L’interesse dei quadri ad un sistema di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende

Qualche novità nella legge di bilancio 2025.

L’articolo 1, comma 457 della legge di bilancio per il 2025 stanzia 70 milioni di euro per il 2025 e 7 milioni per il 2026 per la costituzione di un fondo per il finanziamento della partecipazione dei lavoratori al capitale alla gestione ed ai risultati di impresa.

Lo stanziamento viene incontro al progetto di legge già presentato dalla CISL nonché alle osservazioni formulate dal sindacato Unionquadri nel corso dell’audizione in tema di legge di bilancio tenutasi l’11 dicembre 2024.

Testualmente riportava il documento di Unionquadri presentato all’incontro con il Governo:

“In merito al coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale, ricordiamo come l’articolo 45 della Costituzione stabilisca il principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

Ricordiamo come l’articolo 4 della legge 92/2012 conteneva una delega per il governo a realizzare un tanto. La delega in realtà decadde per il mancato intervento del Governo.”

L’interesse sindacale per tale tema proviene in primo luogo da quelle parti sindacali che non intendono ricorrere a mere strategie di contrapposizione, favorendo anche momenti di collaborazione.

Per quanto riguarda Unionquadri, interesse di è anche dato dalla particolare collocazione professionale della categoria spesso vicina e quindi più sensibile alle vicende aziendali e spesso in grado di supportarne la gestione.

Non va peraltro dimenticato come nel nostro ordinamento l’articolo 46 della Costituzione riporti testualmente “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Il principio non è mai stato attuato.

Non va dimenticato come in diversi periodi di crisi economica, si sia tornato a riproporre il tema per promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese senza però ottenere risultati concreti.

Il principio della Cogestione.

Per affrontare in maniera anche sommaria il tema è innanzitutto necessario chiarire i termini con i quali vengono individuate diverse forme di partecipazione dei lavoratori alle vicende aziendali.

In primo luogo, ricordiamo la cosiddetta partecipazione agli utili (Gains Sharing) che consiste nella distribuzione degli utili ai lavoratori in base ad una quota individuale di partecipazione.

Questo istituto, a differenza di quello che definiremo Cogestione non prevede normalmente una partecipazione organizzata alla direzione dell’impresa.

Diverso, anche perché sviluppato in un contesto politico molto diverso da quello attuale è il concetto di autogestione delle aziende proposto nel dopoguerra nell’allora Jugoslavia da Milovan Djilas Edvard Kardelj e Boris Kidric e fatta propria dal governo di quel paese.

Il sistema in quest’ultimo caso, non presupponeva una reale democratizzazione del sistema politico ed economico nel persistere di un sistema a partito unico che ignorava la libertà economica e d’impresa e dunque, non pare rapportabile alle attuali esigenze.

Attualmente ed in sintesi, si possono individuare almeno quattro differenti tipologie di partecipazione dei lavoratori all’azienda:

  • quella di tipo “organizzativo/gestionale”, da intendersi come presenza di una rappresentanza dei lavoratori all’interno degli organi di controllo e decisionali dell’azienda (es. presenza di un rappresentante indicato o eletto dai lavoratori all’interno del Consiglio di Amministrazione);
  • quella di tipo “informativo/consultivo”, che può essere considerata come il diritto dei lavoratori (o meglio, dei loro rappresentanti) alla conoscenza dei piani aziendali passati, presenti e futuri, anche come condizione vincolante rispetto alle decisioni da assumere, con altresì possibilità di elaborare suggerimenti e controproposte;
  • quella di tipo “economico”, che mira a far partecipare i lavoratori meritevoli dei risultati e del benessere dell’azienda, promuovendo una parziale redistribuzione degli utili aziendali sulla base delle prestazioni effettivamente svolte dagli stessi lavoratori, rendendoli partecipi del successo dell’azienda;
  • quella di tipo “finanziario”, con la possibilità di accedere ad un azionariato diretto dei dipendenti delle aziende per cui lavorano, in modo da indirizzarle anche verso un assetto proprietario più condiviso, con forte responsabilizzazione e creazione di spirito d’appartenenza in capo ai singoli lavoratori.

La prima, di cui parleremo, da intendersi quale cogestione, è la forma più attiva e significativa di partecipazione dei lavoratori all’azienda.

Il modello tedesco.

Il sistema di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese trova le proprie origini nelle economie occidentali e principalmente in Germania.

Esso fonda le proprie radici nella Repubblica di Weimar (1919 – 1933) dove si cercò di realizzare l’eguaglianza capitale – lavoro sulla base di un patto sociale.

Era così riconosciuto ai lavoratori un ruolo centrale nell’ambito dei processi economici imprenditoriali mediante la possibilità di istituire “una rappresentanza legale nei consigli operai, nei consigli di distretto, nonché nel consiglio operaio nazionale.”

Su tale base, si instaurava un sistema a doppio canale di cui uno rappresentativo, sindacale e rivendicativo e l’altro partecipativo e gestionale soprattutto nelle grandi imprese definito “Mitbestimmung”.

Il sistema destinato a cadere con l’avvento del Nazionalsocialismo e con il secondo conflitto mondiale, riapparve e si stabilizzò alla fine della guerra attraverso l’approvazione di una serie di leggi federali.

Si evolvevano ed in parte confluivano parallelamente in tal modo il diritto societario, il diritto d’impresa e quello sindacale e del lavoro.

In tal modo tramite un doppio canale, i lavoratori partecipano alle decisioni della società attraverso due organi: il c.d. Consiglio di Fabbrica ed il c.d. Consiglio di Sorveglianza.

In particolare, il modello tedesco, noto come Mitbestimmung, è una vera e propria parte caratterizzante del sistema di relazioni industriali del paese.

Mitbestimmung può essere tradotto come “codeterminazione” e si riferisce ad una partecipazione paritaria di dipendenti, azionisti e dirigenti alla gestione della politica aziendale ed alle conseguenti decisioni.

