Smart Working. Le regole sino al 30 giugno 2023.

In sede di conversione in legge del Milleproroghe è stato inserito il comma 4-ter all’articolo 9, con cui si dispone la proroga del diritto allo Smart Working per i lavoratori fragili, sino al 30 giugno 2023.

Non sussiste comunque in alcuno dei casi che andremo ad esaminare, un diritto del lavoratore incondizionato a richiedere di operare in Smart Working.

Resta in ogni caso, il diritto del datore di lavoro di valutare la compatibilità della richiesta con le caratteristiche della prestazione.

La valutazione datoriale non può essere discrezionale ma deve essere resa su una effettiva valutazione della compatibilità delle mansioni sia con l lavoro agile che con l’organizzazione dell’azienda.

E’ stato previsto come l’attività in Smart Working possa avvenire anche mediante lo svolgimento di diversa mansione, purchè appartenente alla stessa categoria o area di inquadramento.

In ogni caso, L’assegnazione di mansioni diverse comportare una decurtazione della retribuzione in godimento.

Lavoratori fragili

In sede di conversione in legge del Milleproroghe è stato inserito il comma 4-ter all’articolo 9, con cui si dispone la proroga del diritto allo smart working per i lavoratori fragili, sino al 30 giugno 2023.

Il nuovo comma 5-ter inserito all’articolo 9 del Milleproroghe prevede la proroga sino al 30 giugno 2023 delle misure previste al punto 2, allegato B, del Decreto – legge 24 marzo 2022 numero 24 e quindi dell’accesso al Lavoro agile per i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con almeno un figlio minore di 14 anni, disciplinato dall’articolo 90, comma 1, Decreto – legge 19 maggio 2020 numero 34.

I genitori  in questione hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della Legge numero 81/2017.

Sono previste anche ipotesi di esclusioni dallo smart working, qualora nel nucleo familiare sia presente un altro genitore:

  • Beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa;
  • Non lavoratore.

In  ogni caso , la modalità di lavoro a distanza dev’essere compatibile con le caratteristiche della prestazione.

Va notato come  la proroga dello smart-working per i lavoratori fragili interessa tanto i dipendenti pubblici quanto quelli privati, la misura a beneficio dei genitori di under 14  sia riservata al solo personale del settore privato.

Sono inoltre previste delle priorità per l’accesso al Lavoro Agile, in quanto le aziende sono comunque tenute a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del lavoro in modalità agile formulate dalle seguenti categorie di lavoratori:

  • Con figli fino a 12 anni di età;
  • Con figli in condizioni di disabilità (senza limiti di età);
  • Con disabilità in situazione di gravità accertata o caregivers ai sensi dell’articolo 1, comma 255, Legge numero 205/2017.

Si intende per Caregiver colui che si prende cura di:

  • Coniuge;
  • Altra parte dell’unione civile o del convivente di fatto;
  • Un familiare o affine entro il secondo grado ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, Legge numero 104/1992, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non è autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, è riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ex articolo 3, comma 3, della stessa Legge numero 104 o è titolare

E’ tutelata inoltre la retribuzione di chi presta la propria attività in Lavoro Agile.

Il lavoratore in smart working ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente garantito, in attuazione dei contratti collettivi, ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. Nessuna disparità di stipendio può quindi essere applicata dal datore di lavoro.

Nello specifico, le ore svolte a distanza sono:

  • Equiparate a quelle ordinarie rese in presenza;
  • Conferiscono il diritto alla maturazione di ferie, permessi, mensilità aggiuntive e TFR;
  • Conteggiate ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore in azienda.

Per quanto riguarda le regole concernenti l’orario di lavoro

Si ribadisce la differenza tra Smart Working e Home Working o Remote Working. Una delle caratteristiche principali dello Smart-Working è infatti lo svolgimento dell’attività senza precisi vincoli di orario.

La prestazione deve comunque avvenire nel rispetto dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, definiti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

A tutela della salute psico-fisica del lavoratore devono essere garantiti i tempi di riposo ed il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità.

Per quanto riguarda gli straordinari

Come espressamente previsto nel Protocollo nazionale sul lavoro agile nel settore privato, sottoscritto dal Ministero del lavoro e le parti sociali il 7 dicembre 2021, salvo esplicita previsione da parte della contrattazione collettiva, durante le giornate di smart-working “non possono essere di norma previste e autorizzate prestazioni di lavoro straordinario” (articolo 3, comma 4).

In merito alle assenze

Il lavoratore a distanza ha diritto, al pari dei colleghi in sede, di assentarsi per:

  • Ferie e permessi retribuiti definiti dalla legge e dal contratto collettivo applicato, sfruttando lo stesso monte ore previsto per chi lavora in presenza;
  • Malattia, infortunio, maternità ed altri esempi di assenze giustificate;
  • Permessi retribuiti per disabili o per l’assistenza a familiari disabili ai sensi della Legge numero 104/1992.

Il già citato Protocollo sullo smart working prevede (articolo 3, comma 5) che nei casi di “assenze c.d. legittime (es. malattia, infortuni, permessi retribuiti, ferie, ecc.)” il dipendente può “disattivare i propri dispositivi di connessione e, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, non è comunque obbligato a prenderle in carico prima della prevista dell’attività lavorativa”.

Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

CONVEGNO – La formazione continua dei lavoratori per la ripartenza

Venerdì 10 dicembre alle 10:00 in diretta streaming su WEBTV.SENATO.IT dalla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani presso il Senato della Repubblica.

La difficoltà di cambiare noi stessi

La vera resistenza al cambiamento è la sicurezza della nostra comfort zone. Vi riporto alcune storie che aiutano a capire le dinamiche che ci portano ad accettare di rimanere in situazioni che proprio non ci piacciono. Una volta raggiunta la consapevolezza e deciso di cambiare, inizia la parte più difficile: il ciclo emotivo del cambiamento.

(una riflessione a cura di Tiziana PANSA)

Le nostre abitudini sono state stravolte quasi quotidianamente, un’escalation che ha portato al blocco di quasi tutte le attività e all’obbligo di rimanere a casa: ciascuno avrà potuto verificare quanto sia tenace la resistenza al cambiamento anche solo delle nostre abitudini quotidiane, figuriamoci su noi stessi (“Ah, il mondo non è più quello di una volta…”. “Eh, i giovani d’oggi non sanno…”. Quante volte abbiamo sentito persone intorno a noi rimpiangere il passato, senza rendersi conto che il mondo cambia di continuo?).

