudgetPOS_) rappresenta il limite di spesa disponibile per erogare la retribuzione di posizione e di risultato del personale EP (e gli altri utilizzi consentiti, welfare aziendale e incentivi alla mobilità territoriale); in caso di cessazione (anche per mobilità) il Budget si riduce subito, con decorrenza dal momento in cui avviene la cessazione; in caso di reclutamento (per assunzione o per mobilità) il BudgetPOS_aumenta subito, con decorrenza dal momento in cui avviene il reclutamento;

le facoltà assunzionali rappresentano invece il limite di spesa per nuove assunzioni: in caso di cessazione di personale a tempo indeterminato le facoltà assunzionali aumentano dall’anno successivo; ma l’aumento di facoltà assunzionali, pur costituendo il presupposto per nuove assunzioni, non fa aumentare il Budget fintantoché la persona non viene effettivamente assunta.

Si consumano facoltà assunzionali in caso di mobilità volontaria di una EP tra amministrazioni entrambe soggette alla regola del turn over?

Il consumo di facoltà assunzionali in caso di mobilità tra amministrazioni nel caso di una EP segue le regole generali stabilite nel caso di turn over (cfr. l’art. 14, co. 7 del D.L. n. 95/2012). Quindi, se entrambe le amministrazioni sono soggette a vincoli assunzionali, la mobilità è neutra e non determina consumo di facoltà assunzionali per l’amministrazione ricevente né risparmi da cessazione per quella cedente. L’amministrazione cedente dovrà però diminuire il suo Budget in base al suo valore retributivo medio di riferimento delle EP, mentre l’amministrazione ricevente dovrà aumentarlo. L’aumento di Budget dell’amministrazione ricevente sarà calcolato in base al proprio valore retributivo medio di riferimento (RetEP): più precisamente, l’aumento sarà pari alla differenza tra il suddetto valore ed il tabellare di EP.

L’amministrazione può variare nel tempo (ad esempio, da un piano dei fabbisogni a quello successivo) il valore di riferimento retributivo dell’EP?

Può variarlo, in aumento o in diminuzione, ma sempre nell’ambito del range fissato dal contratto (compreso tra 50.000 e 70.000 euro annui lordi). In tal caso, l’aumento del Budget a decorrere dal momento in cui l’assunzione programmata si è effettivamente verificata, è effettuato sulla base del nuovo valore medio adottato dall’amministrazione applicato al numero delle assunzioni verificatesi.

L’assunzione di EP (anche mediante progressioni verticali) deve essere decisa nell’ambito del piano dei fabbisogni, ora confluito nel PIAO? Quali sono i fabbisogni che possono spingere un’amministrazione ad assumere delle EP?

L’assunzione delle EP (ivi comprese le progressioni verticali), come avviene per tutte le assunzioni, è decisa nell’ambito del piano dei fabbisogni (ora confluito nel PIAO).

Il fabbisogno di EP discende dalla necessità di coprire, mediante il conferimento di incarichi, posizioni ad elevata responsabilità. Le responsabilità connesse agli incarichi possono avere prevalente contenuto gestionale ovvero, nel caso in cui sia richiesta l’iscrizione ad albi professionali, prevalente contenuto professionale. In ogni caso, esse richiedono elevata autonomia decisionale, con assunzione diretta di decisioni ed atti, anche su delega formale del dirigente. Le posizioni di responsabilità vanno preventivamente individuate dalle amministrazioni, in base alle proprie esigenze organizzative.

Vi è dunque un legame stretto tra fabbisogno di EP e scelte organizzative. Un ottimale inserimento di questa nuova figura richiede che le amministrazioni definiscano preventivamente le posizioni di responsabilità, i processi di lavoro di cui è affidata la responsabilità, gli spazi di autonomia decisionale, le relazioni organizzative interne (con il dirigente e con i collaboratori) e, eventualmente, le relazioni esterne con altri soggetti. Si ritiene che tale quadro organizzativo possa essere definito anche con atti di micro-organizzazione. Naturalmente, è possibile anche ipotizzare revisioni

organizzative di maggiore impatto che incidano sugli assetti organizzativi macro: ad esempio, nei casi in cui le amministrazioni decidano di sopprimere, in tutto o in parte, i posti dirigenziali che si sono resi vacanti a seguito delle cessazioni che hanno finanziato le facoltà assunzionali utilizzate per assumere le EP.

Una volta che il piano triennale nell’ambito del PIAO ha previsto un fabbisogno di personale EP, bisogna anche modificare le dotazioni organiche, se non vi sono posti di EP in organico? Come si effettua, in tal caso, la modifica delle dotazioni organiche?

In base all’art. 6, comma 3 del d. lgs. n. 165/2001, in sede di definizione del piano dei fabbisogni di personale (ora confluito nel PIAO), ciascuna amministrazione indica la consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni programmati. Da tale disposizione si evince che la rimodulazione degli organici è effettuata all’interno del piano dei fabbisogni.

La suddetta rimodulazione deve avvenire, però, senza alterare le quantità finanziarie complessive (la disposizione di legge pone, infatti, un vincolo di “neutralità finanziaria”) e con il limite di non poter istituire nuove posizioni dirigenziali. Il che significa che il costo della dotazione organica rimodulata non può essere superiore al costo della dotazione organica ante rimodulazione.

In conclusione, è stata creata una nuova area a cavallo tra quella dei funzionari e la categoria dei dirigenti, che agevolmente potrebbe sostituire questi ultimi.

A livello di incentivazione alla performance, è stato introdotto l’istituto dell’incarico sia per i funzionari (eventuale) che per le elevate professionalità (necessario).

Trova così modifica e regolamentazione legale l’istituto delle posizioni organizzative.

Per le restanti aree l’incentivazione è data dalle progressioni verticali che trovano disciplina legale e contrattuale.

Tutte le progressioni sono disciplinate da procedure meritocratiche.

Fabio Petracci

Il caporalato: una piaga (ancora) attuale

  1. La titolarità del rapporto di lavoro e il divieto di mercificazione della forza lavoro

La gran parte delle norme in tema di lavoro sono norme di protezione o quantomeno di responsabilizzazione del datore di lavoro.

Per questi motivi, la legge ha voluto sempre individuare la figura del datore di lavoro ed evitare che altre figure interferissero o si sovrapponessero nel rapporto contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro.

Contestualmente ed in questa funzione protettiva si volle mantenere il collocamento dei lavoratori rigorosamente in mano pubblica.

Si voleva così evitare lo sfruttamento della manodopera che all’epoca avveniva tramite i cosiddetti caporali che reclutavano il personale e ne provvedevano alla retribuzione detraendo il proprio compenso.

Nel 1960, era emanata la legge 1369 che vietava la cosiddetta interposizione di manodopera.

La legge proibiva in maniera netta ogni forma di appalto e subappalto dove i mezzi di produzione appartenessero sotto qualunque forma all’appaltante e dove comunque fosse appaltata a terzi esclusivamente la mera prestazione di lavoro (articolo 1 legge 1369/60).

La stessa legge poneva il divieto anche a carico degli enti pubblici.

Nel caso di violazione, era prevista la sanzione di natura civilistica costituita dalla costituzione di un rapporto di lavoro a termine con i lavoratori interposti, oltre ad una ammenda.

Normalmente vi si aggiungevano le sanzioni penali per la violazione delle norme sul collocamento.

La norma quindi, all’articolo 3, nel caso di appalti leciti, sanciva il diritto al pari trattamento retributivo per i dipendenti dall’appaltatore rispetto a quanto spettante a quelli dell’appaltante.

Il successivo articolo 4 stabiliva la responsabilità solidale di appaltante ed appaltatore per la corresponsione delle retribuzioni.

Il successivo articolo 5 stabiliva invece delle deroghe al pari trattamento economico per alcuni settori produttivi dove il ricorso all’appalto era se non necessario, almeno frequente.

Nel tempo, l’economia si evolve e con essa contestualmente i rapporti di lavoro.

Principalmente si frantumava la rigidità dell’organizzazione aziendale e quindi, anche per ragioni di affrontare la concorrenza, molte lavorazioni erano esternalizzate, senza tener conto anche del fatto che in molti paesi occidentali, le agenzie interinali potevano fornire la manodopera con adeguate garanzie. Inoltre l’Italia era inserita nella Comunità Europea e come tale doveva favorire la libera concorrenza sul mercato.

La Corte di Giustizia Europea con un importante sentenza del 1997 (Cfr. Corte di Giustizia, Sez. VI, sent. 11 dicembre 1997, causa C-55/96 (par. 21) condannava l’Italia per violazione della normativa europea in tema di concorrenza, in quanto, il nostro paese aveva vietato ai privati il collocamento e l’intermediazione nel lavoro, ponendo così i pubblici uffici di collocamento in una posizione dominante che violava la normativa europea sulla concorrenza, (articolo 102 TFUE).

In poche parole, un imprenditore comunitario non poteva venire in Italia ed esercitarvi il collocamento e l’intermediazione nei rapporti di lavoro.

Era quindi emanato il cosiddetto Pacchetto Treu (legge 24 giugno 1997, n. 196 recante “Norme in materia di promozione dell’occupazione”) e quindi la legge Biagi DLGS 276/2003 che innovarono la materia.

A questo punto, la somministrazione di personale diveniva legittima purché esercitata da agenzie autorizzate e lo stesso avveniva per la selezione ed il collocamento riservati pure a soggetti qualificati e muniti di adeguati requisiti.

Al di fuori di queste ipotesi, continua a sussistere l’illecito penale basato sulle ipotesi dell’interposizione irregolare e dell’interposizione fraudolenta.

L’articolo 18 del DLGS 81/2015 disciplina e punisce la somministrazione irregolare, e stabilisce come l’esercizio non autorizzato e come tale intendendosi la somministrazione di personale da chi non sia autorizzato a ciò dia luogo a diverse e graduate sanzioni penali.

Più grave appare la somministrazione di personale fraudolente ravvisata dall’articolo 38 bis DLGS 81/2015 laddove la somministrazione irregolare è posta in essere con lo specifico fine di eludere norme inderogabili di legge e di contratto collettivo. In tal caso scatta l’ammenda pari a 20 euro a giornata per ciascun lavoratore oltre alle sanzioni previste dall’articolo 18 DLGS 276/2003 per la somministrazione irregolare.

Questo il quadro a rilevanza civile e penale stabilito dal diritto del lavoro.

  1. Gli interventi nel campo penale

Viene quindi introdotto con il DL 13 agosto 2011 n.138 recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo meglio noto come Manovra – bis , la nuova fattispecie delittuosa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, destinata a colpire con maggior rigore il fenomeno del cosiddetto caporalato.

Esisteva presso il parlamento il disegno di legge n.2584 che aveva ad oggetto alcune misure volte a reprimere l’intermediazione illecita di manodopera.

Leggendone la relazione notiamo come fondamentalmente esso sia volto ad agire nell’ambito dell’emergenza migrazione e criminalità organizzata e volto a reprimere non tanto storture di natura contrattuale, quanto piuttosto condotte criminose che sullo sfondo avevano lo sfruttamento del lavoro altrui.

Il progetto di legge era composto da sette articoli di cui la gran parte dedicati al tema delle condizioni dei migranti ed all’integrazione degli stessi.

Solo l’articolo 4 era dedicato alla somministrazione illecita di manodopera ed allo sfruttamento dei lavoratori.

Il legislatore italiano riconosceva l’esistenza di una lacuna nella repressione penale dei fenomeni di distorsione nel mercato del lavoro.

Era così introdotta la nuova fattispecie penale dell’articolo 603 bis del codice penale.

Si pensava così di creare una norma incriminatrice in grado di intercettare quelle condotte negative più gravi della semplice violazione del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno e meno gravi rispetto alla fattispecie di cui all’articolo 600 c.p. (riduzione in schiavitù).

La legge entrava in vigore nell’agosto 2011 e trovava collocazione nel codice nell’ambito dei delitti contro la personalità individuale.

Si voleva così sottolineare un disvalore che eccede la semplice condizione di liceità nell’interposizione e nella somministrazione di manodopera (articolo 18 DLGS 276/2003). E che forse non tiene in adeguato conto l’esistenza della più grave fattispecie della somministrazione di personale fraudolenta ravvisata dall’articolo 38 bis DLGS 81/2015.

Il testo di questo primo intervento legislativo era quindi il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze:

1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

Nel vecchio testo risalente al 2011 affinché sussistesse il reato di cui all’articolo 603 c.p., doveva sussistere una forma di sfruttamento realizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione.

In diverse occasioni anche di reale sfruttamento, il reato non venne riconosciuto nelle sedi giudiziarie proprio a causa di tali ridondanti requisiti.

  1. La riforma – il nuovo articolo 603 bis c.p.

Invece, con il nuovo articolo 603 bis comma 1 si prevede il solo sfruttamento senza violenza e minaccia con pena minore.

In ogni caso, le fattispecie di reato sono applicabili solo dove il fatto non costituisca altro più grave reato.

La fattispecie di reato inoltre va oltre alla figura dei caporali come coloro che reclutano il personale in condizioni di sfruttamento, ma estende la sanzione anche a chi “utilizza, assume, o impiega manodopera” sfruttata anche senza l’intermediazione del cosiddetto “caporale”.

Dunque, è prevista l’incriminazione anche per l’utilizzatore e risultano importanti gli indici di sfruttamento.

In continuità con la precedente fattispecie penale, sono previsti degli indici specifici che fanno presumere lo sfruttamento.

Tali indici debbono essere reiterati e quindi ripetuti nel tempo, senza che serva più il requisito della sistematicità nozione che comportava una certa difficoltà interpretativa.