In effetti, il modello tedesco prevede che l’economia e le strutture produttive lungi dal costituire esclusivamente un luogo di scontro di interessi configgenti tra capitale e lavoro, dessero invece vita ad una vera e propria “Gemeinschaft”, una “comunità” avente il fine comune di garantire benessere e prosperità per i suoi componenti.

La partecipazione dei lavoratori in Germania si compone di due livelli:

  • la “betriebliche Mitbestimmung”, partecipazione a livello di unità produttiva, che in Italia si potrebbe tradurre o intendere come “partecipazione o cogestione aziendale”;
  • la “unternehmerische Mitbestimmung”, partecipazione a livello di organi societari d’impresa, che indica la parte gestionale che è adibita all’impiego delle risorse prodotte dalla parte produttiva, traducibile come “partecipazione o cogestione societaria”.

A sottolineare il valore e l’importanza della partecipazione dei lavoratori, lo stesso art. 9 del Grund Gesetz, la Carta costituzionale varata nel 1949, dispone l’ordinamento e la pacificazione del mondo del lavoro mettendo sullo stesso piano sia la contrapposizione degli interessi sia la volontà comune di collaborazione.

Per tale motivo, le società in Germania sono soggette alla Mitbestimmung (co-determinazione) se impiegano più di 500 dipendenti.

Come già accennato i lavoratori partecipano alle decisioni della società attraverso due organi: il c.d. Consiglio di Fabbrica ed il c.d. Consiglio di Sorveglianza.

Se il primo rappresenta i lavoratori nelle singole sedi aziendali ed è formato interamente da dipendenti, il secondo è invece un organo aziendale che fa capo alla sede centrale, composto per metà dai rappresentanti dei lavoratori e per metà dagli azionisti.

Il modello Volkswagen.

Il più noto modello di partecipazione dei lavoratori all’impresa è quello del Gruppo Volkswagen.

Uno dei punti di forza del modello Volkswagen è sicuramente l’elevato grado di percentuale di lavoratori iscritti al sindacato IG METALL, che rappresenta buona parte dei dipendenti.

Il modello di relazioni industriali del Gruppo Volkswagen è improntato sulla Carta dei diritti dei lavoratori che la multinazionale tedesca ha sottoscritto a livello globale e che prevede forme intense di coinvolgimento partecipativo in tutte le aziende che fanno capo al gruppo, anche nei paesi diversi dalla Germania.

Detta Carta definisce i diritti d’informazione e di partecipazione e si pone come obiettivo quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia e rispetto tra le parti.

Tra i molti principi contenuti nella Carta, che richiama nei contenuti e nei principi gran parte delle Convenzioni OIL stipulate, è interessante leggere come il Gruppo Volkswagen riconosca espressamente il diritto di contrattazione collettiva e che di conseguenza il Gruppo Volkswagen e i sindacati o le rappresentanze dei lavoratori conducano insieme un dialogo sociale, di cui le contrattazioni collettive rappresentano una particolare forma.

Il sistema tedesco di cogestione delle aziende ha interessato la Comunità Europea.

La Cogestione nelle politiche comunitarie.

Le istituzioni europee nel corso degli anni 70 pensarono di poter agevolmente introdurre nei singoli stati il modello partecipativo tedesco, ma ben presto si videro costrette a compiere dei passi indietro anche a causa della profonda diversità delle relazioni sindacali nei diversi stati europei.

In ogni caso, le istituzioni comunitarie continuavano nell’obiettivo del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese, cercando di avviare un processo volto ad uniformare le discipline dei singoli stati dal punto di vista del diritto societario e delle relazioni industriali mediante numerose direttive volte perlomeno ad agevolare l’introduzione del modello partecipativo presente in Germania.

Si arrivò però soltanto ad una serie di direttive volta ad introdurre a livello comunitario obblighi di informazione e consultazione in materia di relazioni industriali finalizzate a favorire la partecipazione del personale alla gestione delle imprese.

Il processo si protrasse sino alle direttive relative alla Società Europea ed ai Comitati Aziendali Europei che consolidarono dei principi minimi di informazione e partecipazione nelle aziende nazionali aventi rilevanza europea.

La Cogestione nell’ordinamento italiano.

Per quanto riguarda invece l’Italia, nel tempo vi sono stati forti resistenze alla diffusione delle forme partecipative e pertanto l’art. 46 della Carta Costituzionale deve considerarsi come una norma rimasta sostanzialmente inapplicata.

Il codice civile all’articolo 2349 prevede l’ipotesi di assegnazione degli utili ai prestatori di lavoro delle società, anche mediante l’emissione di speciali categorie di azioni.

Lo stesso articolo prevede inoltre la possibile attribuzione ai dipendenti di diritti patrimoniali ed amministrativi con esclusione del voto nell’assemblea generale riservato agli azionisti.

In particolare, deve essere ricordato il tentativo operato dalla c.d. “Riforma Fornero”, legge n. 92/2012, la quale aveva delegato il governo ad adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 c. 62 legge n. 92/2012).

Tuttavia, anche tale intervento non ha trovato concreta e capillare attuazione.

A livello legislativo, il DLGS 11/2017 che tratta delle Imprese Sociali, il coinvolgimento dei lavoratori è indicato all’articolo 11 come elemento fondamentale e necessario.

Interessante nel dopoguerra ed anni successivi (1945 – 1971), il cosiddetto modello Olivetti, azienda nella quale era costituito un Consiglio di Gestione coinvolto nei processi industriali e di organizzazione del lavoro in un’azienda tanto radicata sul territorio, quanto proiettata sui mercati internazionali.

Conclusioni.

Oggi, anche grazie alle nuove sfide della digitalizzazione ed i recenti sviluppi dell’economia, con un passaggio a quella che è stata definita l’era della “condivisione” (sharing economy), potrebbero essere state gettate le basi per la revisione del modello conflittuale su cui, storicamente, si sono rette le relazioni industriali e dunque vi sarebbero concrete possibilità di un recupero dello strumento della partecipazione dei lavoratori all’impresa.