 Il contesto intorno a noi evolve. Le persone, una volta raggiunto un certo equilibrio, tendono a voler rimanere ferme nella propria area di comfort, a costo di alienarsi dagli altri e dalle situazioni nuove che si vengono a creare. Però dovremmo ricordare la lezione di Charles Darwin, teorico della selezione naturale nell’evoluzione delle specie, il quale ci ha insegnato che in natura non è il più forte a sopravvivere, bensì colui che meglio si adatta al cambiamento. Invece noi, poco per volta, ci adattiamo alle situazioni che non ci piacciono. Non ci prendiamo la responsabilità di cambiare ciò che non va bene per noi.

Il filosofo americano Noam Chomsky utilizzava la metafora della rana bollita per spiegare come ogni cambiamento, se sufficientemente graduale, ci vede incapaci di reagire. Secondo la storiella, gettando una rana nell’acqua bollente, lei salterà fuori immediatamente, salvandosi la vita. Se, invece, la mettiamo in acqua fredda e poi iniziamo a scaldarla molto lentamente, lei si adatterà man mano alla temperatura e quando alla fine l’acqua diventerà troppo calda, non avrà più la forza di saltare fuori e morirà  bollita.

Secondo la psicologia comportamentale, l’area di comfort da cui è così difficile uscire è quella condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio. Noi siamo bloccati da paure di vario genere: si tratta delle nostre conversazioni interiori (ci diciamo, ad esempio, che non saremo capaci, che ormai siamo troppo vecchi per certe cose, che “non sta bene” esprimere la nostra rabbia) ovvero opinioni che potrebbero essere sostituite in qualsiasi momento con altre più utili, ma nella nostra mente sono equiparate a verità assolute, influenzano il modo in cui ci percepiamo e hanno il potere di paralizzare la nostra azione.

La più subdola fra tutte le conversazioni è quella che ci fa dire che le cose stanno così e non possiamo fare nulla per cambiarle, perché non dipendono da noi. Ovvero ci posizioniamo come vittima, innocente e impotente: stiamo male, ma stiamo comodi, non dobbiamo affrontare le nostre paure né fare la fatica di cambiare. In tal caso abbiamo tutto sotto il nostro controllo e ciò è molto rassicurante: il prezzo di una scelta di questo tipo è, però, altissimo, scegliendo la zona di confort ci adattiamo a vivere in una situazione sì tranquilla, ma via via sempre meno soddisfacente (come la rana che finisce bollita). Adattamento dopo adattamento, compromesso dopo compromesso, in pratica…scegliamo di non vivere.

La via di uscita? Come fa la rana, stordita dal calore, a saltare fuori dalla pentola?

Un coaching ontologico ci insegnerà che la parola chiave è responsabilità, intesa come abilità a rispondere. Ovvero, noi abbiamo il potere di cambiare noi stessi e le nostre conversazioni interiori: Invece di dirci che non possiamo fare nulla, perché la colpa è di qualcun altro, possiamo iniziare a chiederci cosa possiamo fare noi, per cambiare le cose.

Prendere coscienza di quello che non ci piace e decidere di cambiare è solo l’inizio. Secondo i ricercatori americani Don Kelley e Daryl Conner, da quel punto può iniziare la corsa su un ottovolante emotivo: se non siamo pronti, rischiamo di arenarci senza combinare nulla. Durante il ciclo emotivo del cambiamento, attraversiamo cinque fasi, a partire da un ottimismo ingiustificato (appena deciso, veniamo colti da un’euforia irrealistica, che si sgretola alle prime inevitabili difficoltà) che si trasforma nel suo opposto, cioè un pessimismo giustificato, ostacolo contro il quale si arena il 95% dei propositi di cambiamento.

Un classico sono i buoni propositi per il nuovo anno. Pensiamo di voler tornare in forma, ci iscriviamo in palestra (abbonamento annuale), compriamo tutta l’attrezzatura, ci immaginiamo già muscolosi e dimagriti in costume da bagno al mare…ed ecco che dopo la prima lezione, stanchi e indolenziti, iniziamo a rimpiangere la zona di comfort e ci chiediamo chi ce lo ha fatto fare, mettendo in dubbio la necessità di proseguire, cadendo in una “valle di disperazione” da cui è difficile uscire.

Per superare questa fase è utile scomporre l’obiettivo finale in una serie di sotto-obiettivi (prendendosi un impegno con se stessi, esplicitandolo davanti a testimoni). Tali stratagemmi ci aiutano a risalire dall’abisso verso un realismo incoraggiante, fase durante la quale facciamo fatica ma sappiamo di potercela fare. Compilare una lista dei piccoli successi quotidiani, da celebrare con soddisfazione, ci porta verso un ottimismo giustificato e infine verso il cambiamento riuscito.

 Non solo la vita delle persone viene spesso limitata dalla resistenza al cambiamento (dalla difficoltà di cambiare e di adattarsi a condizioni economiche e di mercato in continuo movimento): anche per le aziende succede. Lo abbiamo visto nell’emergenza legata al coronavirus, che ha costretto allo stop moltissime aziende: alla fine ad uscirne rinforzate saranno  ad esempio quelle che hanno avuto l’idea di convertire i propri impianti per la produzione di mascherine e disinfettanti per le mani, riuscendo così non solo a non fermare la produzione, ma a lavorare e produrre utili a pieno ritmo, oppure che son riuscite, comunque,  a riproporre/re-inventare il loro modo di produrre e vender prodotti.

Il cambiamento è per sua natura difficile da realizzare.  La nostra resistenza al cambiamento provoca difficoltà ad uscire dalla nostra area di comfort, altre volte, invece, abbiamo difficoltà ad accettare eventi esterni che viviamo come ingiusti (tipico è stata epidemia di Covid-19, che ha sconvolto le vite di milioni di persone): in un attimo ci siamo ritrovati chiusi in casa, senza poter lavorare, né frequentare luoghi pubblici, uscire a cena o anche solo invitare gli amici per un aperitivo.