Valgono come indici di sfruttamento da intendersi verificati in maniera reiterata: retribuzioni palesemente difformi dai contratti, violazione orario di lavoro e riposi, violazione di norme sulla sicurezza e sull’igiene, condizioni di lavoro e di alloggio degradanti.

Non si parla più di sfruttamento dello stato di necessità, ma esclusivamente di sfruttamento dello stato di bisogno.

Per entrambi i reati, non è più necessario che siano compiuti per il tramite di una struttura organizzativa.

È introdotta la confisca obbligatoria per i proventi da reato. È possibile l’arresto in flagranza.

Alle vittime del caporalato, sono estesi i benefici previsti per le vittime della tratta.

La nuova legge prevede inoltre anche delle circostanze attenuanti per coloro che collaborano con la giustizia.

Così impostata e migliorata la norma appare come un adattamento del diritto a nuove condizioni di sfruttamento.

Di seguito, il testo attuale dell’articolo 603 bis c.p., “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato 3.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

In realtà, la norma non solo è maggiormente approfondita, ma si pone come un limite estremo alla libertà di impresa non tanto nell’interesse del lavoratore, quanto piuttosto nell’interesse generale dell’essere umano.

Pertanto, la fattispecie penale di cui all’articolo 603 bis CP è stata collocata nell’ambito dei reati contro la personalità individuale assieme ai reati di tratta di esseri umani, riduzione e mantenimento in schiavitù.

La materia del sinallagma contrattuale trova già nell’ambito del diritto del lavoro numerose limitazione e norme inderogabili del diritto civile ed amministrativo, atte a tutelare la parte economicamente più debole.

Nel caso di specie l’equilibrio contrattuale è addirittura idoneo a ledere diritti fondamentali dell’individuo in quanto tale in quanto, la libertà di iniziativa economica sconfina nel campo del crimine.

Notiamo un certo parallelismo con il reato d’usura dove il componimento bilaterale di interessi divergenti viene a sconfinare dinnanzi allo stato di bisogno altrui, nel crimine.

  1. Risposte a quesiti specifici

La pratica del caporalato è posta in essere solo da associazioni di stampo mafioso? Quali sono i vantaggi economici che un’impresa ricava dallo sfruttamento illecito di manodopera?

Si tratta di un reato che può essere compiuto da chiunque, tanto che il nuovo testo dell’articolo 603 bis non prevede più il requisito dell’associazione. I vantaggi economici possono essere molteplici come il bassissimo costo della manodopera, bassissimo assenteismo, scoperture contributive. Alla fine ci rimettono i concorrenti onesti oltre che i lavoratori.

In Friuli-Venezia Giulia si ha evidenza che siano radicate delle “agromafie” o associazioni di stampo mafioso che compiono sfruttamento illecito di manodopera?

Situazioni irregolari sono state segnalate nel Friuli nel campo della viticoltura.

Molto spesso il reclutamento dei lavoratori avviene ad opera di ditte che hanno un contratto di appalto con l’impresa datrice di lavoro, la quale solitamente si dichiara estranea ai fatti: come si può capire se l’impresa datrice di lavoro è a conoscenza oppure no dei fatti di reato?

La conoscenza ha scarsa importanza, chi appalta i lavori, anche in caso di appalto lecito è solidalmente responsabile della retribuzione e della sicurezza dei dipendenti dall’appaltatore.

Secondo lei, la scelta del legislatore di dedicare una specifica fattispecie del codice penale al caporalato è stata opportuna?

Direi di no, esistono specifiche norme anche di natura penalistica che nell’ambito della normativa del lavoro sanzionano gli appalti e le somministrazioni irregolari, sarebbe stato utile potenziare questa normativa, così si rischia la creazione di troppe fattispecie concorrenti.

Perché il legislatore ha deciso di modificare il testo dell’art. 603-bis c.p.? Quali erano i problemi di applicazione della fattispecie nella versione del 2011 (L. 148/2011)?

La versione del 2011 era quasi inapplicabile, si richiedeva il ricorrere di violenza e minaccia. Spesso questi elementi non sono necessari per chi versa in uno stato di gravissimo bisogno.

In secondo luogo, gli indici di sfruttamento richiedevano il ricorrere sistematico di questi ultimi, ora basta il ripetersi di essi.

La nuova normativa punisce ora anche l’utilizzatore e non si limite alla figura del caporale intermediario, ma di chiunque crei la situazione di sfruttamento.

In questo contesto che ruolo giocano i sindacati?

Dove opera il caporalato, il sindacato non ha alcuna veste o riconoscimento, può operare a livello di denunce, in diversi posti lo sta facendo.

Fabio Petracci

La previdenza complementare

5.1. La definizione di previdenza complementare
5.1.1. Le prime forme di previdenza complementare – 5.1.2. Il D.Lgs. 252/2005 – 5.1.3. La direttiva “IORP 2” – 5.1.4. La COVIP.

5.2. Le forme e la partecipazione alla previdenza complementare
5.2.1. Le forme previdenziali collettive – 5.2.2. Le forme previdenziali individuale – 5.2.3. L’adesione alle forme pensionistiche complementari.

5.3. La contribuzione e la gestione dei fondi
5.3.1. Lavoratori dipendenti privati – 5.3.2. Pubblici dipendenti– 5.3.3. Soci di cooperative – 5.3.4. Lavoratori autonomi e collaboratori – 5.3.5. Il trattamento fiscale – 5.3.6. La gestione delle risorse e le garanzie.

5.4. Le prestazioni
5.4.1. La rendita – 5.4.2. Il capitale – 5.4.3. Le anticipazioni – 5.4.4. I riscatti – 5.4.5. La portabilità.

5.5. La RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata)
5.5.1. Requisiti – 5.5.2. Fruizione

 

5.1. La definizione di previdenza complementare

5.1.1. Le prime forme di previdenza complementare

La previdenza complementare – o integrativa – consiste essenzialmente in una protezione aggiuntiva rispetto al regime previdenziale obbligatorio.

La libertà di organizzazione di forme di previdenza volontarie e private è riconosciuta dall’art. 38 della Carta Costituzionale, che sancisce al quinto comma la libertà delle stesse, peraltro anche attraverso associazioni di volontariato, cooperative, istituti di patronato ed assistenza espressamente previsti per il lavoratore.

Anche il codice civile, agli articoli 2117 e 2223, implicitamente attribuisce all’imprenditore la possibilità di costituire dei fondi speciali per la previdenza e l’assistenza, anche senza la contribuzione dei lavoratori.

In realtà, in passato la protezione integrativa e aggiuntiva garantita dalla previdenza complementare era limitata a determinate categorie di lavoratori o a particolari e ben precise scelte aziendali di miglior favore.

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso – anche a seguito delle rilevanti riforme del sistema previdenziale obbligatorio intervenute – si è cominciata a percepire la necessità di estendere la previdenza complementare alla generalità dei lavoratori.

Infatti, la previdenza obbligatoria iniziava ad essere considerata insufficiente, soprattutto in una prospettiva di medio-lungo termine, ad assicurare ai pensionati un tenore di vita paragonabile a quello goduto nel corso dell’esperienza lavorativa e garantito dalla retribuzione.

Il primo intervento del legislatore in materia – dotato di una certa sistematicità ed organicità – è stato quello previsto dal D.Lgs. n. 124/1993, peraltro modificato in maniera rilevante solamente due anni dopo a seguito della riforma della previdenza obbligatoria intervenuta con la legge n. 335/1995.

L’obiettivo del legislatore era quello di affiancare alla già ampiamente esaminata in precedenza previdenza obbligatoria – il cosiddetto primo pilastro – un secondo ed ulteriore pilastro, costituito appunto dalla previdenza complementare su base volontaria.

Quindi, pochi anni dopo, il D.Lgs. n. 47/2000 ha aggiunto un terzo pilastro, costituito dalla previdenza complementare “individuale”.

Il secondo ed il terzo pilastro avevano dunque in comune la volontarietà dell’adesione da parte del lavoratore.

I due pilastri si differenziavano in quanto mentre secondo pilastro trovava la propria fonte istitutiva esclusivamente nella contrattazione collettiva – sia nazionale sia di comparto sia aziendale – invece le forme individuali erano aperte e attivabili esclusivamente in ragione e sulla base dell’adesione del lavoratore interessato.

Considerato lo scarso successo riscontrato dal secondo pilastro, frenato dal ruolo centrale della contrattazione collettiva che aveva dimostrato scarso se non nullo interesse ad attivare delle forme di previdenza complementare, il legislatore ha ritenuto di intervenire nuovamente in materia, con il D.Lgs. n. 252/2005.

5.1.2. Il D.Lgs. n. 252/2005

Il Decreto Legislativo n. 252/2005, entrato in vigore in data 1° gennaio 2007 ed attualmente vigente seppur più volte modificato, ha rivisto completamente il sistema della previdenza complementare, anche al fine di assicurare livelli più elevati di copertura previdenziale attraverso l’incentivazione al ricorso alle forme di contribuzione volontaria.

Rinviando ai paragrafi successivi il compiuto esame delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 252/2005 e della disciplina attualmente in vigore, è necessario sin d’ora individuare quali siano tuttavia i fondamentali principi introdotti dalla normativa citata.

In particolare, la previdenza complementare attualmente si basa su:

  • l’adesione volontaria del lavoratore;
  • l’istituzione volontaria del regime pensionistico complementare;
  • la capitalizzazione individuale e la contribuzione definita;
  • una rilevante incentivazione per il lavoratore, costituita essenzialmente da benefici a livello fiscale, per favorire non solo l’accesso ma anche per l’erogazione delle prestazioni relative alla previdenza complementare;
  • la collocazione su un piano di assoluta parità tra le forme di previdenza complementare previste dalla contrattazione collettiva e quelle invece costituite dagli operatori autorizzati (es. banche, assicurazioni);
  • la possibilità di destinazione del Trattamento di Fine Rapporto al finanziamento della previdenza complementare;
  • la possibilità di far transitare il risparmio accumulato presso un fondo previdenziale ad un altro fondo: si tratta della cosiddetta portabilità della posizione individuale, attuabile mediante riscatto o trasferimento.

Si segnalano altresì le recenti modifiche introdotte al D.Lgs. n. 252/2005 ad opera del D.Lgs. n. 147/2018, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 14 di data. 17 gennaio 2019 ed entrato in vigore in data 1° febbraio 2019, con il quale sono state apportate modifiche alla normativa sui fondi pensione, in recepimento della Direttiva (UE) n. 2016/2341, relativa all’attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali (c.d. Direttiva IORP II).

5.1.3. La direttiva “IORP 2”

La direttiva 2016/2341/UE (c.d. IORP Institutions for Occupational Retirement Provision, 2), sostituisce la precedente 2003/41/CE e si inserisce nel quadro delle politiche di rafforzamento del mercato unico interno.

Ha infatti l’obiettivo di creare un contesto normativo unitario e armonizzato per lo sviluppo del mercato europeo dei fondi pensione, pur lasciando agli Stati Membri le singole competenze per l’organizzazione dei propri sistemi pensionistici.

In particolare, mira a rafforzare il sistema di governance e di gestione del rischio, rimuovere alcune barriere che ostacolano l’attività transfrontaliera dei fondi pensione che nei vari Paesi sono regolati da normative differenziate, rafforzare la trasparenza e l’informazione agli iscritti e ai pensionati. Inoltre, ha l’obiettivo di assicurare che le Autorità competenti abbiano tutti gli strumenti necessari per poter effettivamente svolgere attività di vigilanza e controllo sugli enti pensionistici aziendali e professionali.

La direttiva, come abbiamo visto recepita nell’ordinamento con il D.Lgs. n. 147/2018, rappresenta una significativa opportunità per i fondi pensione italiani, che potranno attirare anche lavoratori residenti all’estero, ma soprattutto per i lavoratori italiani, che potrebbero decidere di trasferire la posizione maturata presso un fondo pensione italiano all’estero.

Infatti, sotto il profilo fiscale non è prevista differenza alcuna tra i fondi pensione italiani e quelli degli altri Stati membri; di conseguenza i benefici fiscali riconosciuti nel nostro paese per la contribuzione sono i medesimi. Al contrario, il regime di tassazione sui risultati degli investimenti dipende da ciascun paese membro, dunque un lavoratore/interessato potrebbe trovare più conveniente aderire ad un fondo pensionistico complementare di uno Stato con una tassazione più favorevole rispetto al nostro.

Ancora, occorre notare come la redditività media dei fondi pensione italiani, messa a confronto con quella dei fondi pensioni dei paesi aderenti all’OCSE – ma non solo – non risulti assolutamente tra le migliori.

Un tanto emerge con chiarezza nella tabella di seguito riportata, con riferimento al tasso annuo netto di rendimento medio degli investimenti in fondi pensione, estratta dal Report annuale “Pension Markets in Focus” dell’OCSE – consultabile interamente al link http://www.oecd.org/daf/fin/private-pensions/Pension-Markets-in-Focus-2018.pdf

5.1.4. La COVIP

Occorre inoltre sin d’ora ricordare il ruolo della COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), l’Autorità amministrativa indipendente che ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione a tutela degli aderenti e dei loro risparmi destinati alla previdenza complementare.

Istituita nel 1993 con il D.Lgs. n. 124/1993, la COVIP ha iniziato a operare nella sua attuale configurazione – con personalità giuridica di diritto pubblico – dal 1996.

Alla COVIP sono stati attribuiti anche compiti di controllo sugli investimenti finanziari e sul patrimonio delle Casse professionali private e privatizzati (Decreto-Legge n. 98/2011 e successivi decreti attuativi).

Il ruolo della COVIP nei confronti dei fondi pensione ricorda per certi versi quello della Banca d’Italia nei confronti del sistema bancario.

Infatti, la funzione che è chiamata a svolgere è essenzialmente quella di garantire e assicurare la trasparenza e la correttezza nella gestione e nell’amministrazione dei fondi pensione.