In effetti, con l’avvento della c.d. quarta rivoluzione industriale, uno degli effetti più rilevanti è stato quello di considerare non più la prestazione lavorativa nella sua mera esecuzione materiale, quindi come mera collaborazione passiva, strettamente legata alle mansioni assegnate al lavoratore bensì la necessità di una vera e propria partecipazione attiva da parte dei lavoratori nella generazione dei valori aziendali.

In effetti, il modello storico delle relazioni industriali è principalmente basato sulla forte asimmetria tra potere direttivo e dovere di collaborazione, fondato sulla prerogativa dell’imprenditore di dirigere l’azienda in coerenza al principio di libertà di iniziativa economica privata, considerando i rischi assunti esclusivamente a carico dell’impresa stessa.

Oggi, la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle vicende d’impresa potrebbe da un lato attenuare gli effetti del disequilibrio in termini di condizioni di lavoro e, dall’altro, essere ulteriore strumento di eventuale modifica dell’esercizio del potere direttivo in una chiave maggiormente collaborativa, tenuto dovuto conto altresì dell’evoluzione ed attenuazione del concetto di subordinazione registratosi negli ultimi anni.

UNIONQUADRI sindacato dei quadri direttivi, professionisti e ricercatori delle aziende rivolge la propria attenzione agli importanti mutamenti che coinvolgono la tecnologia, l’economia ed il mondo del lavoro e si pone come tramite tra le fasce di lavoratori maggiormente professionalizzate e le direzioni aziendali in un’ottica di collaborazione nell’interesse dell’azienda intesa anche come comunità.

Ne deriva l’interesse di UNIONQUADRI per ogni forma utile di incontro tra interessi del lavoro e dell’impresa.

avv. Fabio Petracci

Le nuove figure professionali: l’HSE, Health, Safety, Enviroment Manager

CIU UNIONQUADRI, Associazione Sindacale interessata alle figure medio – alte di lavoratori ed alla tutela della loro professionalità, affronta il tema dell’HSE Manager.

Trattasi di una figura che riveste una grande importanza all’interno dell’azienda ed è una figura emergente nel campo della sicurezza.

La funzione professionale dell’HSE Manager è definita in modo chiaro nel 2018 con la norma UNI 11720.

Questa figura si occupa in ambito aziendale principalmente di salute, sicurezza, ambiente. La norma UNI 11720 cui si è fatto prima riferimento descrive in maniera dettagliata i compiti dell’HSE.

La sigla HSE significa “Health, safety, enviroment”, quindi salute, sicurezza, ambiente.

Potremmo quindi definirlo come un soggetto professionale la cui competenza va oltre la mera sicurezza sul lavoro intesa in senso strettamente tecnico per involgere la sicurezza dell’intera produzione e dell’ambiente.

In concreto, l’HSE Manager si occupa di progettazione, coordinamento, consulenza, supporto tecnico gestionale.

In particolare, la normativa UNI 11720 della Comunità Europea distingue due differenti profili di HSE Manager:

  1. Manager HSE operativo con compiti di supporto ed organizzazione, nonché di apprestamento delle misure di prevenzione;
  2. Manager HSE Strategico quale figura gestionale di direzione aziendale con compiti di indirizzo delle misure da mettere in atto in funzione di prevenzione dei rischi in ambito HSE.

Tale figura professionale, il cui ruolo sarà anche rapportato alle dimensioni dell’azienda pur non essendo regolamentata a livello di ordine professionale, concretizza a livello legale e contrattuale la declaratoria di quadro ex articolo 2095 del codice civile e ben può organizzarsi in proprie associazioni professionali che ne tutelino ed attestino la professionalità.

CIU UNIONQUADRI, sindacato delle professionalità medio – alte nota come le nuove figure di lavoratori – professionisti che vanno emergendo nell’ambito del controllo aziendale e delle finalità etico – sociali delle imprese, anche inserite nell’abito delle obbligazioni che attengono al lavoro dipendente, assumano una posizione biunivoca nei confronti del datore di lavoro quali collaboratori, ma anche tutori di un interesse pubblico e, quindi, come il loro rapporto di lavoro assuma aspetti contrattuali di cui la normativa legale e contrattuale dovrà tenere conto.

Fabio Petracci

CIU Unionquadri partecipa all’apertura di un corso di alta formazione sul tema Bullismo e Cyberbullismo

Nell’ambito del corso di Alta Formazione sulla violenza nelle relazioni interpersonali, si è svolto promosso dalla associazione Lybra, in data 25 settembre 2024 presso il Palazzo Ferro Fini sede del Consiglio Regionale del Veneto, un incontro di apertura sul tema del Bullismo e del Cyberbullismo e della violenza di genere.

Erano presenti gli operatori del settore dal volontariato alle forze dell’ordine, ivi compresi i sindacati delle forze di polizia, nonché autorità politiche ed amministrative. Importante pure la presenza di persone coinvolte in episodi di bullismo che hanno fornito importanti testimonianze del vissuto.

Presente su invito anche una delegazione di CIU Unionquadri con il Vicepresidente Fabio Petracci, Marco Ancora Responsabile del Settore Cultura dell’Associazione e iGerarda Urciuoli che con Unipromos segue la sede di Trieste per quanto attiene il Benessere Lavorativo.

Nel corso dell’ampia discussione, Fabio Petracci per CIU Unionquadri ha evidenziato i molteplici tratti comuni tra le forme di violenza trattate e quelle esistenti negli ambiti lavorativi come il Mobbing e lo Stress Lavoro correlato, sottolineando come in realtà esista un unico problema generatore dato dalla violenza nelle relazioni interpersonali da non confondersi con l’autorità ed i necessari rapporti gerarchici e organizzativi, sottolineando sul tema, la fattiva collaborazione tra CIU Unionquadri e Lybra.

Marco Ancora responsabile del comparto cultura di CIU Unionquadri ha sottolineato le implicazioni culturali e sociali che emergono e condizionano i rapporti interpersonali, soprattutto in periodi di novità tecnologiche ed informatiche.

L’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro?