Se ci guardiamo intorno, possiamo aver osservato diversi modi di reagire a questo imprevisto:  chi si è lasciato prendere dal panico, chi chiude tutto e aspetta che passi la tempesta, chi fa il minimo per sopravvivere, chi cerca di approfittare della situazione… e c’è chi reagisce, osservando ciò che accade, e cercando di capire come evolvere insieme alla situazione.

A questo proposito il racconto “Chi ha spostato il mio formaggio?” (di Spencer Johnson), divenuto ormai un classico, spiega molto bene e metaforicamente la situazione trascorsa.

 I protagonisti della storia sono quattro: due topolini mediamente intelligenti, ma con un olfatto favoloso (Nasofino e Trottolino) e due gnomi (Tentenna e Ridolino).

All’inizio le vite dei quattro personaggi sono molto simili: vivono in un labirinto e ogni giorno indossano la tuta e scarpe da ginnastica, escono di casa e vanno a cercare il formaggio per il loro sostentamento. Tutto cambia quando i quattro trovano un immenso deposito di formaggio, rifornito ogni giorno con nuove quantità. Gli gnomi, ben presto si stabiliscono a vivere direttamente nel deposito e iniziano a pensare di aver sempre vissuto lì.

 Ma, un brutto giorno, però, il formaggio scompare senza spiegazioni. Topolini e gnomi si trovano di fronte a un cambiamento imprevisto. I topolini sono i primi a reagire, si rimettono in moto e ben presto trovano del nuovo formaggio. I due gnomi, invece, rimangono completamente spiazzati (col tempo, infatti, si erano convinti di avere diritto al formaggio e vivono la situazione con un senso di profonda ingiustizia): Tentenna rimane rigidamente fermo sulla sua decisione aspettare che gli restituiscano ciò che gli è stato tolto mentre Ridolino si rende gradualmente conto che i segnali di un cambiamento c’erano stati (formaggio più secco, non rifornito quotidianamente), accetta la sua parte di responsabilità nell’accaduto e presto si mette di nuovo in cerca di altro formaggio.

Il formaggio è una metafora di quello che vorremmo avere nella nostra vita: un buon lavoro, ricchezza, salute, felicità… Il labirinto rappresenta il luogo in cui cerchiamo ciò che desideriamo: famiglia, azienda, associazione di volontariato, ecc. Il racconto ci insegna che il cambiamento è inevitabile: ci sarà sempre qualcuno che sposterà il “nostro” formaggio.

 Ridolino, con fatica e sofferenza impara che è meglio essere attento a ciò che succede intorno a lui, per cogliere i segnali di cambiamento e non essere impreparato quando la situazione evolve. Se avesse annusato più spesso il formaggio si sarebbe reso conto che diventava secco e che non veniva più rifornito ogni giorno. Da lì avrebbe potuto iniziare a cercare del nuovo formaggio prima di rimanerne completamente privo.

Al momento dell’entrata in vigore delle misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, le scuole e le aziende che avevano investito tempo e risorse per implementare nuove forme di lavoro smart o nuove tecnologie di comunicazione digitale, hanno potuto continuare a lavorare con un impatto economico decisamente minore rispetto ad altre.

Allo stesso modo alcune aziende, invece di accusare il colpo della chiusura degli impianti produttivi, hanno cercato una soluzione che fosse al tempo stesso utile alla collettività per far fronte alla crisi e all’azienda, per continuare a lavorare e garantire un reddito ai propri dipendenti, nel rispetto di condizioni di lavoro igienicamente sicure. 

Ciascuna realtà ha compreso che, comunque evolva la situazione, nulla tornerà ad essere come prima. Si aprono scenari di ampio respiro, che guardano ben oltre la fine della pandemia. La crisi sanitaria, umana ed economica è destinata a mutare profondamente il nostro modo di vivere e lavorare: quanto prima sappiamo cogliere la sfida di questo cambiamento ed escogitare nuove soluzioni per nuovi problemi, tanto più facilmente riusciremo costruire un nuovo equilibrio.

Ciò che noi possiamo fare, in periodi così difficili e dalle conseguenze imprevedibili è trarre qualche insegnamento utile per il nostro futuro.

Per caso siamo stati noi, proprio come gli gnomi del racconto, a non guardare i segnali che avevamo davanti agli occhi? A non ascoltare le voci di scienziati ed esperti che da tempo ci mettevano in guardia dalla pericolosità dei cambiamenti climatici e ambientali che il nostro stile di vita irresponsabile stava generando?

 Bill Gates già nel 2015 ci metteva in guardia dicendo che la minaccia più grande per l’umanità non era la guerra nucleare, bensì una pandemia. Suggeriva anche di iniziare a mettere in pratica ogni buona idea, dalla pianificazione degli scenari, alla ricerca sui vaccini, alla formazione degli operatori .

Inoltre, pur nella drammaticità degli eventi, non saranno sfuggiti fattori positivi (la solidarietà tra le persone e la responsabilità, anche sociale, delle imprese): la nostra sfida, alla fine della “tempesta”, sarà quella di raccogliere tutto il buono che è emerso (capacità di riconvertire impianti, politiche di sostegno alle imprese e alle famiglie, solidarietà verso le fasce più deboli, ecc.) e utilizzarlo per ricostruire una società e un tessuto economico più attento e consapevole, in grado di prevedere ed evitare simili disastri.

TP

Coronavirus

Vaccino Covid 19 – rifiuto dei sanitari – collocazione in ferie – legittimità – Ordinanza n.12/2021 del Tribunale di Belluno – testo integrale – breve commento di Fabio Petracci.

L’ordinanza emessa dal Tribunale di Belluno affronta il quanto mai attuale tema concernente l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione da parte del personale sanitario.

Il caso affrontato dal Tribunale, vede il rifiuto di alcuni dipendenti operatori sanitari di sottoporsi alla vaccinazione anti COVID-19. Il datore di lavoro li colloca pertanto forzosamente in ferie.

I dipendenti in questione si rivolgono al locale Tribunale del Lavoro chiedendo in via d’urgenza (articolo 700 CPC)  di poter continuare a svolgere le ordinarie mansioni.

Il tutto sul presupposto in base al quale i lavoratori in questione svolgevano mansioni ad alto rischio di contagio.

Va considerato come l’articolo 32 della Costituzione disponga che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Ma a questo punto, secondo chi scrive va rimosso un equivoco.