Maggiormente nel dettaglio, la COVIP:

  • autorizza i fondi pensione ad esercitare la propria attività e approva i loro statuti e regolamenti;
  • tiene l’albo dei fondi pensione autorizzati ad esercitare l’attività di previdenza complementare;
  • vigila sulla corretta gestione tecnica, finanziaria, patrimoniale e contabile dei fondi pensione e sull’adeguatezza del loro assetto organizzativo;
  • assicura il rispetto dei principi di trasparenza nei rapporti tra i fondi pensione ed i propri aderenti;
  • cura la raccolta e la diffusione delle informazioni utili alla conoscenza dei problemi previdenziali e del settore della previdenza complementare.

 

5.2. Le forme e la partecipazione alla previdenza complementare

Come già anticipato, le forme di previdenza complementare si possono distinguere in collettive e individuali.

Le forme collettive sono quelle che trovano la propria fonte istitutiva in un contratto o accordo collettivo, mentre quelle individuali sono invece quelle istituite su iniziativa di specifici operatori autorizzati.

5.2.1. Le forme previdenziali collettive

A loro volta le forme previdenziali collettive si distinguono in fondi chiusi (o negoziali) e in fondi aperti, sulla base della tipologia dei destinatari ai quali sono rivolte.

I fondi chiusi sono riservati a lavoratori appartenenti a specifici settori o categorie, mentre quelli aperti sono destinati a tutti i lavoratori, indipendentemente dunque dal settore o dalla categoria di appartenenza.

  • Fondi chiusi: ex art. 3, comma 1, lettere da a) a h) del D.Lgs. n. 252/2005, i fondi negoziali possono essere istituiti da:
    • contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro. Ancora, accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del CNEL;
    • accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
    • regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali;
    • le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia;
    • accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute;
    • accordi tra soggetti destinatari del D.Lgs. n. 565/1996 (meglio noto come Fondo Casalinghe), promossi anche da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
    • gli enti di diritto privato di cui ai D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 103 (enti previdenziali dei liberi professionisti) con l’obbligo della gestione separata, sia direttamente sia secondo mediante contratti e accordi collettivi anche aziendali o accordi tra lavoratori autonomi o liberi professionisti;

Il fondo pensione viene costituito come associazione non riconosciuta ex art. 36 del codice civile, distinta dai soggetti promotori dell’iniziativa o, in alternativa, anche come soggetto dotato di personalità giuridica.

Per ottenere la personalità giuridica è tuttavia necessario ottenere un provvedimento di autorizzazione della COVIP, la Commissione di Vigilanza dei fondi pensione. Per tali fondi pensione, la COVIP cura la tenuta del registro delle persone giuridiche e provvede ai relativi adempimenti.

La regolamentazione del rapporto associativo è disciplinata dallo Statuto del fondo, il cui contenuto è comunque in larga parte predeterminato dalla COVIP.

Il D.Lgs. n. 147/2018 ha quindi inserito l’art. 4-bis al D.Lgs. n. 252/2005, rubricato “Requisiti generali in materia di sistema di governo”, che prevede che i fondi pensioni dotati di personalità giuridica si dotino di un sistema efficace di governo che assicuri una gestione sana e prudente della loro attività.

Tale sistema prevede una struttura organizzativa trasparente e adeguata, con una chiara attribuzione e un’appropriata separazione delle responsabilità e un sistema efficace per garantire la trasmissione delle informazioni.

Ancora, il sistema di governo adottato deve essere altresì proporzionato alla dimensione, alla natura, alla portata e alla complessità delle attività del fondo pensione.

I fondi pensione dotati di personalità giuridica devono altresì dotarsi di un sistema di controllo interno efficace. Tale sistema include procedure amministrative e contabili, un quadro di controllo interno, comprensivo della verifica di conformità alla normativa nazionale e alle norme europee direttamente applicabili nonché disposizioni di segnalazione adeguate a tutti i livelli del fondo pensione.

Infine, i fondi pensione dotati di personalità giuridica hanno l’obbligo di adottare misure appropriate e tali da garantire la continuità e la regolarità dello svolgimento delle loro attività, tra cui l’elaborazione di piani di emergenza. A tal fine i fondi pensione utilizzano sistemi, risorse e procedure adeguati e proporzionati.

Quindi, il successivo art. 5 del D.Lgs. n. 252/2005 prevede che la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche complementari negoziali deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Anche i successivi commi dell’art. 5 D.Lgs. n. 252/2005 sono stati notevolmente modificati dal D.Lgs. n. 147/2018, che ha previsto notevoli novità atte a garantire una maggiore tutela per gli aderenti al fondo pensione ed in particolare una maggiore partecipazione per il tramite di rappresentanti e poteri di vigilanza e controllo di questi ultimi con riguardo alla gestione sia amministrativa che finanziaria del fondo.

  • Fondi aperti: i fondi pensione aperti, a mente dell’art. 3, comma 1 lettera h) e dell’art. 12 del D.Lgs. n. 252/2005, possono essere istituiti da soggetti abilitati alla gestione di un fondo pensione.

Anche l’art. 3 comma 1 lettera h) del D.Lgs. n. 252/2005 è stato oggetto di modifiche da parte del D.Lgs. n. 147/2018.

Ne consegue che ad oggi i soggetti che possono istituire forme pensionistiche complementari mediante fondi aperti sono i soggetti di cui:

  • all’articolo 1, comma 1 del D.Lgs. n. 58/1998:
  1. lettera e) – società di intermediazione mobiliare (SIM), cioè l’impresa di investimento avente forma di persona giuridica con sede legale e direzione generale in Italia, diversa dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti nell’albo previsto dall’articolo 106 del Testo Unico Bancario, autorizzata a svolgere servizi o attività di investimento.
  2. lettera o) – società di gestione del risparmio (SGR), ovvero la società per azioni con sede legale e direzione generale in Italia autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio.
  • all’articolo 1, comma 2, lettera a) – banca italiana – e lettera c) – banca extracomunitaria, ovvero la banca avente sede legale in uno Stato terzo – del D.Lgs n. 385/1993, aventi sede legale o succursale in Italia;
  • all’articolo 1, comma 1, lettera u) – impresa di assicurazione autorizzata in Italia ovvero impresa di assicurazione italiana, quindi la società avente sede legale in Italia e la sede secondaria in Italia di impresa di assicurazione avente sede legale in uno Stato terzo, autorizzata all’esercizio delle assicurazioni o delle operazioni di cui all’articolo 2 – del D.Lgs. n. 209/2005, operanti mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI dei rami vita.

I fondi aperti sono accessibili a tutti coloro che desiderano aderirvi, compresi i lavoratori dipendenti, che possono peraltro destinare alle forme di risparmio in parola anche la contribuzione a carico del datore di lavoro e le quote di TFR.

Anche il fondo pensione aperto deve essere preventivamente autorizzato all’esercizio dell’attività dalla COVIP ed essere iscritto nel relativo albo.

Ai sensi dell’art. 12 comma 2 del D.Lgs. n. 52/2005, l’adesione ai fondi pensione aperti può avvenire non solo su base individuale ma anche collettiva. Invero, la contrattazione collettiva di qualsiasi livello può prevedere – attraverso apposito accordo, collettivo o individuale plurimo – l’adesione a un fondo aperto anziché decidere di ricorrere alla costituzione di un nuovo fondo chiuso.

Le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 147/2018 all’art. 5 del D.Lgs. n. 252/2005 prevedono che le società istitutrici del fondo in esame nominino una figura di responsabile della forma pensionistica, che svolge la propria attività in modo autonomo e indipendente, riportando direttamente all’organo amministrativo della società relativamente ai risultati dell’attività svolta.

Inoltre, il responsabile della forma pensionistica verifica che la gestione del fondo sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti, nonché nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti.

In particolare, ex art. 5 comma 3 del novellato D.Lgs. n. 252/2005 il responsabile della forma pensionistica vigila su:

  1. la gestione finanziaria della forma pensionistica complementare, anche controllando il rispetto della normativa e delle regole interne della stessa circa i limiti di investimento;
  2. la gestione amministrativa della forma, in particolare controllando la separatezza amministrativa e contabile delle operazioni poste in essere per conto della forma pensionistica e del patrimonio della stessa rispetto a quanto afferente alle altre attività della società e la regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili riguardanti la forma pensionistica;
  3. le misure di trasparenza adottate nei confronti degli aderenti e beneficiari;
  4. l’adeguatezza della procedura di gestione dei reclami;
  5. la tempestiva e corretta erogazione delle prestazioni;
  6. le situazioni in conflitto di interesse;
  7. il rispetto delle buone pratiche e dei principi di corretta amministrazione.

5.2.2. Le forme previdenziali individuali

Le forme individuali di previdenza complementare, meglio specificate dalla lettera i) dell’art. 3 comma 1 e dall’art. 13 del D.Lgs. n. 252/2005, possono essere realizzate tramite l’adesione ad un fondo pensione aperto, con adesione a livello individuale ed in assenza di pattuizione alcuna derivante dalla contrattazione collettiva. In tal caso, il datore di lavoro dell’aderente non ha nessun obbligo di versare contribuzione.

Altra possibilità è quella di stipulare un contratto di assicurazione sulla vita con imprese di assicurazioni autorizzate dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP) ad operare nel territorio dello Stato italiano o comunque ivi operanti in regime di stabilimento o di prestazioni di servizi.

Questi Piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) sono costituiti sotto forma di patrimonio separato e autonomo rispetto a quello della compagnia che li istituisce in quanto detto patrimonio è destinato esclusivamente al pagamento delle prestazioni agli iscritti e non può essere utilizzato per soddisfare i diritti vantati dai creditori della società.

L’attività del PIP è disciplinata da un Regolamento, redatto sulla base di uno schema adottato dalla COVIP nonché dalle Condizioni generali di contratto.

Il Regolamento definisce gli elementi identificativi del PIP, le caratteristiche, la contribuzione, le prestazioni, i profili organizzativi e i rapporti con gli aderenti.

Nel documento afferente alle Condizioni generali di contratto, espressamente previsto dalla normativa che disciplina i contratti assicurativi, è invece contenuto l’insieme delle clausole che disciplinano il contratto di assicurazione attraverso il quale è realizzato il PIP.

La COVIP vigila sulla gestione e sulle condizioni di trasparenza e di offerta al pubblico dei PIP conformi alla vigente normativa in tema di previdenza complementare, mentre restano ferme le competenze dell’IVASS, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, per i profili relativi alla stabilità delle imprese di assicurazione.

Esistono inoltre i cosiddetti vecchi PIP, ovvero quelle forme pensionistiche individuali attuate mediante contratti assicurativi istituiti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/2005 che, non essendosi adeguate al decreto stesso, non possono raccogliere nuove adesioni.

I “vecchi PIP” non sono iscritti all’Albo dei fondi pensione e non sono vigilati dalla COVIP bensì esclusivamente dall’IVASS.

5.2.3. L’adesione alle forme pensionistiche complementari

L’adesione alle forme pensionistiche complementari abbiamo già visto che è fondata sul principio della volontarietà: il lavoratore, ma anche il non lavoratore, può decidere liberamente se aderire alla previdenza complementare.

Infatti, anche i familiari fiscalmente a carico possono essere iscritti alla previdenza complementare, versando in loro favore i contributi (es. per i figli) e beneficiando della deducibilità fiscale di cui si ha diritto.

Nel momento in cui l’interessato decida di aderire ad un fondo pensionistico, deve necessariamente sottostare alle norme che lo regolano: la volontarietà è dunque limitata al momento della scelta se aderire ad un fondo.

Nel caso del lavoratore dipendente, qualora il CCNL applicato o la contrattazione integrativa preveda l’adesione contrattuale, la stessa avverrà automaticamente alla forma pensionistica di riferimento; quindi, sarà obbligo del datore di lavoro il versamento del contributo fissato dagli accordi collettivi per l’adesione contrattuale, salva la possibilità per il lavoratore, se ritenuto opportuno, di integrare le somme versate con un proprio contributo.

Invece, l’adesione a un fondo aperto o a un PIP può avvenire tramite la sopra esaminata adesione individuale direttamente presso le sedi delle società (banche, imprese di assicurazione, SIM, SGR) che hanno istituiti i fondi o i PIP oppure attraverso i soggetti incaricati dalle stesse società o ancora via web.

Per agevolare la scelta dell’interessato, tutelare l’adesione consapevole e garantire la trasparenza delle condizioni contrattuali di tutte le forme pensionistiche complementari, nell’esercizio dei suoi compiti di vigilanza ex art. 19 D.Lgs. n. 252/2005 la COVIP ha elaborato un modello di informativa comune a tutte le forme pensionistiche complementari, che deve essere consegnata all’interessato prima dell’adesione.

Gli esempi di nota informativa redatti dalla COVIP costituiscono dunque uno strumento di ausilio nella predisposizione dei documenti informativi, diretto a favorire, per quanto possibile, un linguaggio semplice, diretto e immediato, in modo da accrescere il livello di accessibilità delle informazioni da parte degli iscritti, effettivi o potenziali, con particolare riguardo alla rappresentazione delle informazioni chiave da fornire in fase di prima adesione.

Tali schemi sono liberamenti consultabili e gratuitamente scaricabili sul sito internet della COVIP, www.covip.it.