In sintesi approssimativa, potremmo definire l’intelligenza artificiale come la facoltà e l’abilità di delegare ad una macchina le capacità umane di apprendimento, ragionamento, creatività.

In concreto e grazie all’acquisizione di queste doti, l’intelligenza artificiale riesce a pianificare ragionamenti e azioni adattandovi il relativo comportamento.

In maggior dettaglio, l’intelligenza artificiale consente non solo l’acquisizione di dati e informazioni, ma anche l’interazione con l’esterno mediante il raggiungimento di obiettivi ed il rispetto di vincoli anche al fine di appropriate decisioni, realizzando l’intelligenza artificiale veri e propri processi decisionali.

Come si confronta una simile evoluzione con il mondo del lavoro?

L’attuale mondo del lavoro è segmentato per categorie (articolo 2095 del codice civile – contrattazione collettiva) che rispecchiano il livello di professionalità di ciascun soggetto.

Partiremo dalla rivoluzione informatica che in qualche modo è intervenuta principalmente sulle professionalità medio – basse, permettendo l’immagazzinamento di ogni tipologia di dati e la loro diffusione per preconizzare gli effetti dell’intelligenza artificiale destinata a gestire e sostituire l’azione intellettuale.

Come è destinata a rapportarsi con il mondo del lavoro?

Da quanto si qui esposto, gli effetti dell’intelligenza artificiale paiono destinati a ripercuotersi su ogni tipo di professionalità, ma in particolare su quelle medio – alte, quali quadri, dirigenti, professionisti con tutta una serie di opportunità e rischi che andremo ad esaminare.

Il primo aspetto che prende corpo è quello della sostituzione robotica che potrebbe coinvolgere molti soggetti anche qualificati del mondo del lavoro.

Ma, anche altre problematiche sono indotte dal cambio degli schemi e delle metodologie del lavoro.

Ci riferiamo a quel fenomeno che viene definito quale tecno stress, diritto alla disconnessione, invasività delle forme di lavoro a distanza, ma soprattutto dalla necessità per il lavoratore di doversi misurare e di dover seguire nuove impostazioni attuate dalla macchina.

Questa sfida non può naturalmente risolversi in un rifiuto del nuovo o magari in una iper regolamentazione delle attività.

Alcune correnti di pensiero come Ichino (relazione presentata al convegno promosso dall’Associazione Giuslavoristi Italiani, Torino, 15 settembre 2017) presentano una visione sostanzialmente ottimistica degli effetti del progresso tecnologico sul lavoro.

Afferma testualmente lo studioso “Sono portato a dar credito alla visione della “corsa tra automazione e creazione di nuovi mestieri” come un fenomeno ciclico: ogni ventata di innovazione tecnologica determina una riduzione del costo del lavoro che a sua volta incentiva l’invenzione di nuove funzioni da attribuire al lavoro umano, donde un freno ai nuovi investimenti in innovazione tecnologica”.

Si ravvisa invece la necessità di modificare il contesto lavorativo per evitare la spersonalizzazione dello stesso ed attuare misure idonee a sviluppare la potenzialità del capitale umano, quali la formazione continua, il benessere lavorativo, la specifica attenzione al lavoro intellettuale e soprattutto alle professionalità medio alte.

Grande importanza è attribuita dagli studiosi ed in particolare dal già citato Ichino al Welfare aziendale soprattutto sotto l’aspetto della formazione continua dei dipendenti atta ad evitare l’obsolescenza delle professionalità se non addirittura il riposizionamento del lavoratore nell’ambito del contratto di lavoro, favorendone l’evoluzione verso un contratto ibrido formato da due parti, una collettiva deputata alla tutela ed alla sicurezza ed un’altra di natura individuale attenta all’evolversi della professionalità ed ai relativi mutamenti.

Nel trarre queste conclusioni si ritiene che alla fine la tecnologia sia destinata a supportare il lavoro umano anziché a sostituirlo.

Viene così citata la telemedicina, i controlli che assistono un pilota d’aereo o di automobile mediante il computer, la possibilità di lavoro, grazie alle nuove tecnologie, di entrare nel mondo del lavoro anche per i disabili.

In sostanza, qualsiasi conclusioni si vogliano trarre non si può negare il ruolo di propulsione verso il nuovo e di salvaguardia della professionalità rappresentato dal Lifelong Learning come da raccomandazione del Consiglio d’Europa del 22 maggio 2018 (2018/C 189/01).

Fabio Petracci

Nuove frontiere dell’Economia e del Lavoro: dopo lo Smart Working arriva il Chronoworking

Si sente parlare di Chronoworking o di Crono- lavoro.

Qualcuno in maniera forse prematura intravede in questi termini una vera e propria rivoluzione per il mondo del lavoro.

Ci riferiamo al termine Chronoworking coniato dalla giornalista britannica Ellen Scott che ce lo presenta come un’evoluzione naturale del concetto di benessere sul posto di lavoro che dovrebbe accordare la prestazione con i bioritmi del lavoratore.

È forse presto per valutarne la portata e il destino soprattutto in termini così futuribili. Il concetto però va attentamente esaminato.

Ordinariamente, come sappiamo, il rapporto di lavoro si snoda e disciplina in termini di luogo e di tempo. In questo caso sarebbe operata un’importante rivoluzione.

L’autrice, come già accennato, opera un collegamento tra l’organizzazione della giornata lavorativa ed i bioritmi dei dipendenti.

Limitiamoci, per ora, a considerare il tutto come un fattore di libera organizzazione del tempo di lavoro.

Andiamo quindi a verificare l’ambito in cui si pone questo nuovo concetto di lavoro.

Se si vuole collegare il sorgere di questa tendenza a superare i rigidi termini di contenimento della prestazione lavorativa, il riferimento va al periodo post pandemico, allorquando l’organizzazione del lavoro era costantemente alla ricerca di moduli creativi per superare le difficoltà di contatto e trattenere il personale. Si proponeva così lo Smart Working, la settimana lavorativa ridotta ed altro, aprendo la strada a modelli ancora maggiormente creativi.