Nel caso del vaccino di personale sanitario ad alto rischio di contagio, non si tratta di un obbligo, ma bensì di una condizione di sicurezza per poter lavorare.

L’obbligo cui allude la Costituzione è quello dotato di un’assolutezza totale per cui il soggetto deve in ogni modo, anche costretto con la forza aderire.

Nel caso di specie, si tratta esclusivamente di una condizione o meglio di un onere che incombe su chi voglia esercitare in determinate condizioni una professione sanitaria.

TRIBUNALE DI BELLUNO n. 12/2021 R.G. Il Giudice sciogliendo la riserva assunta con verbale di trattazione scritta in data 16.3.21; ritenuto che risulta difettare il fumus boni iuris, disponendo l’art. 2087 c.c. che “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “; ritenuto che è ormai notoria l’efficacia del vaccino per cui è causa nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS -CoV-2, essendo notorio il drastico calo di decessi causati da detto virus, fra le categorie che hanno potuto usufruire del suddetto vaccino, quali il personale sanitario e gli ospiti di RSA, nonché, più in generale, nei Paesi, quali Israele e gli Stati Uniti, in cui il vaccino proposto ai ricorrenti è stato somministrato a milioni di individui; rilevato che è incontestato che i ricorrenti sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro; ritenuto che è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l’altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione; ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa – notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione – costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia; ritenuto, quanto al periculum in mora, che l’art. 2109 c.c. dispone che il prestatore di lavoro “ Ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro “; che nel caso di specie prevale sull’eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.; ritenuta l’insussistenza del periculum in mora quanto alla sospensione dal lavoro senza retribuzione ed al licenziamento, paventati da parte ricorrente, non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento; ritenuto che, attesa l’assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, sussistono le condizioni di cui all’art. 92 co. II c.p.c. per compensare le spese processuali. P.Q.M. visto l’art. 700 c.p.c.; 1. rigetta il ricorso

Vaccinazioni anti COVID 19 e poteri del datore di lavoro.

Le FAQ del Garante sul trattamento dei dati sulla vaccinazione nel contesto lavorativo.

Con la nota del 17 febbraio 2021 il Garante per la Privacy ha fornito mediante delle FAQ delle indicazioni in merito all’applicazione del GDPR (Regolamento Generale Protezione Dati)  all’atto delle vaccinazioni.

Ci troviamo in un ambito di diritto che attiene di sicuro la salute e la vita privata del cittadino lavoratore, ma che involge necessariamente aspetti di protezione pubblica.

Le FAQ, infatti, rispondono ai quesiti che vengono di seguito riportati:

  1. Il Datore di lavoro può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione?

Ha ritenuto il Garante che al Datore di lavoro non è concesso chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sull’avvenuta vaccinazione, né di consegnare copia dei relativi documenti.  Non è, infatti, ritenuto lecito ai sensi della disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tenuto conto inoltre del Considerando n. 43 GDPR, il Garante ha ritenuto che il consenso fornito dai dipendenti non costituisca una valida condizione di liceità del trattamento, stante la situazione di squilibrio nell’ambito del rapporto tra il soggetto titolare e il soggetto interessato nel contesto lavorativo.

Dunque il datore di lavoro non può acquisire dati e informazioni relativi allo stato di vaccinazione dei dipendenti anche in caso di consenso prestato da questi ultimi.

  • Il Datore di lavoro può chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati?

Ha ritenuto il Garante che il medico competente non è autorizzato a fornire al Datore di lavoro alcun dato relativo ai nominativi dei dipendenti che abbiano sostenuto il vaccino. L’attività di trattamento di questi dati è esclusivamente concessa allo stesso medico competente nell’ambito delle attività di sorveglianza e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica del lavoratore.

E’ invece, consentita al Datore di lavoro l’acquisizione dei giudizi di idoneità alla mansione specifica e le prescrizioni/limitazioni colà indicati.

3) La vaccinazione anti Covid-19 dei dipendenti può essere richiesta come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni (ad es. in ambito sanitario)?

Sul punto che appare abbastanza delicato anche in assenza di indicazioni legislative ed anche in relazione a determinate mansioni ove rileva la situazione sanitaria e di immunità del dipendente, il garante si richiama a quanto disposto dall’articolo 279 del DLGS 81/2008.

Stabilisce il predetto articolo che:

 I lavoratori addetti alle attività per le quali la valutazione dei rischi ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria.

2. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:

a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente;

b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42.

3. Ove gli accertamenti sanitari abbiano evidenziato, nei lavoratori esposti in modo analogo ad uno stesso agente, l’esistenza di anomalia imputabile a tale esposizione, il medico competente ne informa il datore di lavoro.

4. A seguito dell’informazione di cui al comma 3 il datore di lavoro effettua una nuova valutazione del rischio in conformità all’articolo 271.

5. Il medico competente fornisce ai lavoratori adeguate informazioni sul controllo sanitario cui sono sottoposti e sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione dell’attività che comporta rischio di esposizione a particolari agenti biologici individuati nell’allegato XLVI nonchè sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione.

Nonostante l’espressa previsione dei vaccini come strumenti di sicurezza, di fronte a determinate situazioni a rischio, il Garante ha comunque ribadito come spetti comunque al medico competente il trattamento di questi dati, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie e la decisione in merito all’idoneità alle specifiche mansioni.

Sarà quindi il medico competente a fungere da raccordo tra dette esigenze ed il datore di lavoro ed a richiedere a quest’ultimo la parziale o totale inidoneità del lavoratore dipendente.

In ogni caso, il Garante sul punto auspica un intervento normativo che consente sul punto un adattamento del regolamento alla situazione in atto.

Fabio Petracci.

Alte professionalità

Il piano Colao e la funzione strategica del Middle Management nella Pubblica Amministrazione. Il ruolo dei quadri.

Nel mese di aprile, in piena pandemia, il Comitato Colao, era presentato dall’allora Presidente del Consiglio come un gruppo di esperti con il compito di ripensare i radicati modelli organizzativi sociali e di vita economica per la ripartenza del paese.

Il documento venne sintetizzato in 102 schede, alcune misure sono state avviate dal governo. Altre e per la gran parte sono ancora allo stato di progetto e potrebbero in qualche modo essere valutate dal nuovo esecutivo anche in funzione del Recovery Plan.