All’interno dei modelli di nota informativa redatti dalla COVIP sono solitamente presenti almeno quattro sezioni:

  • Sezione I – Informazioni chiave per l’aderente (lo scopo della sezione è quello di presentare le principali caratteristiche del fondo e facilitare dunque l’eventuale confronto tra il fondo stesso e le altre forme pensionistiche complementari);
  • Sezione II – Caratteristiche della forma pensionistica complementare (lo scopo della sezione è quello di fornire informazioni generali, descrivere come avviene la contribuzione e l’investimento ed informare in merito anche ai costi ed alle modalità con le quali possono essere erogate le prestazioni);
  • Sezione III – Informazioni sull’andamento della gestione (il cui obiettivo è quello di delineare con maggior chiarezza la gestione delle risorse nonché l’orientamento relativo agli investimenti adottato nel presente ed in futuro);
  • Sezione IV – Soggetti coinvolti nell’attività della forma pensionistica complementare (che contiene la descrizione ed i dati di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti – es. i dati della compagnia di assicurazione).

Come ricorda la COVIP nella sua Guida introduttiva alla previdenza complementare, prima di aderire ad un fondo pensione è bene:

  • verificare che il proprio contratto di lavoro preveda la possibilità di aderire a un fondo pensione di riferimento (negoziale, aperto o preesistente) in virtù di un accordo collettivo o di un regolamento aziendale;
  • confrontare i costi applicati dalle diverse forme pensionistiche complementari: i costi sostenuti possono infatti incidere negativamente in maniera significativa sull’importo della pensione futura;
  • verificare quali sono le linee di investimento proposte, i rischi finanziari connessi e scegliere le modalità più adatte alle proprie esigenze previdenziali;
  • verificare la convenienza a mantenere aperte le diverse posizioni nel caso di adesione a più forme pensionistiche complementari.

Per favorire il confronto dell’onerosità tra le diverse forme pensionistiche la COVIP ha sviluppato l’ISC (Indicatore sintetico di costo), un indicatore che esprime in modo semplice e immediato il costo annuale, in percentuale della posizione individuale maturata, sostenuto da un iscritto ad una forma pensionistica.

Lo strumento ha lo scopo di semplificare il confronto sull’onerosità delle diverse forme pensionistiche ed è messo gratuitamente e liberamente a disposizione degli interessati dalla COVIP al seguente link: http://www.covip.it/isc_dinamico/.

Prima di aderire ad uno specifico fondo, all’interessato, oltre alla nota informativa, viene sottoposto un Questionario di autovalutazione per raccogliere alcune informazioni riguardanti le conoscenze previdenziali e la propensione personale al risparmio.

A quel punto l’interessato è libero di scegliere il fondo più in linea col suo profilo personale e con le esigenze previdenziali provvedendo a compilare e sottoscrivere il modulo di adesione, il cui modello è anch’esso standardizzato ed elaborato sulla base dei modelli di esempio predisposti dalla stessa COVIP.

 

5.3. La contribuzione e la gestione dei fondi

A mente dell’art. 8 comma 1 del D.Lgs. n. 252/2005, il finanziamento della previdenza complementare può essere attuato:

  • mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore;
  • mediante il versamento di contributi da parte del datore di lavoro o del committente;
  • attraverso il conferimento del TFR maturando.

Nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è invece attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi.

Nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico.

5.3.1. Lavoratori dipendenti privati

Come anticipato, il versamento di contributi per i lavoratori dipendenti può avvenire esclusivamente a carico del lavoratore, mediante il versamento di contributi da parte del datore di lavoro o attraverso il conferimento del TFR maturando.

Tutti i lavoratori dipendenti hanno la facoltà di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, ma per coloro che partecipano a fondi chiusi o a fondi aperti con adesione su base collettiva le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore possono essere fissate dai contratti o dagli accordi aziendali.

Il contributo del datore di lavoro al fondo di previdenza complementare è dovuto solo in caso di espressa previsione in tal senso da parte di un contratto collettivo o di un accordo aziendale di adesione collettiva ad un fondo aperto.

Negli ultimi anni molte aziende, come trattamento di miglior favore nei confronti dei propri dipendenti, hanno deciso di versare spontaneamente una quota di finanziamento alla previdenza complementare prescelta dal lavoratore anche nel caso di scelta da parte di quest’ultimo di un fondo aperto o di un PIP.

La fonte di primaria importanza per il finanziamento della previdenza complementare con riguardo ai lavoratori dipendenti è tuttavia rappresentata dal TFR in maturazione.

Il TFR, Trattamento di Fine Rapporto, è disciplinato dall’art. 2120 c.c., che prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.

L’art. 2120 c.c. ha adottato il principio dell’onnicomprensività della retribuzione, secondo cui la retribuzione per prestazione di lavoro non occasionale deve essere ricompresa nel T.F.R., salvo la contrattazione collettiva non vi deroghi in modo preciso e puntuale.

A partire dal 2007, ogni lavoratore dipendente deve decidere, entro il termine di sei mesi dall’inizio del primo rapporto di lavoro, se destinare il proprio TFR maturando alle forme pensionistiche complementari oppure tenerlo, come avveniva fino a quel momento, in azienda presso il datore di lavoro.

La scelta deve essere effettuata nel termine di sei mesi dall’inizio del primo rapporto di lavoro ed è sostanzialmente irreversibile, in quanto il lavoratore che ha deciso di destinare il TFR alle forme pensionistiche complementari non potrà esercitare opzione alcuna per il mantenimento tradizionale del TFR maturando presso il datore di lavoro.

Il lavoratore che ha deciso di destinare il TFR alle forme pensionistiche complementari potrà comunque decidere, anche nel corso di eventuali successivi rapporti di lavoro, di scegliere di destinare il TFR ad un fondo diverso.

Al contrario, il lavoratore dipendente che ha deciso di optare per il mantenimento del TFR in azienda potrà e dovrà nuovamente esercitare la scelta ad ogni nuovo rapporto di lavoro, sempre entro il termine di sei mesi.

In ogni caso il lavoratore dipendente che ha deciso di optare per il mantenimento del TFR in azienda può, in ogni momento, decidere di modificare la propria scelta e destinare il TFR alla previdenza complementare, essendo sufficiente per l’esercizio della scelta in parola la semplice comunicazione al datore di lavoro.

La scelta, da effettuare è bene ribadirlo entro il termine di sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, viene effettuata dal lavoratore mediante la compilazione di un apposito modulo messo a sua disposizione dal datore di lavoro; è diritto del lavoratore, in caso di dimenticanza del datore, richiedere di ricevere il suddetto modulo.

Risulta inoltre compito del datore di lavoro, al momento dell’assunzione, oltre a fornire il modello di scelta – mod. TFR2 – fornire al lavoratore anche adeguate informazioni sulle diverse possibili destinazioni del TFR maturando.

Ancora, 30 giorni prima dello scadere dei sei mesi, il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire al lavoratore che non abbia ancora effettuato la scelta le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare cui è destinato il TFR alla scadenza del termine semestrale nel caso di esistenza di un solo fondo collettivo di riferimento o di esistenza di apposito accordo sindacale aziendale che individui uno specifico fondo.

Infatti, nel caso il lavoratore non esprima nessuna scelta utile nel corso del periodo di tempo semestrale di riflessione a lui riconosciuto, il TFR verrà automaticamente destinato alla previdenza complementare.

Peraltro, nel momento in cui il TFR viene destinato alla previdenza complementare, lo stesso cambia natura, divenendo parte della posizione individuale del lavoratore costituita presso il fondo.

Un tanto determina l’importante conseguenza della perdita della garanzia del TFR garantita dal Fondo di garanzia dell’INPS.

Nel caso il lavoratore non abbia effettuato alcuna scelta e siano presenti più fondi, il TFR verrà versato al fondo al quale è iscritto il maggior numero di dipendenti dell’azienda presso la quale è addetto. Se invece non c’è un fondo di riferimento, il TFR confluirà nella forma pensionistica complementare con il maggior numero di iscritti.

In caso di adesione tacita o, meglio, mediante silenzio-assenso, il TFR affluisce a una linea di investimento garantita e a basso rischio; resta salva la possibilità per il lavoratore di scegliere successivamente una diversa linea di investimento.

La scelta di destinare il TFR alla previdenza complementare determina l’automatica iscrizione del lavoratore alla forma pensionistica complementare prescelta dal lavoratore e comunicata al datore di lavoro.

Quindi, il datore di lavoro versa il TFR alla forma prescelta a decorrere dal mese successivo a quello di effettiva consegna del modello TFR2 da parte del lavoratore; la decorrenza è tuttavia differita al periodo di paga in corso al momento della scelta.

Il Modello TFR2, inizialmente allegato al D.M. 30 gennaio 2007, è stato modificato dal D.M. 22 marzo 2018 ed è attualmente composto di tre sezioni; il lavoratore deve compilare esclusivamente la sezione a cui appartiene.

La sezione 1 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data successiva al 28 aprile 1993. Pertanto, costoro dovranno scegliere se il TFR venga conferito ad una forma pensionistica complementare ed in che misura oppure di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda.

La sezione 2 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 28 aprile 1993 ai quali si applichino accordi o contratti collettivi che prevedano il conferimento del TFR ad una forma pensionistica complementare; costoro potranno decidere di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda, di destinare l’intero ammontare del trattamento di fine rapporto alla forma pensionistica complementare o di conferire il TFR solo in parte alla forma pensionistica complementare.

La sezione 3 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 28 aprile 1993 ai quali tuttavia non si applichino accordi o contratti collettivi che prevedano il conferimento del TFR ad una forma pensionistica complementare; costoro potranno decidere di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda, di destinare l’intero ammontare del trattamento di fine rapporto ad una specifica forma pensionistica complementare di loro indicazione o di conferire il TFR solo in parte alla forma pensionistica complementare indicata nel modulo.

Invero, occorre precisare che il modello TFR2 deve essere conservato in originale dal datore di lavoro, che ne deve comunque consegnare copia al lavoratore; è onere invece del dipendente fornire copia del modulo di adesione alla forma pensionistica complementare prescelta.

Infine, va notato che la legge di Bilancio 2017 (legge n. 232/2016) ha introdotto il comma 184-bis alla legge n. 208/2015 (legge di Bilancio 2016), che prevede che non concorrono a formare reddito di lavoro dipendente i contributi alle forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. n. 252/2005, versati, per scelta del lavoratore, in sostituzione, in tutto o in parte, dei premi di risultato, anche se eccedenti i limiti di deduzione dal reddito previsti dal medesimo D.Lgs. n. 252/2005 e che saranno in seguito esaminati.

5.3.2. Pubblici dipendenti

I fondi pensione destinati al personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni possono essere istituiti con contratti collettivi nazionali di comparto oppure con contratti collettivi di ambito territoriale.

Ai dipendenti pubblici si applica la normativa del D.Lgs. n. 124/1993 e, in materia fiscale, il D.Lgs. n. 252/2005. Costoro possono quindi:

  • aderire ai fondi pensione negoziali di riferimento, conferendo il TFR futuro e al tempo stesso beneficiare del contributo del datore di lavoro;
  • aderire anche a forme pensionistiche individuali (fondi pensione aperti e PIP) ma in tal caso possono versare esclusivamente il proprio contributo.

Non è possibile beneficiare del contributo del datore di lavoro né aderire in forma collettiva a fondi pensione aperti.

Anche i fondi pensione per i dipendenti pubblici sono enti giuridicamente autonomi, distinti dai soggetti promotori; sono iscritti all’Albo dei fondi pensione e sono vigilati dalla COVIP.

L’adesione è volontaria ed è consentita esclusivamente ai lavoratori che appartengono al settore del pubblico impiego il cui rapporto di lavoro è disciplinato dagli accordi collettivi istitutivi dello specifico fondo.

Con la legge di Bilancio per l’anno 2018 (legge n. 205/2017) è stato previsto che le fonti istitutive dei fondi pensione potranno disciplinare le modalità di espressione della volontà di adesione dei lavoratori del pubblico impiego – assunti successivamente al 1° gennaio 2019 – anche mediante meccanismi di silenzio-assenso, proprio come nel lavoro privato.

Invece, i dipendenti pubblici assunti a tempo indeterminato prima del 1° gennaio 2001 con la sottoscrizione del modulo di adesione al fondo pensione optano automaticamente per il passaggio dal regime del TFS (trattamento di fine servizio, buonuscita, indennità premio fine servizio o indennità di anzianità) al regime di TFR (trattamento di fine rapporto).

Il valore della prestazione maturata fino a quel momento costituirà il montante al quale si aggiungeranno i nuovi accantonamenti annui per il TFR e le relative rivalutazioni.

La facoltà di chiedere la trasformazione del TFS in TFR è stata introdotta al fine di favorire il processo di attuazione delle disposizioni in materia di previdenza complementare per i dipendenti pubblici.

Il passaggio avviene mediante la sottoscrizione del modulo di adesione al fondo pensione ed è, pertanto, strettamente connesso e non separabile rispetto all’adesione stessa.

Risulta possibile, qualora lo Statuto del fondo lo preveda, iscrivere anche i familiari fiscalmente a carico.

L’esercizio dell’opzione per il TFR, al fine di iscriversi contestualmente al fondo di previdenza complementare negoziale, sarà possibile sino il 31 dicembre 2020 (cfr. Messaggio INPS n. 2642/2016).

L’ammontare della contribuzione da versare nel fondo pensione complementare è stabilito in sede di contrattazione collettiva.

La pubblica amministrazione verserà dunque sul conto della posizione individuale del dipendente/aderente:

  • il contributo a carico del lavoratore, nell’importo previsto dall’accordo collettivo. Rimane possibile e consentito al dipendente di scegliere di contribuire in misura superiore rispetto a quanto prefissato;
  • il contributo a proprio carico, nella misura prevista dall’accordo collettivo: al predetto contributo il lavoratore ha diritto esclusivamente se effettua il proprio versamento.