Lo stesso istituto del Lavoro Agile o Smart Working se rigidamente collegato agli orari di lavoro ed a regole rigide, assume un significato alquanto limitato.

Una volta sganciata la prestazione dal limite di luogo e quindi da un assiduo e costante controllo, è quasi automatico l’affidamento della stessa ad un orario verificabile, ma organizzato dal lavoratore, se non addirittura ad un semplice vincolo quantitativo e qualitativo di produzione da tradursi in un valore orario e quindi economico.

Il superamento di questi limiti sino ad oggi intrinseci alla prestazione di lavoro subordinato non ne esauriscono il concetto e pertanto si dovrà sempre parlare di rapporto di lavoro dipendente.

Essi appaiono infatti come una nuova forma di flessibilità.

Il termine flessibilità nell’ambito del lavoro evoca esperienze non sempre felici soprattutto per i prestatori di lavoro.

Dobbiamo però affrontare queste novità senza preconcetti per verificare se, ove la tipologia del lavoro lo renda possibile, l’organizzazione del tempo di lavoro affidata al dipendente non rappresenti non solo un miglioramento dell’organizzazione e della produzione, ma pure, al di là dei bioritmi, una migliore organizzazione della vita del lavoratore.

Ne dovrebbe quindi derivare una diminuzione dello stress che oggi connota molti rapporti di lavoro, consentendo ai dipendenti di lavorare in modo più equilibrato e sostenibile, aumentando la soddisfazione.

Appare evidente come una simile organizzazione del lavoro non possa coinvolgere tutte le tipologie di prestazione.

Ne risultano evidentemente esclusi tutti quei rapporti di lavoro che coinvolgono rapporti diretti con l’utenza e la clientela che ineriscono a schemi orari di contatto e presenza fisica, come pure i rapporti che presuppongono relazione di controllo e gerarchiche con altro personale.

Chiaramente la contrattazione collettiva non appare idonea a disciplinare una relazione di lavoro dove è il singolo lavoratore ad organizzare individualmente i tempi ed i modi della propria prestazione.

È altresì vero che la mancanza di una cornice di regolazione legale o collettiva potrebbe introdurre abusi e distorsioni.

Sarebbe quindi opportuno ricorrere ad una disciplina quadro di natura collettiva per poi regolare in maniera conforme gli accordi individuali.

Fabio Petracci

La stampa sull’inaugurazione del Centro di Ascolto sul Benessere lavorativo.

Riportiamo alcuni articoli della stampa dedicati all’inaugurazione del Centro di ascolto per il benesseere lavorativo.

  1. Nuovo centro di ascolto per il benessere lavorativo – Radio Capodistria 23.11.23;
  2. Inaugurato il nuovo Centro di Ascolto per il Benessere Lavorativo atto a favorire una cultura del Ben-Essere nei luoghi di lavoro – Il Friuli Venezia Giulia 23.11.23;
  3. GR Rai Regione FVG – 23.11.23 (nei titoli e al minuto 17)
  4. Non ci si può ammalare di lavoro’. Trieste, inaugurato il primo Centro di Ascolto per il Benessere Lavorativo –  Trieste News 01.12.2023;
  5. Il Piccolo – 24.11.23
  6. Primorski Dnevnik – 24.11.23




Rapporto tra reato di maltrattamenti e licenziamento

La Corte di Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza n. 38306/2023 si è pronunciata sulla vicenda di una titolare di negozio, nel dettaglio una parrucchiera, imputata per il reato di maltrattamenti fisici e morali, aggravati dalla condizione di gravidanza della dipendente, commessi nel corso del rapporto di lavoro, conclusosi peraltro con un licenziamento per giusta causa.

In particolare, si dibatteva del delitto di maltrattamenti nella declinazione del cosiddetto mobbing verticale ovverosia le condotte vessatorie e prevaricatorie poste in essere dal datore di lavoro (o da soggetto gerarchicamente sovraordinato) nei confronti del dipendente-persona offesa.

Le condotte vessatorie si erano protratte negli anni ed erano consistite in umiliazioni ed insulti alla presenza di clienti del negozio e colleghe di lavoro della vittima, nell’obbligo di lavorare gratuitamente oltre l’orario previsto, nell’ostacolare in tutti i modi la dipendente a restare incinta e portare a termine la gravidanza minacciandola di licenziamento se questo fosse avvenuto.

A livello penale non rileva la valutazione di legittimità del licenziamento per giusta causa pronunciata dal Tribunale del lavoro, in quanto “la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati“.

Infatti, il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private.

Al contrario, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con l’abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto.

OMS: inserito il burnout nell’International Classification of Diseases

Il termine inglese Burnout significa letteralmente “bruciato fuori” ed esprime con un’efficace metafora il “bruciarsi” del lavoratore ed il suo conseguente cedimento mentale e fisico, complici anche i progressi in ambito tecnologico che rendono i lavoratori reperibili in qualsiasi circostanza, impedendo loro di “staccare la spina” dal lavoro.

Questa condizione di stress lavoro correlato, definita “Burnout”, colpisce l’aspetto psicofisico del lavoratore rendendolo emotivamente instabile e, se non risolta, può favorire l’insorgenza di quadri depressivi e nevrotici.

A fronte di questa consapevolezza, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto ufficialmente il Burnout come sindrome occupazionale nella nuova Classificazione ICD, ovvero nella Classificazione Internazionale delle Malattie e dei problemi correlati.

L’OMS tiene a specificare che non è una condizione medica, sebbene possa essere curata, ma un fenomeno occupazionale e quindi strettamente legato alla condizione lavorativa, pertanto non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze negative in altri contesti.

Il burnout o “stress da lavoro” è la risposta ad uno stress emotivo cronico e persistente da riconoscere tempestivamente per essere curato.