Il Comitato per attuare il piano di rilancio suggerisce degli interventi incisivi sui settori principali del sistema amministrativo e socio economico del paese, tra questi, uno degli snodi più importanti è individuato nella pubblica amministrazione. Si vuole nelle intenzioni del Comitato creare una Pubblica Amministrazione alleata di cittadini ed imprese, per facilitare la creazione di lavoro, l’innovazione e migliorare la qualità della vita di tutte le persone.

E’ sottolineato come la Pubblica Amministrazione soffra da tempo di una situazione di inefficienza, soprattutto al confronto con gli altri paesi europei.

Le cause vengono in parte  individuate in una cultura che privilegia le procedure rispetto ai risultati e contribuisce ad un rallentamento dell’azione amministrativa ed a una qualità dei servizi al di sotto dei migliori standard internazionali.

E’ stato anche evidenziato come la Pubblica Amministrazione faccia un uso ancora limitato di strumenti digitali e si ritrovi con una forza lavoro più anziana (l’età media dei dipendenti è la più alta dei paesi OCSE), meno istruita rispetto alla media europea e sbilanciata verso le competenze giuridiche. Infine, si denuncia come le strutture soffrano di una limitata capacità di rinnovamento di competenze anche a causa di una spesa in formazione estremamente ridotta e di una scarsa valorizzazione del merito e delle competenze. Tutto ciò è visto come un fattore che influenza negativamente il rapporto di fiducia con i cittadini e con le imprese, che percepiscono la PA come scarsamente efficace ed efficiente.

Per questo il Piano invoca una rapida trasformazione della nostra Pubblica Amministrazione verso l’auspicata efficienza e modernizzazione.

Le misure economiche che a breve saranno adottate dalla Comunità Europea impongono un tanto sia come presupposto di ogni altro intervento, sia come obiettivo.

E’ stato pertanto ritenuta fondamentale un’attenta gestione e valutazione delle politiche finanziate con fondi europei, i quali assumeranno un ruolo ancora più centrale nei prossimi anni.

Il piano auspica inoltre la raccolta e l’utilizzo dei dati statistici e amministrativi, anche ai fini di consentire le valutazioni della politiche, rivedendo l’attuale normativa per renderne più agevole l’accesso per fini di ricerca, nonché il superamento della “burocrazia difensiva”. Esso consiglia quindi di intervenire per riformare la responsabilità dei funzionari e dirigenti pubblici per danno erariale in casi differenti dal dolo, e/o prevedere che il premio assicurativo (compreso quello per l’assistenza legale da parte di un professionista scelto dal dirigente) venga pagato dall’amministrazione di appartenenza.

E’ parte del progetto anche il rafforzamento della cyber difesa. Si vorrebbe quindi dotare l’Italia di un sistema di cyber difesa di eccellenza, per potenziare in misura significativa la capacità di prevenzione, monitoraggio, difesa e risposta, in linea con i migliori standard internazionali. Un tanto presuppone un forte incremento di risorse umane qualificate e investimenti su infrastrutture e dotazioni tecnologiche degli organismi preposti (comparto intelligence, Polizia postale e delle comunicazioni, Difesa, principalmente), nonché la creazione di un regime personale speciale per i tecnici specializzati all’interno delle amministrazioni per permettere maggiore, rapidità ed efficacia di reclutamento di risorse scarse sul mercato e altamente contese.

Tutti questi progetti è giocoforza che presuppongano un appropriato piano di reclutamento delle risorse umane e di valutazione delle competenze, rafforzando contestualmente la formazione continua del personale.

Il piano reputa fondamentale la costituzione ed il rafforzamento di un middle – management pubblico.

Nello specifico auspica come le diverse amministrazioni dovrebbero identificare le figure del middle management più suscettibili di beneficiare di interventi formativi di tipo manageriale.

Il piano espone come il «middle-management» soprattutto nel settore pubblico sia lo snodo chiave perché iniziative di modernizzazione e digitalizzazione abbiano successo. Alle competenze tecniche dei dipendenti si devono affiancare competenze manageriali diffuse.

Il «middle management» può essere così un acceleratore dell’innovazione invece che costituire un freno insuperabile sui processi rispetto alle competenze esterne.

Constata come già esistano quadri intermedi validi e facilmente professionalizzabili con interventi formativi, ma spesso ignorati e non premiati. Ritiene quindi come si debba sviluppare un piano articolato ma rapido per:

a. Identificare nell’ambito delle diverse amministrazioni le figure di middle management più suscettibili di beneficiare di interventi formativi di tipo manageriale (ruolo, età, competenze pregresse, segnalazione di interesse a ruoli manageriali)

b. Avviare iniziative formative mirate al middle management della PA, tenendo conto che una parte del processo formativo avviene anche attraverso «social learning» e scambio di esperienze tra i discenti. Nella scelta dei corsi formativi, bisogna dunque prediligere percorsi strutturati con un approccio orientato alla risoluzione di problemi più che alla teoria manageriale, e che permettano interazioni strutturate (idealmente in piccoli gruppi continuativi). Può essere utile a questo fine affiancare nello stesso corso quadri con background professionali differenti, e predisporre l’utilizzo di piattaforme di e-learning digitali che riescano a supportare questo tipo di interazioni (piuttosto che approcci di lezione frontali e passivi).

c. Prevedere incentivi anche non monetari (progressione in carriera, incarichi, autonomia decisionale, iniziative strutturate di mentoring e coaching) per quanti si rivolgono a queste iniziative formative e dimostrano di aver acquisito nuove o più solide competenze nella gestione delle risorse e nella promozione dell’innovazione nella PA. d. Strutturare i percorsi formativi in modo tale che sia possibile valutarne l’effetto causale sui discenti, calcolarne costi e benefici, e migliorarne l’erogazione nel tempo.

Di fronte a così autorevoli ed attuali sollecitazioni CIU Unionquadri, da tempo impegnata per il riconoscimento dei quadri nella Pubblica Amministrazione non può che ribadire e riproporre il proprio impegno a tale obiettivo.

Da lungo tempo CIU Unionquadri sostiene che la costituzione di un’area professionale intermedia nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato collocata tra la dirigenza e l’area definita non dirigenziale sia non solo una legittima aspettativa di molti pubblici dipendenti, ma una risposta alle esigenze di buon funzionamento della pubblica amministrazione.