5.3.3. Soci di cooperative

Per i soci lavoratori delle società cooperative – sia autonomi che subordinati – il contributo è determinato come percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR oppure degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori o, ancora, in percentuale rispetto al reddito da lavoro autonomo appositamente dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

A partire dal luglio del 2018, il fondo unico di previdenza complementare per i lavoratori delle cooperative è “Previdenza cooperativa”, nato dalla fusione dei precedenti fondi Cooperlavoro, Previcooper e Filcoop, che rappresentavano l’intero mondo delle cooperative italiane (Cooperlavoro era riservato ai soci lavoratori e ai dipendenti delle cooperative di lavoro, Previcooper per i lavoratori delle aziende che applicano il contratto nazionale della distribuzione cooperativa e Filcoop per i lavoratori dipendenti addetti ai lavori di sistemazione idraulico-forestale ed idraulico-agraria per i dipendenti di cooperative di trasformazione di prodotti agricoli).

Previdenza Cooperativa è aperto a tutti i settori e imprese cooperative e fa riferimento ai contratti nazionali di lavoro sottoscritti da Confcooperative, Legacoop e Agci con Cgil, Cisl e Uil.

A far data dal 16 luglio 2018 le aziende associate alle tre centrali cooperative effettuano i versamenti contributivi complementari per i propri dipendenti al nuovo Fondo.

I lavoratori già in precedenza aderenti a Cooperlavoro, Previcooper e Filcoop, sono automaticamente iscritti a Previdenza Cooperativa e mantengono senza alcun onere, tra le altre, le anzianità di iscrizione maturate nei Fondi di origine, i requisiti di partecipazione, le posizioni individuali accumulate e il medesimo comparto di investimento.

5.3.4. Lavoratori autonomi e collaboratori

Nel caso dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti il contributo al fondo è determinato come percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

Anche per agenti e rappresentanti di commercio il contributo al fondo è determinato come percentuale del reddito d’impresa dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

Con riferimento al reddito dichiarato deve ritenersi esclusa – implicitamente – l’eventuale rideterminazione dei contributi a seguito di accertamenti fiscali.

Per quanto attiene invece ai collaboratori coordinati e continuativi, non vi è applicazione in via analogica delle disposizioni previste per i lavoratori dipendenti.

Ad ogni modo sono estesi per i collaboratori i benefici fiscali riservati ai dipendenti in caso di contribuzione versata dai committenti a loro beneficio, sia volontariamente sia in base a contratti o accordi collettivi anche aziendali (cfr. in merito art. 8, comma quarto D.Lgs. n. 252/2005 ed il riferimento a “contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro o committente”).

Resta tuttavia salva la possibilità per il collaboratore di attivare in prima persona una forma di previdenza complementare.

5.3.5. Il trattamento fiscale

Al fine di incentivare il ricorso alla previdenza complementare il legislatore ha deciso di introdurre una tassazione di miglior favore (cfr. art. 8 D.Lgs. n. 252/2005).

In particolare:

  • Detrazione: sulla contribuzione è possibile dedurre dal reddito complessivo i contributi versati al fondo di previdenza complementare, fino ad un tetto unico fissato in 5.164,57 euro all’anno, sia volontari sia dovuti a contratti collettivi o accordi aziendali.

Ne consegue quindi un risparmio di imposta tanto maggiore quanto risulti più elevata l’aliquota IRPEF marginale applicata al lavoratore.

Tale importo comprende e somma l’eventuale contributo fornito dal datore di lavoro e i versamenti effettuati a favore dei soggetti fiscalmente a carico – esclusivamente per l’importo non dedotto direttamente da costoro – nonché i contributi versati per reintegrare eventuali anticipazioni già ottenute.

Nello specifico, per eventuali familiari a carico di più soggetti, si applicano le regole generali previste per gli oneri sostenuti nell’interesse delle persone fiscalmente a carico: pertanto, nel caso di contribuzione versata dai genitori in favore del figlio, l’onere va diviso tra gli stessi in parti uguali o nella proporzione in cui è stato sostenuto.

Risulta invece esclusa dalla deduzione la quota del TFR, in quanto non rientra nel reddito imponibile.

In base al TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi, D.P.R. n. 917/1986 – non concorrono alla formazione del reddito gli oneri deducibili trattenuti direttamente dal datore di lavoro.

Eventuali contributi eccedenti il limite di euro 5.164,57 euro all’anno non godono di alcun beneficio fiscale immediato ma danno comunque origine ad una quota di prestazione in capitale o in rendita esclusa da tassazione.

L’art. 8 comma 4 D.Lgs. n. 252/2005 prevede che il contribuente comunichi alla forma pensionistica complementare, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento, ovvero, se antecedente, alla data in cui sorge il diritto alla prestazione, l’importo non dedotto o che non sarà dedotto nella dichiarazione dei redditi.

Ancora, ex comma 6 art. 8 D.Lgs. n. 252/2005, ai lavoratori di prima occupazione – ovvero non titolari di una posizione contributiva aperta presso un ente di previdenza obbligatoria – successiva alla data di entrata in vigore del decreto (1° gennaio 2007), limitatamente ai primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è consentito, nei venti anni successivi al quinto anno di partecipazione a tali forme, dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza positiva tra l’importo di 25.822,85 euro e i contributi effettivamente versati nei primi cinque anni di partecipazione alle forme.

Ciò significa dunque che il contribuente potrà dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite ordinario per un importo non superiore a euro 2.589,22 annui.

Di conseguenza, l’importo massimo annuo deducibile – ricorrendo le citate condizioni – è pari a euro 7.746,86 euro

  • Rendimenti: i rendimenti realizzati dalla forma pensionistica complementare sono tassati fino a un massimo del 20% (rispetto al 26% che si applica alla maggior parte delle forme di risparmio finanziario).

La tassazione può essere inferiore qualora gli investimenti della forma pensionistica complementare siano effettuati in titoli di Stato e altri titoli equiparati, i cui rendimenti sono tassati con un’aliquota agevolata del 12,50%;

  • Pagamento prestazione: sul pagamento della pensione complementare o del capitale, la tassazione risulta assai favorevole: quanto deriva dai versamenti effettuati è infatti assoggettato a una ritenuta agevolata del 15%.

La citata percentuale si riduce in funzione dell’anzianità di partecipazione al sistema di previdenza complementare: se questa è superiore a 15 anni, l’aliquota diminuisce dello 0,30% per ogni anno di successiva partecipazione fino al limite massimo di riduzione pari a 6 punti percentuali.

Nel caso di almeno 35 anni di contribuzione, quindi, l’imposta scende al 9%.

Viene tassata solo la parte relativa ai contributi dedotti durante il periodo di partecipazione al fondo pensione e alle quote di TFR versato.

  • Anticipazioni: le anticipazioni per spese sanitarie sono tassate con un’aliquota agevolata che varia tra il 15% e il 9%, in base al numero di anni di partecipazione alla previdenza complementare.

Si ricorda e precisa che a tutte le altre tipologie di anticipazione viene applicata, invece, l’aliquota ordinaria del 23%;

  • Riscatti: i riscatti della posizione individuale a seguito di cessazione dell’attività lavorativa sono tassati con l’aliquota del 23%.

Nei casi di riscatto per inoccupazione di durata non inferiore a 12 mesi, mobilità, cassa integrazione guadagni ordinaria/straordinaria e invalidità, si applica un’aliquota agevolata che varia tra il 15% e il 9%, anche in questo caso in base al numero di anni di partecipazione alla previdenza complementare.

Quanto invece al TFR, la parte versata alla previdenza complementare concorre a formare la pensione complementare e quindi è tassata con le stesse aliquote agevolate.

Nel caso il TFR venga lasciato in azienda, sulla rivalutazione annua viene applicata l’imposta sostitutiva del 17% e sulle somme liquidate si applica la tassazione separata in base all’aliquota media IRPEF a cui è soggetto il lavoratore.

Sulle somme di TFR erogate in busta paga fino al luglio 2018 (data alla quale è venuto meno l’obbligo di erogazione della quota di trattamento di fine rapporto in busta paga, cfr. Messaggio INPS n. 2791/2018) si applica la tassazione in base all’aliquota ordinaria IRPEF.

5.3.6. La gestione delle risorse e le garanzie

Le forme pensionistiche complementari offrono diverse politiche di investimento e di ripartizione del rischio per investire i contributi; tali diversi possibilità sono denominate linee di investimento (o comparti).

Le linee di investimento più prudenti comportano generalmente un rischio contenuto ed a garanzia del capitale; al contrario, le linee di investimento più aggressive comportano maggiori rischi ma anche migliori aspettative di remunerazione.

Appare opportuno segnalare che, oltre al rapporto rischio/guadagno e dunque alla propensione o meno per il rischio finanziario, è necessario anche valutare attentamente altri fattori prima di operare la scelta della linea di investimento.

Infatti, risultano variabili da tenere in debita considerazione anche le condizioni socio-economiche, l’età e l’arco temporale che separa dal pensionamento l’interessato.

Generalmente infatti vengono consigliate delle linee di investimento più aggressive soprattutto per i lavoratori più giovani, in quanto tale scelta comporta maggiori probabilità di alti rendimenti nel lungo periodo.

Al contrario, ai lavoratori in prossimità alla pensione sono solitamente proposte linee di investimento più prudenti, che mirino essenzialmente alla conservazione di quanto versato.

In caso di adesione tacita del lavoratore alla previdenza complementare, il TFR viene conferito nella linea di investimento più garantita e prudenziale.

Le linee di investimento, pur differenziandosi in base agli strumenti finanziari, sono comunque riconducibili, in via generale, a quattro principali categorie:

  1. garantite, che offrono una garanzia di rendimento minimo o di restituzione del capitale versato al verificarsi di determinati eventi;
  2. obbligazionarie (pure o miste), a seconda che investano esclusivamente o principalmente in titoli obbligazionari;
  3. bilanciate, che tendenzialmente investono in azioni e in obbligazioni nella stessa o in simili percentuali;
  4. azionarie, che investono esclusivamente o principalmente in azioni.

La scelta della linea di investimento operata non è vincolante e pertanto può sempre essere modificata, anche più volte, nel corso del tempo.

In ogni caso, il raggiungimento dell’obiettivo proprio dei fondi pensione risulta tutelato da un apposito sistema di garanzie e comunque dalla vigilanza della COVIP, che, oltre a controllare tutti i movimenti della vita del fondo, dispone di poteri autoritativi nei confronti degli organi del fondo e altresì della possibilità di emanare regolamenti, circolari e disposizioni finalizzate a disciplinare lo sviluppo dei fondi pensione.

Dunque, le forme pensionistiche complementari devono rispettare nei loro investimenti determinate regole di prudenza, definite dalla legge, che tengono conto della finalità previdenziale e non speculativa dell’investimento.

Per tale ragione infatti nei fondi pensione negoziali la gestione degli investimenti è affidata esclusivamente a determinati operatori professionali (banca, SGR, SIM, impresa di assicurazione) sulla base di una apposita convenzione nella quale sono definiti i criteri a cui tali operatori si devono attenere.

Nei fondi pensione aperti e nei piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP), gli investimenti sono gestiti in genere direttamente dalla società (banca, SGR, SIM, impresa di assicurazione) che ha istituito il fondo aperto o il PIP.

Le risorse dei fondi pensione aperti e dei PIP costituiscono patrimonio autonomo e separato rispetto a quello della società.

Le risorse affidate in gestione al fondo, per garantire una piena separazione dei ruoli e ridurre il rischio di possibili conflitti d’interesse, sono custodite da un depositario a ciò autorizzato (una banca, purché abbia i requisiti previsti dal D.Lgs. n. 58/1998 per essere considerata banca depositaria per fondi comuni d’investimento e sia diversa dal gestore del fondo).

La banca depositaria ha anche il compito di verificare che le operazioni effettuate dal gestore siano conformi alla legge e a quanto stabilito nello Statuto o nel Regolamento della forma pensionistica complementare anche nella scelta degli investimenti.

Ulteriore forma di garanzia consiste nell’obbligo per i fondi pensione di inviare ai propri iscritti apposite informazioni periodiche, il cui contenuto è disciplinato dettagliatamente dalla stessa COVIP e i cui obblighi sono stati resi più stringenti a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 147/2018 di modifica del D.Lgs. n. 252/2005, che ha introdotto ulteriori e specifici obblighi di informazione agli articoli da 13-bis a 13-septies.

Nell’informazione agli iscritti devono essere evidenziati sia i dati relativi all’andamento generale della gestione del fondo (investimenti, spese) sia i dati relativi alla gestione della posizione del singolo iscritto (contribuzione ecc.).

Ancora, nell’informazione periodica deve essere altresì contenuto il documento, ex art. 13-quater D.Lgs. n. 252/2005 come modificato dal D.Lgs. n. 147/2018, “Prospetto delle prestazioni pensionistiche”, che contiene una simulazione della presunta pensione complementare calcolata in base ai dati anagrafici, alla posizione individuale maturata, alla dinamica retributiva, alla linea di investimento scelta e ad altre ipotesi definite dalla COVIP.

Si tratta ovviamente di una simulazione, che tuttavia, assieme alle altre informazioni fornite, è però in grado di fornire all’iscritto una panoramica tale da permettergli di valutare l’adeguatezza del percorso scelto.

All’interessato è comunque sempre lasciata aperta la possibilità, in ragione delle informazioni ricevute e a seguito di apposita riflessione e valutazione, di aumentare i contributi o modificare la linea di investimento o addirittura al cambio del fondo pensione sottoscritto, che, essendo un diritto dell’iscritto, non può essere ostacolato né limitato.

Infine, nel caso di riscontro di irregolarità o anomalie che riguardino la forma pensionistica complementare, l’iscritto deve rivolgersi in primo luogo al fondo pensione stesso, che è tenuto a rispondere alla richiesta ricevuta in modo chiaro, tempestivo ed efficace.