Per diagnosticarlo, l’OMS ha fornito alcune direttive a cui medici e infermieri possono fare riferimento. Per quanto riguarda la sintomatologia, i lavoratori possono presentare:
• esaurimento psicofisico (spossatezza, debolezza energetica);
• isolamento dal lavoro, cinismo e sentimenti negativi (tendenza a considerare le persone come oggetti);
• ridotta efficacia professionale (perdita di significato del proprio operato e ridotta produttività).

Dopo aver valutato e riconosciuto i sintomi, l’OMS specifica che occorre escludere altri disturbi che possono presentare sintomi simili quali la depressione, il disturbo di ansia o di adattamento.

Sentiero, Consapevolezza, Alleanza: dissertazioni filosofiche per un modello di leadership eccellente

La prima parola è sentiero, inteso come percorso quotidiano di sviluppo e conoscenza.

Il sentiero rappresenta la metafora di un processo produttivo all’interno di un’azienda.

Il percorso deve essere delineato in partenza, con un elenco dettagliato di tempi, risorse ed azioni da compiere per raggiungere la meta pianificata, con la consapevolezza che i sentieri, in natura, così come i processi produttivi in azienda, possono presentare dei limiti, ostacoli non previsti né pianificati che ci obbligano a fermarci e a riflettere sulle possibilità per andare oltre quel limite.

E’ il momento in cui dobbiamo comprendere che il “problema/limite” non può essere superato con le stesse chiavi che lo hanno generato.

George Simmel, filosofo austriaco di origini ebraiche affermava: “noi conosciamo il nostro limite solo quando giungiamo alla consapevolezza di esso, superandolo”.

I limiti diventano quindi superabili solo nel momento in cui ne prendiamo coscienza, nel “qui ed ora”; prima non è possibile.

Il limite, osservandolo da un posizione diversa da quella a cui ognuno di noi è abituato – qualcosa di insuperabile – può diventare l’opportunità per uscire da schemi precostituiti, dalle cornici di cui siamo parte, un invito a guardare oltre, verso un cambiamento generativo che ci aiuti a ri-disegnare e costruire nuovi sentieri/percorsi possibili nelle nostre Organizzazioni.

Affinché questo cambiamento si realizzi, abbiamo bisogno, in natura come in azienda, di Guide che abbiano una visione chiara del percorso che stiamo attraversando, e allo stesso tempo il coraggio di fare scelte audaci, laddove è necessario, sostenute da un profondo senso di responsabilità, quando il sentiero ci obbliga a fermarci e a decidere quale strada percorrere.

Abbiamo bisogno di Guide consapevoli, che posseggano una cultura di ampio respiro, che non è fatta solo di saperi nozionistici ed intellettuali, ma di un saper essere integrato, in cui la cognizione di qualcosa si fa profonda, intima, identitaria, perfettamente armonizzata col resto della Persona, in un unicum coerente.

È quel tipo di sapere che dà forma all’etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche.

Guide che sappiano influenzare se stesse ed il proprio contesto professionale a partire da una profonda consapevolezza di sé, dei propri punti di forza e delle proprie aree di miglioramento.

Guide che sappiano esprimere una sintesi eccellente fra ciò che è presente nella vita personale e la strategia con cui sono in grado di adattarsi e di adattare a sé, in modo efficace, il proprio ambiente, costruendo un mondo al quale le Persone desiderano appartenere.

 La seconda chiave è il qui ed ora, la consapevolezza, intesa come conoscenza delle proprie competenze.

In questa descrizione, la consapevolezza è parte fondamentale delle competenze esistenziali; competenze in grado di migliorare il contatto e l’armonia con se stessi e con gli altri, di sviluppare creatività ed intuizione, e che diventano i semi per favorire un cambiamento profondo dentro le Organizzazioni.

Abbiamo quindi bisogno di Guide consapevoli, inclusive e partecipative, che vedano il Sistema Azienda come una rete di interconnessioni umane, mutuando il principio di interdipendenza della filosofia buddista, in cui ogni fenomeno non solo è strettamente collegato all’altro, ma ne è dipendente.

E poiché il contesto esterno muta costantemente, ogni elemento che lo compone cambia di conseguenza: il cambiamento quindi è intrinseco ed inevitabile nelle Organizzazioni, non solo un accadimento esterno, occasionale o incidentale.

Pensare quindi all’Azienda come un insieme di parti separate ed indipendenti ci rende ciechi al cambiamento; ed in questo periodo storico è di importanza fondamentale averne consapevolezza per gestirla al meglio.
Ogni singola parte di un’azienda dipende strettamente dal funzionamento di tutte le altre, è composta da elementi che si supportano e si condizionano a vicenda, creando un’unica fitta rete di legami, in cui la collaborazione tra le Persone e la condivisione di obiettivi consente di abbracciare la complessità del Sistema e rendere quell’Organizzazione vincente, perché basata su un NOI e non su un IO.

Infine il cardine su cui poggia la nostra vita, anche professionale, l’alleanza.

Per riprendere quindi il termine “alleanza”, vi propongo l’immagine della rete di Indra , tratta dal sutra buddista: “Sutra del diamante che recide l’illusione”.

In questo sutra, l’universo è visto come una enorme rete che si estende all’infinito per includere ogni aspetto dell’esistenza. Ad ogni punto di intersezione c’è una gemma che riflette tutte le altre.
Per quanto siano infinite, nessuna gemma esiste senza le altre o può essere considerata indipendente.

Se appare una gemma, appaiono tutte, e se non ne appare una, non ne appare nessuna.

Se su una qualsiasi gemma comparisse un puntino nero, comparirebbe immediatamente su tutte le altre.

Questa immagine descrive pienamente la realtà di ogni Organizzazione, mettendo in luce il valore dell’interdipendenza che ci aiuta a capire davvero come lavoriamo e come possiamo raggiungere i nostri obiettivi: da soli si va veloci, insieme si va lontano.

Continuando a dissertare sul tema dell’alleanza, e prendendo in prestito le parole di un imprenditore illuminato, alla leadership dobbiamo affiancare l’employeeship.

L’employeeship è un vocabolo che deriva dall’inglese “employee” ed indica la Persona assunta in un’Organizzazione per esprimere al meglio le sue qualità, svolgendo il proprio lavoro.