L’istituto della Vice Dirigenza che trova origine con la legge 145 del 2002 (legge Frattini) dapprima non ha trovato attuazione da parte della contrattazione collettiva e quindi, stante la forte opposizione di talune forze sindacali, è stata abrogato.

Le esigenze di buona amministrazione che consigliano di tornare su questo tema sono in primo luogo quella di eliminare i costi della dirigenza diminuendone il numero dei componenti da limitarsi ai settori strategici. In secondo luogo, quella di istituire un assiduo ed intelligente controllo di prossimità sul personale, evitando così gli episodi scandalosi di assenteismo che hanno interessato numerose pubbliche amministrazioni.

In secondo luogo vi è la possibilità di destinare quest’area come sbocco naturale per il personale apicale non impiegatizio impegnato in funzioni di innovazione ed eccellenza.

Coronavirus

COVID19 – Cosa accade se il lavoratore rifiuta il vaccino?

L’avvio delle vaccinazioni anti COVID 19 nonché le preesistenti polemiche in merito all’obbligatorietà dei vaccini con le prese di posizione dei movimenti no vax, hanno reso quanto mai attuale la posizione etica ma anche legale di quanti rifiutano il vaccino.

La questione si pone in maniera del tutto peculiare nell’ambito dei rapporti di lavoro.

Trattasi di un ambito contrattuale che involge diversi aspetti di interesse pubblicistico e sociale.

Già al manifestarsi della pandemia, si poneva il problema della speciale protezione che sarebbe spettata a quanti lavoravano nel corso della stessa.

L’articolo 42 del DL 18/2020 emanato in piena emergenza introduceva il contagio da COVID 19 tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL, accanto alla quale si pone anche a titolo di colpa la responsabilità del datore di lavoro.

In ogni caso l’articolo 2087 obbliga il datore di lavoro, anche di fronte all’incertezza ondivaga della scienza di garantire ai propri prestatori il massimo della sicurezza.

Nello stesso periodo, sindacati e datori di lavoro adottavano il  “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

In questo panorama emergenziale, si è ora inserito il vaccino anti COVID 19 come mezzo di prevenzione di elevata se non totale sicurezza.

Si pone quindi di fronte all’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei propri dipendenti in tutti i modi possibili, nonché di evitare che il proprio personale arrechi pregiudizi ai terzi , di esaminare la posizione del dipendente che rifiuta la copertura vaccinale.

Da molte parti si sostiene come, non esistendo un obbligo di legge per quanto concerne il vaccino ANTI COVID 19, nulla possa fare il datore di lavoro di fronte al rifiuto del lavoratore a vaccinarsi.

Altri invece, sostengono la facoltà del datore di lavoro di procedere al licenziamento del lavoratore che rifiuta il trattamento vaccinale.

Hanno avuto recente risonanza le opinioni del giuslavorista Pietro Ichino e del dottor Raffaele Guariniello già magistrato ed esperto di sicurezza sul lavoro.

Il professor Ichino nell’ambito dell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 29 dicembre 2020 ha affermato come l’articolo 32 della Costituzione che esclude ogni obbligo di trattamento sanitario che non sia imposto dalla legge, non scalfisca l’obbligo del lavoratore addetto a settori a rischio di doversi vaccinare contro il contagio da COVID 19.

Secondo il professor Ichino, la norma che impone al datore di lavoro di imporre ai propri dipendenti la vaccinazione anti – COVID c’è già: è l’articolo 2087 che non solo consente, ma in nome della piena sicurezza sul lavoro, impone al datore di lavoro di esigere l’obbligo vaccinale anti COVID 19.

L’affermazione dello studioso si basa sugli obblighi contrattuali che gravano sulle parti anche in forza dell’articolo 2087 del codice civile che richiede l’adozione di tutte le misure consigliate dalla scienza e dall’esperienza per assicurare la salute e il benessere di tutti i dipendenti  

In tal modo, l’obbligo vaccinale non si identificherebbe con un obbligo legale, ma semplicemente con un onere /requisito contrattuale che  consente di iniziare o proseguire la prestazione.

Secondo il professor Ichino, la mancata vaccinazione anti COVID 19 costituisce un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Quindi, allorquando sussiste un rischio apprezzabile di contagio, il datore di lavoro può condizionare la prosecuzione del rapporto di lavoro alla vaccinazione.

Semplificato in tal modo, il ragionamento sicuramente più complesso dello studioso, porta a ritenere che il soggetto per la legge è libero di non vaccinarsi, ma qualora voglia assumersi un determinato obbligo contrattuale che richiede dei requisiti imprescindibili di sicurezza, tale adempimento ben possa essere richiesto dalla controparte.

Ad analoghe conclusioni, ma incentrate principalmente sulla normativa in tema di sicurezza sul lavoro e di sorveglianza sanitaria, perveniva il già noto magistrato e studioso di sicurezza sul lavoro Raffaele Guariniello.

L’ex procuratore della Repubblica perviene ad analoghe conclusioni citando anche l’articolo 279 del Testo Unico sulla Sicurezza negli Ambienti di Lavoro, DLGS n.81/2008 che prevede in modo specifico l’obbligo per il datore di lavoro, soprattutto in determinati settori a rischio,  di richiedere la vaccinazione del dipendente nel caso di rischio di infezione derivante da agente biologico presente nella lavorazione, applicandosi in tal caso la norma al rischio grave di infezione derivante dalla compresenza di diverse persone in uno spazio chiuso soprattutto in determinate circostanze di pandemia.

In questo caso, ritiene il Procuratore della Repubblica Guariniello che se il rifiuto di vaccinazione non è ragionevolmente motivato, deve adottarsi il provvedimento più appropriato.

In tal caso, potrebbe prospettarsi la sospensione dal lavoro senza diritto alla retribuzione del dipendente ingiustificatamente renitente sino a quando la pandemia non sia cessata, e nei casi più gravi, il licenziamento dello stesso.

Più articolate e spesso difformi altre importanti posizioni anche di recente emerse.

L’attuale Presidente della Corte Costituzionale dottor Giancarlo Coraggio nell’intervista rilasciata a TGCOM 24 del 30.12.2020, ha affermato come la possibilità e quindi l’obbligo di trattamenti sanitari obbligatori sia previsto dalla Costituzione, ma come, in ogni caso, per attuarlo, anche in ambito lavorativo, sia necessaria una legge.