Nel caso di mancata o insufficiente risposta da parte del fondo pensione, l’interessato può inviare esposto alla COVIP, che esamina le situazioni portate alla sua attenzione e dalle quali potrebbero emergere comportamenti irregolari o anomali dei fondi e valuta, nell’ambito della propria attività di vigilanza, quali iniziative adottare nei confronti della forma pensionistica complementare inadempiente.

 

5.4. Le prestazioni

Le prestazioni erogate dal fondo pensione consistono nell’attribuzione di una rendita, ovvero di una vera e propria pensione che si aggiunge a quella liquidata dal sistema previdenziale obbligatorio, oppure di capitale.

Infatti, anche il diritto alla prestazione pensionistica complementare viene conseguito al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti dal regime obbligatorio di appartenenza.

Inoltre, per accedere alle prestazioni pensionistiche della previdenza complementare è altresì richiesto il requisito di almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari.

Il predetto termine è ridotto a tre anni per il lavoratore il cui rapporto di lavoro in corso cessa per motivi indipendenti dal fatto che lo stesso acquisisca il diritto a una pensione complementare e che si sposta tra Stati membri dell’Unione europea

L’interessato a quel punto potrà scegliere tra:

  • trasformare interamente la propria posizione individuale in rendita;
  • ottenere fino a un massimo del 50% del capitale accumulato in un’unica soluzione ed il restante in rendita;
  • liquidare tutta la posizione individuale in capitale.

Durante il periodo di iscrizione al fondo, in alcune specifiche situazioni previste dalla legge o dal fondo pensione, è possibile prelevare dalla propria posizione individuale una parte del risparmio previdenziale, a titolo di riscatto o di anticipazione.

La somma che viene prelevata concorre a ridurre la posizione individuale e, di conseguenza, l’importo di quanto si disporrà al momento del pensionamento.

5.4.1. La rendita

Nel momento in cui matura il diritto alla prestazione pensionistica complementare, il capitale accantonato viene convertito in rendita, mediante l’utilizzo di coefficienti di conversione determinati con riferimento alle tavole di mortalità o sopravvivenza predisposte e periodicamente aggiornate dall’ISTAT.

I fondi pensione provvedono alle prestazioni sotto forma di rendita direttamente o mediante convenzione con determinate imprese assicurative.

In qualunque caso la responsabilità per il pagamento dell’obbligazione permane esclusivamente in capo al fondo pensione; è quest’ultimo infatti a svolgere comunque le funzioni di sostituto d’imposta in relazione alle rendite erogate.

Le principali tipologie di rendita sono le seguenti:

  • rendita vitalizia, ovvero la rendita che, a partire dal momento del pensionamento, viene ricevuta dal beneficiario fino al decesso;
  • rendita vitalizia reversibile, la rendita che viene erogata al beneficiario, o, in caso di decesso di quest’ultimo, ad un soggetto dallo stesso indicato purché rientrante tra i possibili destinatari della pensione per superstiti;
  • rendita certa e successivamente vitalizia, quella rendita che assicura in ogni caso all’interessato un importo predeterminato per un preciso lasso temporale, indipendentemente dall’esistenza in vita del beneficiario diretto.

Decorso il periodo “certo” la rendita viene erogata esclusivamente in caso di esistenza in vita del beneficiario e fino al suo decesso.

  • rendita differita, ovvero la rendita che non viene pagata al momento del pensionamento ma da un preciso e diverso momento preventivamente individuato e fino al decesso del beneficiario;
  • rendita associata ad una c.d. copertura di lungo termine, ovvero una rendita che può essere aumentata nel caso si verifichino eventi che comportino la perdita di autosufficienza del beneficiario.

In caso di decesso dell’iscritto prima dell’avvenuto pensionamento, la posizione individuale dello stesso può essere riscattata dai beneficiari appositamente designati dall’iscritto oppure, in assenza, dai suoi eredi.

Infine, occorre sottolineare che la rendita, al contrario del montante in unica soluzione che vedremo tra poco, tutale l’interessato contro il c.d. rischio di longevità, ovvero il rischio di vivere più a lungo di quanto ci si possa attendere, anche in considerazione del notevole incremento della speranza di vita riscontrato negli ultimi anni.

5.4.2. Il capitale

In alternativa alla rendita, l’iscritto può richiedere la liquidazione in capitale – secondo il valore attuale – dell’importo maturato.

Non sempre è tuttavia possibile richiedere l’intera liquidazione in capitale: infatti, si applica il limite del 50% alla quota liquidabile in capitale, conservando la percentuale residua per l’erogazione sotto forma di rendita, a meno che:

  • si tratti di iscritti alla data del 28 aprile 1993 ad un fondo istituito in data precedente rispetto al 15 novembre 1992;
  • l’importo annuo della prestazione pensionistica complementare risulti inferiore al 50% del valore dell’assegno sociale.

Sono comunque sempre previste apposite forme di anticipazione del capitale per il lavoratore in caso di necessità dello stesso, con successiva facoltà di reintegrazione delle somme.

Nel caso le somme anticipate non vengano reintegrate, le stesse verranno detratte dal computo dell’importo complessivo erogabile in capitale.

5.4.3. Le anticipazioni

Ai sensi dell’art. 11 comma 7 del D.Lgs. n. 252/2005 gli aderenti alle forme pensionistiche complementari possono richiedere un’anticipazione della posizione individuale maturata nei seguenti casi:

  1. in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75 per cento, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione pari a 6 punti percentuali;

  1. decorsi otto anni di iscrizione al fondo, per un importo non superiore al 75 per cento, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la realizzazione degli interventi di cui alle lettere a), b), c), e d) del comma 1 dell’articolo 3 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, relativamente alla prima casa di abitazione (importanti interventi di manutenzione, restauro, ristrutturazione), documentati come previsto dalla normativa stabilita ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;

  1. decorsi otto anni di iscrizione al fondo, per un importo non superiore al 30 per cento, per ulteriori esigenze degli aderenti.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;

Le ritenute di cui alle precedenti lettere sono applicate dalla forma pensionistica che eroga le anticipazioni.

In ogni caso, a mente del successivo comma 8 dell’art. 11 D.Lgs. n. 252/2005, le somme percepite a titolo di anticipazione non possono mai eccedere, complessivamente, il 75 per cento del totale dei versamenti, comprese le quote del TFR, maggiorati delle plusvalenze tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decorrere dal primo momento di iscrizione alle predette forme.

Inoltre, le eventuali anticipazioni possono essere reintegrate, a scelta dell’aderente, in qualsiasi momento anche mediante contribuzioni annuali eccedenti il limite di 5.164,57 euro.

Sulle somme eccedenti il citato limite, corrispondenti alle anticipazioni reintegrate, è riconosciuto al contribuente un credito d’imposta pari all’imposta pagata al momento della fruizione dell’anticipazione, proporzionalmente riferibile all’importo reintegrato.

Ancora, ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e delle prestazioni pensionistiche sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dall’aderente per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individua

5.4.4. I riscatti

Sono previsti alcuni casi in cui è possibile chiedere il riscatto della posizione previdenziale.

Maggiormente nel dettaglio, il riscatto prevede il rimborso all’iscritto del capitale maturato fino a quel momento.

Al contrario dell’anticipazione, il riscatto non fornisce la possibilità di reintegrare la propria posizione previdenziale.

Il riscatto può essere richiesto nei seguenti casi, come meglio precisato dall’art. 14 del D.Lgs. n. 252/2005 a seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 147/2018:

  • In caso di cessazione dell’attività lavorativa o di procedure di mobilità e cassa integrazione ordinaria o straordinaria che comportino inoccupazione per periodi superiori a 12 mesi. Decorso tale termine, può essere richiesto il riscatto parziale pari al 50% del capitale maturato; qualora siano passati 48 mesi è possibile richiedere il riscatto totale.

Per gli iscritti a forme individuali, in caso di perdita del lavoro, per dimissioni o licenziamento, il riscatto può essere richiesto senza attendere i termini indicati;

  • Per gli iscritti a forme previdenziali complementari collettive, in caso di perdita dei requisiti di permanenza.

Nel caso infatti il lavoratore perda i requisiti di partecipazione previsti dal contratto o dall’accordo collettivo, ad esempio perché perde il lavoro o cambia settore lavorativo e non può continuare a versare nel fondo pensione di categoria, è sua facoltà chiedere il riscatto totale della posizione.

In ogni caso l’iscritto può comunque optare invece per il mantenimento della posizione individuale in gestione presso la forma pensionistica complementare anche in assenza di ulteriore contribuzione.

La COVIP, nel marzo 2019, ha risposto ad un quesito relativo ai lavoratori coinvolti in una specifica operazione di fusione per incorporazione in relazione alle quale con apposito accordo sindacale, sottoscritto a latere, era stato pattuito che la contribuzione dei lavoratori dell’azienda fusa per incorporazione venisse versata, successivamente alla fusione, al fondo pensione di riferimento del gruppo cui apparteneva l’azienda incorporante, anziché al fondo pensione preesistente, al quale i lavoratori avevano aderito.

Viene osservato dalla COVIP che la perdita dei requisiti di partecipazione a un fondo pensione non si ha solo nell’ipotesi in cui intervenga una cessazione del rapporto di lavoro, ovvero un cambiamento dell’attività lavorativa che collochi il lavoratore nell’ambito di una diversa categoria contrattuale, alla quale non trovi applicazione la fonte istitutiva della forma cui aderiva in precedenza, ma anche nell’ipotesi in cui trovino successivamente applicazione al medesimo lavoratore accordi collettivi che dispongano la destinazione ad un’altra forma pensionistica complementare dei flussi contributivi datoriali futuri.

Viene riconosciuta poi anche la possibilità di mantenere la posizione attivando una contribuzione volontaria ed individuale al medesimo fondo di originaria iscrizione.

Tale adesione, viene sottolineato, si trasforma da collettiva ad individuale e la facoltà di riscatto per perdita requisiti dovrà seguire le regole previste per il riscatto delle posizioni individuali, essendo dunque necessaria quindi l’attestazione della cessazione dell’attività e dello status di inoccupato al momento della domanda di riscatto così come previsto dalla Circolare COVIP n. 5027 del 2017.

  • In caso di accertata invalidità permanente che riduca la capacità lavorativa ad un livello inferiore ad un terzo e a seguito di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi (cfr. legge di Bilancio 2018, n. 205/2017, art. 1 comma 168 lettera b) è prevista la possibilità per l’interessato di richiedere il riscatto totale;
  • In caso di morte del lavoratore prima che abbia maturato il diritto alla pensione, sono gli eredi o i beneficiari eventualmente indicati dal lavoratore stesso a poter chiedere il riscatto, siano essi persone fisiche o giuridiche.

In mancanza di tali soggetti, la posizione, limitatamente alle forme pensionistiche complementari individuali, viene devoluta a finalità sociali secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Nelle forme pensionistiche complementari collettive, la suddetta posizione resta invece acquisita al fondo pensione stesso;

5.4.5. La portabilità

Come già anticipato, l’iscritto ha la possibilità di trasferire l’intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica, purché siano decorsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensionistica complementare (in merito, art. 14 comma 6 D.Lgs. n. 252/2005).

Le operazioni di trasferimento delle posizioni pensionistiche sono esenti da ogni onere fiscale, all’unica condizione che avvengano a favore di forme pensionistiche disciplinate dal D.Lgs. n. 252/2005.

Sono altresì esenti da ogni onere fiscale i trasferimenti delle risorse o delle riserve matematiche da un fondo pensione o da una forma pensionistica individuale ad altro fondo pensione o ad altra forma pensionistica individuale.

Gli adempimenti a carico delle forme pensionistiche complementari conseguenti all’esercizio delle facoltà di cui al presente articolo devono essere effettuati entro il termine massimo di sei mesi dalla data di esercizio stesso (art. 14 comma 8 D.Lgs. n. 252/2005).

In questi casi di trasferimento si parla di c.d. portabilità.

Occorre precisare che la portabilità incontra un limite, di fatto, in quanto se è sempre possibile il trasferimento da un fondo pensione chiuso ad uno aperto o ad un PIP, al contrario il trasferimento da un fondo chiuso ad un ulteriore fondo chiuso risulta possibile esclusivamente nel caso il lavoratore sia in possesso dei requisiti di partecipazione al fondo espressamente stabiliti nel contratto o nell’accordo collettivo.

Nel caso invece di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. con contestuale modifica del CCNL di riferimento applicato dal cessionario rispetto a quello del cedente, il lavoratore trasferito si vede costretto ad abbandonare il fondo chiuso previsto dal precedente contratto applicato dal cedente ed aderire al fondo chiuso previsto dal CCNL del cessionario.

Ovviamente, è sempre fatta salva la possibilità per il lavoratore di aderire ad un diverso fondo individuale o a un PIP.

 

5.5. La RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata)

La legge di Bilancio 2017, legge n. 232/2016, ha introdotto la possibilità di richiedere l’anticipazione – in tutto o in parte – delle prestazioni della previdenza complementare (c.d. RITA, Rendita Integrativa Temporanea Anticipata).

5.5.1. Requisiti

L’art. 1, commi da 188 a 192, della legge n. 232/2016 ha dunque, in via sperimentale e per il periodo dal 1º maggio 2017 al 31 dicembre 2018, previsto la possibilità, per i lavoratori iscritti alle forme a contribuzione definita, che su richiesta dell’aderente le prestazioni delle forme pensionistiche complementari venissero erogate sotto forma di rendita temporanea, denominata RITA, decorrente dal momento dell’accettazione della richiesta fino al conseguimento dei requisiti di accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio e consistente nell’erogazione frazionata, per il periodo considerato, del montante accumulato richiesto.

