Nuove frontiere dell’Economia e del Lavoro: dopo lo Smart Working arriva il Chronoworking
Si sente parlare di Chronoworking o di Crono- lavoro.
Qualcuno in maniera forse prematura intravede in questi termini una vera e propria rivoluzione per il mondo del lavoro.
Ci riferiamo al termine Chronoworking coniato dalla giornalista britannica Ellen Scott che ce lo presenta come un’evoluzione naturale del concetto di benessere sul posto di lavoro che dovrebbe accordare la prestazione con i bioritmi del lavoratore.
È forse presto per valutarne la portata e il destino soprattutto in termini così futuribili. Il concetto però va attentamente esaminato.
Ordinariamente, come sappiamo, il rapporto di lavoro si snoda e disciplina in termini di luogo e di tempo. In questo caso sarebbe operata un’importante rivoluzione.
L’autrice, come già accennato, opera un collegamento tra l’organizzazione della giornata lavorativa ed i bioritmi dei dipendenti.
Limitiamoci, per ora, a considerare il tutto come un fattore di libera organizzazione del tempo di lavoro.
Andiamo quindi a verificare l’ambito in cui si pone questo nuovo concetto di lavoro.
Se si vuole collegare il sorgere di questa tendenza a superare i rigidi termini di contenimento della prestazione lavorativa, il riferimento va al periodo post pandemico, allorquando l’organizzazione del lavoro era costantemente alla ricerca di moduli creativi per superare le difficoltà di contatto e trattenere il personale. Si proponeva così lo Smart Working, la settimana lavorativa ridotta ed altro, aprendo la strada a modelli ancora maggiormente creativi.
Lo stesso istituto del Lavoro Agile o Smart Working se rigidamente collegato agli orari di lavoro ed a regole rigide, assume un significato alquanto limitato.
Una volta sganciata la prestazione dal limite di luogo e quindi da un assiduo e costante controllo, è quasi automatico l’affidamento della stessa ad un orario verificabile, ma organizzato dal lavoratore, se non addirittura ad un semplice vincolo quantitativo e qualitativo di produzione da tradursi in un valore orario e quindi economico.
Il superamento di questi limiti sino ad oggi intrinseci alla prestazione di lavoro subordinato non ne esauriscono il concetto e pertanto si dovrà sempre parlare di rapporto di lavoro dipendente.
Essi appaiono infatti come una nuova forma di flessibilità.
Il termine flessibilità nell’ambito del lavoro evoca esperienze non sempre felici soprattutto per i prestatori di lavoro.
Dobbiamo però affrontare queste novità senza preconcetti per verificare se, ove la tipologia del lavoro lo renda possibile, l’organizzazione del tempo di lavoro affidata al dipendente non rappresenti non solo un miglioramento dell’organizzazione e della produzione, ma pure, al di là dei bioritmi, una migliore organizzazione della vita del lavoratore.
Ne dovrebbe quindi derivare una diminuzione dello stress che oggi connota molti rapporti di lavoro, consentendo ai dipendenti di lavorare in modo più equilibrato e sostenibile, aumentando la soddisfazione.
Appare evidente come una simile organizzazione del lavoro non possa coinvolgere tutte le tipologie di prestazione.
Ne risultano evidentemente esclusi tutti quei rapporti di lavoro che coinvolgono rapporti diretti con l’utenza e la clientela che ineriscono a schemi orari di contatto e presenza fisica, come pure i rapporti che presuppongono relazione di controllo e gerarchiche con altro personale.
Chiaramente la contrattazione collettiva non appare idonea a disciplinare una relazione di lavoro dove è il singolo lavoratore ad organizzare individualmente i tempi ed i modi della propria prestazione.
È altresì vero che la mancanza di una cornice di regolazione legale o collettiva potrebbe introdurre abusi e distorsioni.
Sarebbe quindi opportuno ricorrere ad una disciplina quadro di natura collettiva per poi regolare in maniera conforme gli accordi individuali.
Fabio Petracci