Egli ritiene come per ora ed in attesa della certezza dei dati scientifici, tale obbligo sia principalmente morale.

Egli ritiene quindi che, in assenza di una legge, non sia possibile procedere al licenziamento del dipendente che rifiuta di vaccinarsi.

Altrettanto interessante ed aperta a diverse soluzioni è l’opinione espressa dall’avvocato Gabriele Fava componente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti espressa sul sito “formiche.net”.

Quivi si parte dall’orientamento espresso nella sentenza 258/1994 della Corte Costituzionale dove in tema di trattamenti sanitari si vuole contemperare i diritti del singolo con quelli della collettività.

Su tale base, si riafferma la piena precettività dell’articolo 32 della Costituzione che però è destinato a bilanciarsi con il diritto alla salute e con la libertà di impresa.

Tale opera di bilanciamento, secondo l’autore, è affidata all’articolo 2087 del codice civile norma aperta alla maggior difesa possibile della salute, della sicurezza ed anche della tutela morale nell’ambito del lavoro.

In tal senso, le soluzioni vengono affidate alla valutazione della tipologia del lavoro, al rischio connesso, auspicandosi comunque un intervento legislativo.

Ad avviso di chi scrive, la questione non può essere affrontata in termini di contrapposizione ed un tanto risulta anche dai qualificati interventi che precedono.

E’ pur vero che l’articolo 39 della Costituzione esclude l’obbligo di trattamenti sanitari qualora gli stessi non siano imposti dalla legge.

Nel caso di specie, non di obbligo in realtà si tratta, ma di un semplice onere in ragione dell’obbligo contrattuale assunto.

Dunque la questione non deve essere vista sotto l’aspetto meramente disciplinare o sanzionatorio che potrebbe portare al licenziamento per giusta causa, ma sotto l’aspetto dell’idoneità del contraente a svolgere in sicurezza per sé e per gli altri la mansione contrattualmente dedotta.

Sulla base di questa considerazione, particolare attenzione va posta all’obbligo di prestazione che il dipendente si assume ed al corrispondente obbligo contrattuale e di legge di garantire la salute che incombe sul datore di lavoro.

Vi sono degli ambiti professionali dove la tutela della altrui salute assume un ruolo determinante nella causa del contratto.

Altri dove la salute del lavoratore è costantemente ad alto rischio.

Parliamo in primo luogo delle professioni sanitarie, ma possiamo anche menzionare professioni di contatto quali la scuola o la sicurezza.

L’obbligazione che si assume un medico, un infermiere, un qualunque sanitario di qualsiasi livello o altro lavoratore è quella di operare senza danno per sé e per gli altri a tutela della salute.

Dunque l’immunità è prima di tutto un requisito professionale, come il brevetto per il pilota o per il macchinista dei treni, la patente per il camionista, la buona condotta per il carabiniere o la guardia giurata.

Il venir meno di questi requisiti rende la prestazione impossibile o addirittura inesigibile, a prescindere dal rifiuto più o meno legittimo a sottoporsi al vaccino anti COVID 19.

Se è vero che non sussiste un obbligo legale per il cittadino di sottoporsi al vaccino in questione e che lo stesso non può essergli a maggior ragione imposto dal datore di lavoro, possiamo arguire che difficilmente su tale base potrà individuarsi una giusta causa di recesso in quanto il lavoratore non ha infranto obbligo disciplinare alcuno.

Nondimeno, l’assenza della relativa immunità, senza costituire colpevole violazione disciplinare, viene a rompere il sinallagma contrattuale che prevede l’idoneità fisica anche sotto l’aspetto della profilassi sanitaria per svolgere quelle specifiche mansioni, per cui si verificherà l’impossibilità sopravvenuta alle stesse che potrà comportare la sospensione senza retribuzione, il trasferimento ad altre mansioni ove fattibile, o in estrema soluzione, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

E’ questa la soluzione di sintesi e riflessione delle qualificate opinioni che sono state espresse in materia.

Sul piano pratico cui tutte le nostre riflessioni poi tendono, nel caso in cui un lavoratore rifiuti la vaccinazione anti COVID 19, sarà opportuno valutare il settore nel cui ambito si svolge la situazione, la possibilità di una rapida e conveniente sostituzione, e ove si ravvisi l’assoluta necessità di procedere valutare dapprima un periodo di sospensione non retribuita per la durata della pandemia e, in casi estremi, procedersi al licenziamento.

In quest’ultimo caso, il recesso potrà adottarsi per giustificato motivo oggettivo dato dall’impossibilità della prestazione.

Il recesso per giustificato motivo soggettivo presuppone invece un inadempimento contrattuale e quello per giusta causa una mancanza disciplinare. In questo caso, in assenza di prescrizioni collettive o disciplinari e di norme di legge cogenti, il percorso potrebbe presentarsi maggiormente difficoltoso.

Fabio Petracci.

Presidente Centro Studi di CIU Unionquadri Corrado Rossitto.

Coronavirus

Decreto Agosto – conversione in legge – le novità in materia di diritto del lavoro.

Con la legge 13 ottobre 2020 n.126 è stato convertito in legge il decreto legge 14 agosto 2020 n.104 (decreto agosto).
Sono state così introdotte in tema di lavoro alcune novità che si segnalano.
Restano in vigore:
La CIG COVID sino al 31.12.2020.
Il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo prorogato sino al 31.12.2020, con la possibilità di licenziare con tale causale per chi prima di quella data abbia esaurito le 18 settimane di CIG.

Novità.

I contratti a termine possono sino al 31.12.2020 essere prorogati per una sola volta e senza causale sino al 31.12.2020.

I contratti di somministrazione (interinale) sino al 31.12.2020 possono essere prorogati con la medesima persona oltre ai 24 mesi, purchè il medesimo lavoratore venga assunto a tempo indeterminato dall’agenzia somministratrice che ne deve dare comunicazione scritta all’utilizzatore.

Lavoro Agile deve essere concesso a chi abbia figli in quarantena per contagi avvenuti in ambito scolastico o sportivo-

Congedo Straordinario per gli stessi qualora sia inattuabile il lavoro agile.

Lavoratori Fragili collocazione in malattia sino al 31.12.2020 poi destinati al lavoro agile.