E’ da questa alleanza che dobbiamo ripartire, perché solo coniugando questi due fattori possiamo attraversare con fiducia e motivazione quel sentiero, per raggiungere lo scopo che ci eravamo prefissati.

L’evoluzione che ha subito e che sta subendo la società lavorativa in questo momento storico della nostra vita necessita quindi di Guide che siano in grado di riconoscere il significato profondo del loro ruolo e l’impossibilità di prescindere dalla collaborazione di tutti coloro che operano all’interno dell’Organizzazione.

Ecco perché è fondamentale creare alleanze con i propri dipendenti, vederli attori e protagonisti di questo cambiamento epocale.

Essere delle Guide consapevoli, significa quindi riuscire a comprendere l’insieme dinamico delle competenze, dei valori e delle motivazioni che ogni singolo elemento del Sistema può apportare.

Non solo, è fondamentale dare spazio e voce alle diverse anime, alla loro esperienza, alla loro cultura, alle loro diversità, perché è con la diversità che possiamo creare insiemi più grandi e più forti nell’affrontare i cambiamenti, riducendo al minimo la resistenza.

Questo binomio tra Leadership & Employeeship consente all’Organizzazione nel suo insieme di essere sana e di vivere nel Ben-Essere psicofisico, rafforzando la motivazione ed il senso di appartenenza di ogni singolo al Sistema Azienda, perché se le Persone sono felici nel loro ambiente lavorativo, i bilanci saranno certamente in forma.

A cura di Gerarda Urciuoli
Formatrice – coach aziendale – counsellor professionista

Back to work. Persone felici, bilanci in forma.

Non c’è nulla di meglio che rientrare al lavoro con entusiasmo, buon umore e il desiderio di riprendere le attività interrotte dalla pausa estiva; la motivazione al lavoro è infatti uno degli indicatori più chiari  sulle condizioni di buona salute di un’azienda.
Riprendiamo proprio da questo punto il racconto che avevamo interrotto prima della pausa estiva:
gli attori e gli strumenti per lavorare in salus nelle Organizzazioni sane e vincenti.

Il datore di lavoro e la direzione del personale sono i due ATTORI principali che garantiscono cultura, etica e benessere organizzativo.
Il datore di lavoro, o più in generale, la direzione aziendale, rappresenta la matrice culturale dell’azienda, perché influenza le relazioni all’interno del contesto lavorativo, decide “lo stile della casa”, sceglie i gestori del personale, definisce strategie di leadership per la realizzazione del benessere collettivo in azienda.

La direzione del personale, a sua volta, organizza ed attua le politiche di gestione del personale, determinando la qualità della convivenza sociale, secondo il principio:

T OGHETER
E EVERYONE
A CHIEVES
M ORE

Una responsabilità importante in capo alla Direzione del Personale è l’attenzione ai fattori di prevenzione del disagio lavorativo, attraverso l’applicazione di alcune importanti sottofunzioni:
– la selezione;
– l’inserimento;
– lo sviluppo delle carriere;
– un sistema premiante;
– l’equità del trattamento retributivo per uomini e donne che rivestono lo stesso ruolo e funzioni;
– i percorsi di formazione;
– una comunicazione trasparente a tutti i livelli aziendali;
– un buon sistema di welfare aziendale.

Gli strumenti disponibili per attuare questo tipo di organizzazione e gestione del personale  sono molteplici; vediamone alcuni:

– Analisi di clima aziendale (con focus sul mobbing)
– Attivazione di codici di condotta antimobbing
– Sistema sano di relazioni interne attraverso lo sviluppo di competenze comunicative
– Piani di formazione ad hoc per le figure apicali: percorsi di coaching per la promozione di nuovi modelli
di  leadership e per l’analisi e la gestione dei conflitti
– I circoli di ascolto organizzativo
– Il servizio di mediazione aziendale: il counselling corner

Conoscere le condizioni di salute dell’Organizzazione è il primo passo da fare; dobbiamo immaginare l’azienda come il corpo umano: ogni singolo organo deve funzionare in modo interdipendente con gli altri organi, perché il Sistema è più della somma delle parti e va osservato ed attenzionato nella sua complessità.

Mantenere un sistema di relazioni interne fatto di accettazione, collaborazione, supporto reciproco, riconoscimenti e sinergie, produce efficienza ed efficacia nella comunicazione interna, velocizzando così i processi aziendali, favorisce il benessere della Persona, e quindi del Sistema Azienda.

Sviluppare capacità comunicative, attraverso l’ascolto attivo, consente alle figure apicali di essere una guida riconosciuta dai propri dipendenti, generando così un clima di fiducia, di apertura, di possibilità all’interno della comunità aziendale.

Il conflitto non è visto più come un “demone” da affrontare, ma come un’opportunità di confronto e di valorizzazione delle diversità, in un’ottica win-win.

Per citare le parole di uno dei massimi esperti di mobbing in Italia – Harald Ege“dobbiamo sviluppare la cultura del conflitto”, perché solo portando il conflitto dalla latenza all’emersione, possiamo, non solo depotenziarlo, ma soprattutto evitare di creare il terreno di coltura ideale per lo sviluppo di situazioni di mobbing.

Harald Ege, nel suo modello a 6 fasi, definisce questo 1 step la “condizione zero”.

Non si tratta di una fase, ma di una pre-fase, di una situazione iniziale normalmente presente in Italia e del tutto sconosciuta nella cultura nordeuropea: il conflitto fisiologico, normale ed accettato.

Una tipica azienda italiana è conflittuale, sono poche le aziende che sfuggono a questa regola.

Questa conflittualità fisiologica non costituisce mobbing, anche se, come dicevamo, è evidentemente un terreno fertile al suo sviluppo e ne contiene i prodromi.

Si tratta di un conflitto generalizzato, che vede tutti contro tutti e non ha una vittima cristallizzata, non è del tutto latente, ma si fa notare di tanto in tanto con banali diverbi d’opinione, discussioni, piccole accuse e ripicche, manifestazioni del classico ed universalmente noto tentativo generalizzato di emergere rispetto agli altri.