Successivamente, l’art. 1 della legge n. 205/2017 (legge di Bilancio 2018), al comma 169, ha abrogato i commi 188-191 dell’art. 1 della legge n. 232/2016 e, al comma 168, ha dettato la nuova disciplina della RITA a regime, che pertanto risulta ora contenuta nei commi da 4 a 4-quinquies dell’art. 11 del D.Lgs.  n. 252/2005.

A far data dal 1° gennaio 2018 dunque la RITA non è più prevista in via sperimentale ma è stata stabilizzata e resa più agevole.

Dunque, risultano potenziali beneficiari:

  1. I lavoratori che:
  • maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i cinque anni successivi;
  • abbiano maturato alla data di presentazione della domanda di accesso alla rendita integrativa un requisito contributivo complessivo di almeno venti anni nei regimi obbligatori di appartenenza.
  1. I lavoratori che:
  • risultino inoccupati per un periodo di tempo superiore a ventiquattro mesi
  • maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i dieci anni successivi.

Costoro potranno richiedere alle prestazioni delle forme pensionistiche complementari, con esclusione di quelle in regime di prestazione definita, l’erogazione della RITA, decorrente dal momento dell’accettazione della richiesta e fino al conseguimento dell’età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia.

La RITA consistente nell’erogazione frazionata di un capitale, per il periodo considerato, pari al montante accumulato richiesto.

Ai fini della richiesta in rendita e in capitale del montante residuo non rileva la parte di prestazione richiesta a titolo di rendita integrativa temporanea anticipata.

La RITA ha carattere generale e si applica a tutti i lavoratori (inclusi i dipendenti pubblici) che abbiano aderito a una forma di previdenza complementare a contribuzione definita.

Come precisato dalla Circolare COVIP n. 888/2018, la nuova disciplina in materia di RITA non prevede la necessità del rilascio di una preventiva ed apposita attestazione da parte dell’INPS.

Generalmente i fondi pensioni prevedono un apposito modulo da compilare da parte dell’interessato per inoltrare la richiesta e per scegliere specificamente la percentuale di capitale maturato da destinare all’erogazione della RITA e il comparto di investimento del capitale destinato alla RITA. Nel caso non sia indicato il comparto di investimento, solitamente i fondi pensione investono il montante nel fondo garantito.

Occorre inoltre segnalare come la Rendita Integrativa Anticipata sia oggi cumulabile sia con l’APE volontario sia con l’APE sociale consentendo, pertanto, al lavoratore di usufruire contemporaneamente di entrambi i benefici, potendo inoltre modularli a seconda delle proprie esigenze.

5.5.2. Fruizione

Nello specifico, le prestazioni della previdenza complementare vengono dunque anticipate in forma di rendita – temporanea – decorrente dal momento dell’accettazione del fondo della richiesta formulata dal lavoratore e fino al conseguimento dell’età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio.

La rendita temporanea è quindi una erogazione frazionata di capitale, per il periodo richiesto dall’interessato, pari al montante accumulato anch’esso richiesto: spetta infatti all’iscritto al fondo stabilire quanta parte del montante accumulato impegnare a titolo di RITA e quanto invece mantenere all’interno del fondo pensione stesso.

Al contrario, la cadenza temporale del frazionamento della rendita viene invece spesso stabilito dal fondo pensione (ma vi sono fondi pensione che permettono anche in questo caso la scelta all’interessato). Il fondo pensione non può comunque stabilire un frazionamento di periodicità superiore ai tre mesi.

Va notato che, a mente dell’art. 4-ter del D.Lgs. n. 252/2005, il ricorso alla RITA viene incentivato fiscalmente.

Infatti, la parte imponibile della rendita anticipata, determinata secondo le disposizioni vigenti nei periodi di maturazione della prestazione pensionistica complementare, è assoggettata alla ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15%, ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali.

A tal fine, se la data di iscrizione alla forma di previdenza complementare è anteriore al 1º gennaio 2007, gli anni di iscrizione anteriori al 2007 sono computati fino a un massimo di quindici.

Il percettore della rendita anticipata ha facoltà di non avvalersi della tassazione sostitutiva facendolo constare espressamente nella dichiarazione dei redditi; in tal caso la rendita anticipata è assoggettata a tassazione ordinaria.

Le somme erogate a titolo di RITA sono imputate, ai fini della determinazione del relativo imponibile, prioritariamente agli importi della prestazione medesima maturati fino al 31 dicembre 2000 e, per la parte eccedente, prima a quelli maturati dal 1º gennaio 2001 al 31 dicembre 2006 e successivamente a quelli maturati dal 1º gennaio 2007.

Come precisato dall’art. 4-quinquies del D.Lgs. n. 252/2005, anche le disposizioni fiscali di maggior favore trovano applicazione ai dipendenti pubblici che aderiscono alle forme pensionistiche complementari loro destinate.

La COVIP, nella circolare n. 888/2018, ha precisato che l’iscritto alla previdenza complementare possa in ogni momento esercitare la facoltà di interrompere e revocare l’erogazione della RITA, purché nel rispetto delle modalità stabilite da ciascuna forma pensionistica.

Nel caso in cui non venga utilizzata l’intera posizione individuale accantonata presso il fondo pensionistico a titolo di RITA, sulla porzione che residua, che rimane in gestione alla forma pensionistica complementare, l’iscritto può comunque chiedere anticipazioni e riscatti nei casi previsti e sopra già esaminati.

Restano altresì ed in ogni caso ferme le prerogative degli iscritti in tema di trasferimento della posizione individuale.

Tuttavia, in caso di richiesta di trasferimento, lo stesso dovrà riguardare l’intera posizione individuale e, quindi, anche la parte impegnata a titolo di RITA, con conseguente revoca della stessa.

Fabio Petracci
Alberto Tarlao
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

Lvoro precario

In vigore il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 83/2022)

1. Premessa; 2. Procedure di insolvenza e PNRR; 3. Struttura del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza mediante l’approfondimento del decreto legislativo n. 83/2022.

  1. PREMESSA

Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), ovvero il D.lgs. n.14/2019, è entrato in vigore il 15 luglio 2022 mediante il D.Lgs. n. 83/2022, recante “modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.

Il governo italiano, sempre mediante il decreto legislativo sopracitato, ha inserito all’interno del CCII le disposizioni del D.L. 118/2021 in materia di composizione negoziata della crisi e ha dato attuazione alla direttiva (UE) 2019/1023 (Direttiva Insolvency) del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 – riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione – e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza).

La modifica più rilevante riguarda gli “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili”, i quali acquistano un ruolo più significativo rispetto al passato. Inoltre, la composizione negoziata sostituisce definitivamente l’OCRI (organismi di composizione della crisi d’impresa).  Ancora, tra gli obblighi dei creditori qualificati, viene aggiornata la “transazione fiscale”. Rientra tra le novità più importanti l’accantonamento del sistema di allerta, il quale era previsto nella stesura originaria del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. n. 14/2019).

  1. PROCEDURE DI INSOLVENZA E PNRR

La crisi dovuta all’emergenza pandemica ha provocato lo slittamento di quasi due anni dalla data originariamente prevista (15 agosto 2020) per l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Dall’altra parte però, tale ritardo ha consentito di allineare il CCII alle modifiche introdotte in sede di attuazione della sopraccitata Direttiva comunitaria del 2019.

Tra gli obiettivi prioritari del PNRR (il piano nazionale di ripresa e resilienza) vi sono gli interventi di modifica al Codice dell’insolvenza di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

“In merito, negli allegati al PNRR il Governo prevede di apportare modifiche al c.d. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza:

  • Attuando la direttiva UE n. 1023/2019, relativa alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione;
  • Rivedendo gli accordi di risoluzione extragiudiziale al fine di incentivare le parti a farne un maggior uso; potenziando i meccanismi di allerta;
  • Specializzando gli uffici giudiziari e le autorità amministrative competenti per le procedure concorsuali;
  • Implementando la digitalizzazione delle procedure anche attraverso la creazione di una apposita piattaforma online.

Il Piano prevede che la riforma possa essere attuata entro il quarto trimestre 2022”.

  1. STRUTTURA DEL CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA MEDIANTE L’APPROFONDIMENTO DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 83/2022

Come ben esplicitato dal dossier di documentazione della Camera dei deputati – Servizi Studi, di cui si riporta qui di seguito, “il decreto legislativo n. 83 del 2022, che è stato emanato dopo aver acquisito i pareri favorevoli delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato sullo schema di decreto A.G. 374, si compone di due capi.

Il Capo I (articoli da 1 a 45) provvede ad attuare la Direttiva n. 2019/1023 attraverso modifiche al Codice della crisi e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

Alcune modifiche sono di coordinamento, in quanto conseguono a soppressioni, modifiche o introduzione di alcuni istituti del Codice, come la soppressione degli organismi di composizione della crisi di impresa (OCRI) e l’introduzione dei quadri di ristrutturazione preventiva.

Numerose sono le modifiche di carattere sostanziale.

Gli articoli da 1 a 5 del decreto legislativo n. 83 del 2022 apportano alcune modificazioni alle disposizioni generali, di cui al Titolo I del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in particolare:

  • La definizione di quadri di ristrutturazione preventiva, intesi come strumenti finalizzati a permettere la ristrutturazione in una fase precoce, prevenire l’insolvenza ed evitare la liquidazione;
  • La necessità che l’imprenditore predisponga un assetto organizzativo, amministrativo e contabile idoneo a rilevare tempestivamente e ad affrontare lo stato di crisi, con l’indicazione dei segnali d’allarme che vanno considerati indice di una possibile crisi;
  • La procedura di informazione e consultazione dei sindacati nell’ambito di un quadro di ristrutturazione preventiva;
  • La creazione di un’apposita sezione dedicata alla crisi d’impresa sui siti internet dei Ministeri della giustizia e dello sviluppo economico per favorire l’accesso degli utenti, in particolare debitori, rappresentanti dei lavoratori e PMI, alle informazioni su strumenti e procedure per la soluzione delle crisi.

L’articolo 6 sostituisce integralmente il Titolo II, originariamente dedicato alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, per inserirvi le disposizioni già in vigore a seguito degli interventi d’urgenza operati nel corso del 2021 (i già citati d.l. n. 118/2021 e d.l. n. 152/2021) per la realizzazione degli obiettivi del PNRR.

Il nuovo Titolo II disciplina l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, il cui obiettivo è superare la situazione di squilibrio dell’impresa prima che si arrivi all’insolvenza. Viene quindi disciplinata una procedura stragiudiziale, da attivare presso la Camera di commercio, che prevede il coinvolgimento di un esperto che affianca l’imprenditore commerciale (o agricolo), a garanzia dei creditori e delle altre parti interessate. L’esperto, nominato da una apposita commissione, è una figura professionale (si tratta prevalentemente di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro) dotata di precedenti esperienze nel campo della soluzione di crisi d’impresa, incaricata di valutare le ipotesi di risanamento, individuare entro 180 giorni una soluzione adeguata e redigere, al termine dell’incarico, una relazione che verrà inserita nella piattaforma unica nazionale e comunicata all’imprenditore. Nel corso della procedura è prevista l’applicazione di agevolazioni fiscali e di misure protettive a favore dell’imprenditore per limitare le possibilità di azione nei suoi confronti da parte dei creditori e precludere il pronunciamento di sentenze di fallimento o di stato di insolvenza.

Una specifica disciplina è inoltre dettata per l’applicazione del nuovo istituto ai gruppi di imprese e alle imprese di minori dimensioni.

Gli articoli da 7 a 13 intervengono sul Titolo III al fine di recepire la direttiva con riferimento al procedimento unitario per l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva. In particolare, vengono regolati i rapporti tra procedure pendenti nei confronti del medesimo debitore e domande di accesso ai diversi strumenti di composizione della crisi.

Altri interventi di recepimento della direttiva riguardano:

  • La disciplina dell’apertura del concordato preventivo, con particolare riferimento al giudizio di ammissibilità del tribunale, che viene differenziato a seconda che si tratti di concordato liquidatorio o di concordato in continuità aziendale, e ponendo limiti più stringenti nel primo caso;
  • La semplificazione delle procedure di verifica giudiziale che portano alla sentenza di omologazione del concordato e alla sentenza di omologazione degli accordi di ristrutturazione;
  • Gli effetti della revoca dell’omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, prevedendosi che in caso di accoglimento del reclamo proposto avverso la sentenza di omologazione la corte d’appello possa confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante;
  • La concessione di misure cautelari e protettive, che possono essere richieste anche nel corso delle trattative e prima del deposito della domanda di omologazione ma dalle quali sono sempre esclusi i diritti di credito dei lavoratori; vengono inoltre dettate norme in ordine alla durata, alla proroga o alla revoca delle misure stesse.