Scuola, personale docente ed ATA assunto quale organico COVID con contratto a tempo determinato per l’anno scolastico 2020/2021 in caso di Lock Down della scuola proseguirà con rapporto di lavoro agile.

Coronavirus

CORONAVIRUS – COVID 19 e rischi penali del datore di lavoro.

E’ insistente ed attuale la polemica che paventa una responsabilità penale del datore di lavoro, qualora il dipendente contragga sul posto di lavoro il contagio da COVID 19.

Alla base della discussione, troviamo l’articolo 42 comma 2 del DL 18/2020 che introduce questa particolare forma di contagio tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL.

La definizione di infortunio sul lavoro che ne dà la legge non rispetta la tradizionale differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale.

Si ritiene infatti nell’ambito della medicina legale come l’infortunio sul lavoro sia un evento traumatico e repentino che causa un problema di salute al lavoratore, nel mentre la malattia professionale consiste in una patologia connessa alle condizioni di lavoro.

Nel caso di specie, le condizioni di lavoro sono date dal contatto con il virus determinato dalla tipologia del lavoro.

Possiamo avere un contatto tipico e specifico, come nel caso del personale sanitario di qualsiasi qualifica e specie e del personale di soccorso e controllo delle disposizioni sanitarie, come pure un’esposizione che potremmo definire generica di chi è costretto a lavorare con il pubblico nell’ambito di una pandemia.

La malattia può avere una durata relativamente breve e comportare la definitiva guarigione, può comportare delle conseguenze talora permanenti o l’esito infausto del decesso.

La particolarità della pandemia.

Le cause e le circostanze materiali che determinano il contagio sono solo parzialmente acclarate, come pure i mezzi ed i dispositivi per prevenire il contagio.

Infortunio o più propriamente malattia contratta nell’ambito della prestazione, all’INAIL compete il relativo trattamento che può essere il pagamento delle giornate di assenza e le relative cure, come pure il risarcimento di danni permanenti o addirittura il danno e l’indennizzo  da decesso.

La responsabilità civile del datore di lavoro.

Accanto all’INAIL sussiste pur sempre la responsabilità del datore di lavoro per il danno differenziale e gli ulteriori pregiudizi alla salute, oltre ai danni di natura non patrimoniale.

Sino a qui anche se abbiamo citato una norma di legge che prima non c’era e legata all’emergenza, la situazione appare normale.

Si pone invece la difficoltà interpretativa e l’originalità della stessa di fronte ad uno scenario scientifico e di prevenzione in piena evoluzione e denso ancora di incertezze.

Quindi se i virologi non sono ancora in grado unanimemente di consigliarci senza ombra di dubbio l’uso della mascherina, al datore di lavoro ed intendiamo qui il datore di lavoro onesto e diligente, è affidato il compito più gravoso di individuare cause e mezzi protettivi, laddove i dubbi non sono ancora chiariti.

In primo luogo, incombe sul datore di lavoro una responsabilità civile come parte contrattuale.

Egli, in base all’articolo 2087 del codice civile è obbligato a garantire ai propri prestatori di lavoro, il massimo possibile della sicurezza.

Essendo il rapporto di lavoro a tutti gli effetti un contratto, egli deve garantire tale adempimento e provare, qualora citato in causa, di aver fatto tutto il possibile per adempiere a tale obbligo.

In caso contrario, non ci sarà sanzione alcuna in senso tecnico, ma esclusivamente il risarcimento di danni anche cospicui.

La responsabilità penale del datore di lavoro.

Scatta comunque anche la responsabilità penale per lesioni o morte sul lavoro.

Quivi normalmente la responsabilità è dovuta a colpa.

La colpa consiste allorquando si accerti la sua negligenza, imprudenza, inosservanza di leggi e regolamenti, ordine e discipline.

In entrambi i casi sia di responsabilità civile che penale è necessario che la fattispecie di danno possa essere fatta risalire alla condotta accertata attraverso il cosiddetto nesso causale che lega l’evento al rapporto di lavoro.

A differenza della responsabilità civile, la responsabilità penale è esclusivamente personale (articolo 29 Costituzione).

Ciò significa che ne risponde soltanto di persona chi incaricato o delegato di assicurare tutte le cautele imposte.

La responsabilità civile, a differenza di quella penale, poggia su di una norma generale data dall’articolo 2097 del codice civile che non impone soltanto il rispetto di tutte le norme vigenti in materia, ma che come norma di chiusura generale impone al datore di lavoro anche la ricerca e la definizione di ogni cautela nominata ed innominata al fine di garantire salute e benessere ai propri dipendenti.

Su tale base una volta affermata la responsabilità civile del datore di lavoro, la responsabilità penale dovrà conseguire esclusivamente al mancato rispetto di norme a ciò delegate.

In una situazione del tutto inusuale ed anomala, dove la scienza non è ancora in grado di dettare i suoi principi al legislatore, l’ipotesi di responsabilità penale, fatto salvo il caso di violazione delle norme vigenti e l’accertamento del contagio in ambito lavorativo, prova che compete al lavoratore, la responsabilità penale appare abbastanza remota.

Il nesso causale, il contagio deve essere stato contratto sul posto di lavoro o in occasione di lavoro.

Altrettanto difficile sarà per il lavoratore dimostrare di aver contratto il virus sul posto di lavoro.

Egli dovrebbe disporre di una tracciabilità dei contatti, oppure dovrebbe ricorrere ad elementi presuntivi atti a dimostrare la contagiosità del posto di lavoro, come ad esempio l’alta percentuale di contagi in una determinata unità produttiva.

Qualche possibile soluzione.

Un’altra via da percorrere per avere da una parte certezza e dall’altra un incentivo a rispettare le regole, potrebbe essere rinvenibile sulla scorta del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Non va dimenticato che al fine di garantire l’effettivo rispetto della normativa concordata da sindacati e datori di lavoro al punto 13 è prevista l’esistenza di un apposito Comitato Aziendale per applicare e verificare le regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e degli RLS.

Per una maggior certezza, si potrebbe affidare a questi organismi un’apposita attività di certificazione che metta al riparo gli imprenditori seri da rischi penali.

Annullare del tutto l’ipotesi penale potrebbe rappresentare un incentivo al mancato rispetto delle regole.

Fabio Petracci.