Ecco perché abbiamo bisogno di Leader capaci di attivare cambiamenti generativi per sé e per gli altri, attraverso la guida, il sostegno, la motivazione, la condivisione e la corresponsabilità nel raggiungimento degli obiettivi economici aziendali, in libertà e senza costrizioni.

I Leader eccellenti motivano le Persone in modi diversi, valorizzando il contributo di ognuna, coinvolgendole nei processi decisionali volti al raggiungimento della Vision, riconoscendo e premiando il successo ottenuto.

Ma la Leadership non abita solo in un ruolo o in un set di capacità, è qualcosa di più profondo, è uno stato che unisce ciò che è presente nella Persona a più livelli: la sua biografia, le sue storie di vita, la sua motivazione, il suo agire.

Il Leader influenza sè stesso e il proprio contesto professionale a partire da una profonda consapevolezza di sé, dei suoi punti di forza e delle sue aree di miglioramento ed esprime una sintesi eccellente fra ciò che è presente nella sua vita e la strategia con cui è in grado di adattarsi e di adattare a sé, in modo efficace il proprio ambiente, costruendo un mondo al quale le Persone desiderano appartenere.

La Leadership è quindi un processo di apprendimento che si attiva attraverso un sistema di Coaching, con l’obiettivo di aumentare la performance, velocizzare i processi decisionali, riconoscere ed elaborare le emozioni personali, gestire produttivamente lo stress, in una cornice di allineamento tra identità personale ed identità professionale, tra CHI SONO e COSA FACCIO.

Un ulteriore strumento che favorisce il benessere aziendale è costituito dai Circoli di Ascolto Organizzativo: vediamo cosa sono e a cosa servono.

I Circoli di Ascolto Organizzativo sono una metodologia per sviluppare le risorse inespresse di un’Organizzazione e gestire i processi di cambiamento strategico e miglioramento continuo.

Servono a condividere esperienze, analisi, ipotesi di miglioramento, progetti di sviluppo aziendale.

Servono a creare allineamento tra le diverse aree aziendali, a coinvolgere in modo efficace le Persone nei processi di cambiamento strategico e, più di tutto, servono ad incidere positivamente sulle condizioni generali di Benessere dell’Organizzazione in termini di clima e di relazioni interpersonali.

Il Circolo lavora su un approccio alle problematiche attraverso una discussione aperta al confronto delle idee e dei diversi contributi, così da individuare le problematiche reali nel contesto lavorativo, discutere e confrontarsi in una cornice di valori condivisi, secondo la propria esperienza lavorativa, e mettere in campo

determinate e specifiche AZIONI, in modo concreto e realistico per la risoluzione dei problemi, avendo sempre presente l’allineamento profondo tra CHI SONO (identità personale) e COSA FACCIO (identità professionale)

 Infine, il Counselling Corner aziendale, uno strumento che sempre più aziende, anche le più piccole, stanno adottando, in forme e modalità diverse, mutuando una metodologia presente in moltissimi Paesi europei, già dalla fine degli anni ’80.

Il Counselling corner o più semplicemente l’angolo della mediazione aziendale, è uno spazio di assistenza e supporto alla Persona, che mira al suo benessere, valorizza le capacità individuali ed indirizza le energie e le motivazioni del singolo verso sviluppi che siano coerenti con le esigenze del contesto lavorativo.

E’ uno spazio che ha l’obiettivo di aumentare il benessere nei contesti lavorativi, agevolare la comunicazione interpersonale, far crescere la motivazione al lavoro, migliorarne la qualità in termini di efficacia ed efficienza, offrire sostegno in situazioni conflittuali e di disagio, ridurre l’assenteismo ed aumentare la produttività.

Gli effetti sono tangibili e molti studi lo dimostrano da tempo (Ricerca del National Institute of Mental Health Bethesda, Maryland  Il Mondo – numero 58 – 11/01/2008)

Le risorse dei “contendenti” lavorano insieme ed in sinergia, le risorse vengono impiegate per la creazione di soluzioni nuove e creative, il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale, i problemi sono risolti più velocemente ed il clima organizzativo è più sereno, i dipendenti lavorano meglio e sono più produttivi.

Il Counsellor è una figura professionale, finalmente riconosciuta anche in Italia (legge n. 4 del  14/01/2013).
E’ un consulente che opera per sostenere la Persona in un momento di difficoltà, sia lavorativa che personale, è sensibile alle problematiche istituzionali e di raggiungimento di obiettivi definiti dall’Organizzazione, utilizza metodologie integrate di intervento per rispondere a bisogni differenti e soprattutto propone un modo costruttivo e trasparente di relazionarsi tra le Persone.

Questo processo di ascolto, sostegno ed orientamento, genera una forma di benessere che, mutuando gli studi di A. Maslow sulla piramide dei bisogni umani, va a nutrire il senso di autostima, di appartenenza e di autorealizzazione, con benefici economici tangibili per l’Organizzazione.

Infine, per concludere, soffermiamoci un attimo a pensare che un lavoratore depresso in seguito ad un processo di mobbing, potrebbe essere il pilota dell’aereo su cui stiamo viaggiando, l’autista dello scuola bus di nostro figlio, l’operatore sanitario a cui affidiamo la nostra salute.

E rcordiamoci che le Persone possono fare grandi cose quando vengono trattate come Esseri Umani intelligenti, si sentono in una posizione che mantiene integra la loro dignità personale e professionale, sono trattate con rispetto per le loro specificità, soprattutto vengono informate e coinvolte nelle decisioni aziendali per il raggiungimento degli obiettivi economici.

La proposta per il futuro economico e sociale delle Organizzazioni, dunque, è un cambio di paradigma che mira alla centralità e al benessere della Persona, da cui scaturisce inevitabilmente il benessere per l’Organizzazione tutta.

A cura di Gerarda Urciuoli
Formatrice – coach aziendale – counsellor professionista