Gli articoli da 19 a 25 del decreto legislativo modificano il Titolo IV del Codice, in materia di strumenti di regolazione della crisi. Le principali disposizioni a carattere innovativo sono volte a:

  • Predisporre un nuovo strumento (piano di ristrutturazione soggetto a omologazione) per il debitore che si trovi in stato di crisi o di insolvenza, prevedendo che lo stesso debitore possa prevedere il soddisfacimento dei creditori, previa suddivisione in classi degli stessi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei;
  • Prevedere sia la possibilità di conversione del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione in concordato preventivo, che l’ipotesi inversa;
  • Adeguare alle disposizioni della Direttiva la disciplina del concordato preventivo, sia in continuità aziendale – attraverso la gestione diretta dell’imprenditore o indiretta, secondo quanto previsto dal piano di ristrutturazione, nell’interesse dei creditori e a tutela dei lavoratori – sia di liquidazione – conformando la relativa procedura ai principi di efficienza, pubblicità, trasparenza e celerità;
  • Sancire il principio generale della facoltatività della suddivisione in classi;
    modificare la disciplina della moratoria dei creditori privilegiati nel concordato in continuità aziendale, al fine di limitare a 6 mesi la possibilità di dilazionare il pagamento dei crediti di lavoro;
  • Prevedere, in caso di concordato in continuità, l’omologazione anche in assenza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie;
  • Disciplinare i rapporti esistenti tra i creditori ed il debitore nei contratti pendenti e in corso di esecuzione durante le trattative del concordato in continuità aziendale;
  • Inserire nella disciplina sulla convocazione dei creditori anche il piano di concordato tra i documenti da comunicare ai creditori prima delle operazioni di voto;
  • Introdurre specifiche disposizioni sul concordato in continuità aziendale, con le quali si dispone che quest’ultimo sia approvato se tutte le classi votano a favore;
  • Precisare il contenuto delle verifiche compiute dal tribunale nell’ambito del giudizio di omologazione, nonché le regole dell’omologazione tramite ristrutturazione trasversale e le regole del giudizio di convenienza;
  • Stabilire il termine di dodici mesi dalla presentazione della domanda per la conclusione del giudizio di omologazione;
  • Estendere al commissario giudiziale e al liquidatore giudiziale, analogamente a quanto disposto per il curatore, la possibilità di revoca e sostituzione;
  • Sospendere il diritto di recesso dei soci fino all’attuazione del piano nel caso in cui il piano preveda il compimento di operazioni di trasformazione, fusione e scissione;
  • Introdurre nel Codice una nuova Sezione VI-bis contenente disposizioni specifiche sui quadri di ristrutturazione preventiva da parte delle società, recependo i principi di cui all’articolo 12 della Direttiva, al fine di favorire la continuità delle attività aziendali.

Gli articoli da 26 a 34 apportano limitate modifiche nel Titolo V relativo alla liquidazione giudiziale, riguardanti:

  • La possibilità per ciascun creditore di chiedere la sostituzione del curatore e la liberazione del debitore da qualsivoglia causa di ineleggibilità o decadenza a seguito di esdebitazione;
  • L’efficientamento delle procedure di insolvenza e la riduzione della loro durata;
  • La liquidazione controllata del debitore sovraindebitato solo a fronte di debiti scaduti pari ad almeno 50 mila euro.

Gli articoli 35 e 36 intervengono sulle disposizioni relative ai gruppi di imprese, di cui al Titolo VI, allo scopo di rafforzare la già prevista prevalenza della continuità aziendale sulla liquidazione dell’impresa, purché risulti che in tal modo venga maggiormente soddisfatto l’interesse dei creditori. Quando sia accertata tale circostanza, è infatti prevista la limitazione per i creditori dissenzienti della possibilità di opporsi e si dispone che il piano venga omologa dal tribunale. Acquistano inoltre rilievo nella procedura i vantaggi compensativi che derivano alle singole imprese dalla presentazione di un piano unico per l’intero gruppo di imprese.

Le modifiche recate dagli articoli 37 e 38 al Titolo VII, in materia di liquidazione coatta amministrativa, riguardano in particolare:

  • la figura del commissario liquidatore, che viene maggiormente uniformata a quella del curatore, sia sotto il profilo professionale, sia avendo riguardo al procedimento da osservare per una sua eventuale revoca;
  • l’eliminazione dei creditori pubblici qualificati dai soggetti che devono riferire all’autorità di vigilanza circa l’esistenza di segnali di allarme.

Gli articoli 39 e 40 e gli articoli da 41 a 44 apportano modifiche di coordinamento, rispettivamente, al Titolo IX (disposizioni penali) e al Titolo X (disposizioni di attuazione), motivate dall’esigenza di correggere i riferimenti alle procedure di allerta di cui al Titolo II, che è stato integralmente riscritto dal decreto in esame. In particolare, viene eliminato il reato di falso nelle attestazioni dei componenti dell’OCRI, organismo soppresso a seguito della suddetta riscrittura.

Infine, il Capo II dello schema di decreto legislativo (articoli da 46 a 51) con finalità di coordinamento:

  • abroga alcune disposizioni contenute nei decreti – legge n. 118 e n. 152 del 2021, in conseguenza dell’inserimento nel corpo del Codice delle corrispondenti norme;
  • abroga parzialmente il decreto legislativo n. 147 del 2020, correttivo del Codice, le cui modifiche, che non sono mai entrate in vigore, risultano ora superate dall’attuazione della direttiva e dall’intervento in commento;
  • coordina il contenuto del decreto legislativo n. 270 del 1999, relativo all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, operando un aggiornamento dei richiami normativi interni;
  • prevede l’entrata in vigore del decreto legislativo il giorno dell’entrata in vigore del Codice ossia il 15 luglio 2022;
  • afferma l’invarianza finanziaria del provvedimento, con l’unica eccezione dei costi connessi all’istituzione della piattaforma telematica nazionale per la composizione negoziata della crisi d’impresa, peraltro già coperti in base alla normativa vigente”.

A cura della Sig.na Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
Centro Studi Corrado Rossitto di CIU UNIONQUADRI

Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

VIDEO – Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego (meritocrazia e professionalità)

Video del convegno “Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego (meritocrazia e professionalità)” tenutosi il 10 mar 2022.

Alte professionalità

Salario minimo – rappresentatività – contrattazione collettiva

Intervento  del Presidente del Centro Studio, Fabio Petracci in occasione del seminario “Salario minimo garantito” tenutosi a Milano il 14 luglio scorso.

Le esigenze dei quadri e delle specifiche rappresentanze professionali.

L’introduzione di un salario minimo può comportare significative conseguenze sia sul piano della contrattazione collettiva, sia su quello della rappresentatività delle organizzazioni sindacali.

Rileviamo però che non si tratta di un’interdipendenza assoluta ed inevitabile in tutte le sue conseguenze.

Verificheremo la possibilità di introdurre un salario minimo senza influire in maniera significativa sullo stato attuale della contrattazione collettiva e della rappresentatività.

Verificheremo inoltre le inevitabili ricadute dell’introduzione del salario minimo sulle dinamiche contrattuali delle categorie che direttamente non paiono interessate al salario minimo, come la categoria dei quadri.

Effettueremo le nostre riflessioni sulla base delle normative vigenti che possono accompagnare l’introduzione di un salario minimo.

 

La direttiva comunitaria limiti ed effetti.

La direttiva non contiene e peraltro non potrebbe contenere misure atte ad incidere direttamente sul livello delle retribuzioni nei singoli paesi della Comunità. Il trattato di funzionamento dell’Unione Europea all’articolo 135 vieta alla Comunità di intervenire sulle retribuzioni imponendo “vincoli amministrativi, finanziari e giuridici.

Essa invece, si limita, una volta intrapresa dal singolo governo la scelta di fissare un minimo salariale o tramite norma di legge o tramite contrattazione collettiva, ad integrare e completare le necessarie azioni degli stati membri, limitandosi a dei principi generali.

La direttiva fornisce in pratica una guida ed una cornice di attuazione.

Essa assume una rilevanza comunitaria più che nazionale, ponendosi non come limite, ma quale correttivo alla competitività esterna dei membri della Comunità Europea.

La direttiva punta ad istituire un quadro per fissare salari minimi ed equi.

Essa si limita a stabilire delle procedure per assicurare l’adeguatezza dei salari minimi e promuovere la contrattazione collettiva laddove essi esistono.

In pratica, una volta che uno stato membro si doti di un salario minimo dovrà stabilire un quadro procedurale per fissare ed aggiornare i salari minimi.

La normativa comunitaria, infatti, prevede che laddove via sia il salario minimo legale, questo debba essere pari almeno al 60% del salario mediano lordo nazionale e al 50% del salario medio lordo nazionale (parametri Ocse riconosciuti a livello internazionale). Inoltre, il salario minimo deve essere al di sopra della soglia di dignità, valutata non sull’individuo ma sul nucleo familiare, in funzione del potere d’acquisto calcolato sull’accesso a un paniere di beni e servizi essenziali a prezzi reali, comprensivi di Iva, contributi di sicurezza sociale e servizi pubblici. In sostanza, si lega la fissazione del minimo da un lato alla media delle retribuzioni generali del Paese, e dall’altro al potere d’acquisto reale delle famiglie.

Sono infatti previsti degli aggiornamenti periodici.

Le ricadute sul nostro sistema retributivo.

Nel nostro paese le retribuzioni minime non arrivano al 60% del salario medio proposto dalla UE.

Ci si chiede se potrà scattare l’obbligo di adeguarsi.

E’ inoltre in corso una notevole inflazione destinata con l’incombente crisi economica a ridurre rapidamente il potere di acquisto dei salari.

Esistono numerose aree di lavori atipici dove sussistono problemi di adeguatezza della retribuzione.

L’articolo 36 della Costituzione.

Per converso, nell’ambito del nostro ordinamento è estremamente importante la funzione dell’articolo 36 della Costituzione che riferisce l’adeguatezza della retribuzione non solo ai bisogni esistenziali del lavoratore, ma anche alla quantità e qualità del lavoro.

Dunque anche la proporzionalità delle retribuzioni rispetto alla qualità delle mansioni svolte assurge a principio costituzionale.

Questa norma, fondamentale per il riferimento della Costituzione al lavoro, non comporta una riserva normativa o contrattuale in favore dei sindacati per il regolamento dei rapporti di lavoro. (Corte Costituzionale n.106/1962). In quell’occasione, la Corte Costituzionale era chiamata a pronunciarsi in merito ad alcuni articoli della cosiddetta “Legge Vigorelli”.

E’ dunque possibile un intervento legislativo sul salario minimo che non comporti automaticamente la revisione delle regole sulla rappresentatività.

E’ necessario poi adeguare le retribuzioni dei lavoratori ad alta professionalità ai minimi contrattuali introdotti.

Eventuali altre ricadute.

Ciò non significa che l’introduzione per legge di un salario minimo non possa comportare conseguenze contrattuali e retributive al di fuori della stretta sfera di osservanza dello stesso.

Conseguentemente, le parti sociali sarebbero inevitabilmente condizionate dall’importo fissato come minimo legale anche per quanto riguarda la determinazione delle retribuzioni relative ai lavoratori inquadrati in qualifiche superiori rispetto a quelle interessate dal minimo legale. E così, anche per esse dovrebbero prevedere nei successivi rinnovi contrattuali incrementi proporzionali. Inoltre, sino a quando non vi sia un complessivo intervento di riadeguamento da parte dei rinnovi dei contratti collettivi, si potrebbe dubitare della rispondenza al criterio di proporzionalità dei minimi contrattuali relativi alle qualifiche superiori che, pur essendo rispettose del minimo legale, risultino uguali o solo lievemente superiori rispetto al minimo legale riconosciuto alle qualifiche inferiori.

In sostanza, l’aumento dei salari più bassi potrebbe incidere con un effetto a cascata anche su quelli più alti.

Esso potrebbe costituire inoltre uno stimolo per le organizzazioni sindacali ad ulteriori richieste retributive.

Potrebbe però anche verificarsi l’ipotesi che diversi livelli di inquadramento vengano sotto l’aspetto retributivo appiattiti.

Chi tutela la specificità delle categorie professionali, come quella dei quadri e di altre categorie particolarmente qualificate?

L’introduzione di una base di partenza retributiva appare idonea a rafforzare le dinamiche contrattuali e la tutela delle categorie destinate ad un ipotetico appiattimento delle loro posizioni.

Potrebbe infatti verificarsi un drenaggio di risorse contrattuali a danno delle categorie più alte o invece, come già accennato, un automatico livellamento retributivo.

Riteniamo quindi che nell’ambito della contrattazione e della rappresentatività dovrebbe essere riservato adeguato spazio alle istanze delle categorie maggiormente professionalizzate, come i quadri.

Trattasi non dimentichiamo di ambiti professionali destinati logicamente ad uno spazio di rappresentatività numerica limitato.

In tale ambito, l’associazione dei quadri non contesta la rappresentatività delle organizzazioni sindacali generaliste e non contesta neppure il ruolo della contrattazione collettiva nell’ambito della determinazione del salario minimo in concorrenza con la fonte legale.

Ciò che invece determina la nostra opposizione è il tentativo di imporre in forma surrettizia di una legge che attui l’articolo 39 della Costituzione una determinazione delle regole sulla rappresentatività da parte dei soggetti che ne dovrebbero divenire i destinatari.

Ci riferiamo in primo luogo all’accordo del 10 gennaio 2014 tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL che redigevano un testo unico sulla rappresentanza ai fini della contrattazione nazionale di categoria e sulle rappresentanze in azienda.

Nella parte concernente la contrattazione collettiva l’ammissione alla contrattazione era riservata alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del successivo protocollo del 31 maggio 2013 che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi).

Ne seguiva la convenzione del 19 settembre 2019 tra INPS, Ispettorato Nazionale, del Lavoro, Confindustria CGIL, CISL, UIL, per ammettere alla contrattazione collettiva le sole organizzazioni sindacali rientranti nei parametri di cui all’accordo del gennaio 2014.

A tali accordi faceva seguito la circolare 3/2018 ed ulteriori interventi dell’Ispettorato del Lavoro volti a riconoscere esclusivamente CGIL, CISL, UIL quali parti contrattuali.

Questi interventi erano determinati dalla necessità di contrastare il diffondersi dei cosiddetti contratti pirata.

Nel nome di questa emergenza, si è voluto intervenire non con la selezione dei contratti mediante criteri oggettivi, ma sulla base di criteri soggettivi di difficile attuazione, sulla selezione dei soggetti atti a stipulare i contratti, eludendo così il delicato tema della rappresentatività sindacale.

Il sindacato dei quadri anche in ragione delle esigenze sopra menzionate, auspica che il dumping sociale e l’introduzione di un minimo salariale vengano introdotti senza interventi che non siano di legge sullo stato attuale della rappresentatività e che tengano conto delle emergenti e specifiche esigenze delle specifiche categorie professionali.

Fabio Petracci.