Altro colpo al Jobs Act. Anche gli organi comunitari sfiduciano le tutele crescenti del Jobs Act e la disciplina nazionale in tema di licenziamenti.
E’ la volta del Comitato dei Diritti Sociali del Consiglio di Europa che emette decisioni non giuridicamente vincolanti, ma politicamente rilevanti in merito alle situazioni del lavoro e dei diritti sociali in Europa.
Già a suo tempo, il Comitato Europeo dei Diritti, occupandosi della disciplina dei licenziamenti nel nostro paese rilevava talune incompatibilità a carico del nostro ordinamento. Lo rilevava il sottoscritto nell’opera Italia e Croazia, Ordinamenti a Confronto – Giapichelli, 2016, pagina 186 e seguenti. Le conclusioni del Comitato risalivano al 2003.
Il Comitato si riferiva al periodo di prova notando come lo stesso non fosse correlato alla reale qualificazione dei lavoratori che restano così esposti al licenziamento privo di tutela alcuna. Notava inoltre aspetti critici nel regime di stabilità dei lavoratori domestici, degli sportivi e di quelli in età pensionabile, in quanto nessuna disposizione di legge garantisce loro un congruo periodi di preavviso.
Era quindi oggetto di osservazione il regime di stabilità per i lavoratori esclusi dalla tutela reale a favore di tutela obbligatoria.
Il Comitato europeo dei diritti sociali richiedeva inoltre informazioni in merito al regime della tutela obbligatoria nei rapporti non soggetti a tutela reale.
Eravamo nel 2003 con un regime dei licenziamenti dove vigeva ancora la tutela reale.
Va sfatata peraltro in materia di licenziamenti, La pretesa rigidità dell’ordinamento italiano in confronto con altri ordinamenti.
Va in parte ridimensionato questo concetto, anche se effettivamente sino a poco tempo fa nel nostro ordinamento rispetto ad altri, la reintegra appariva come una regola inderogabile.
Per quanto riguarda alcuni dei paesi europei, notiamo che:
a) la Danimarca
L’ordinamento concernente la risoluzione del rapporto di lavoro si basa su tre punti.
Da un lato, esiste una limitata tutela della stabilità del rapporto, dall’altra è garantito al lavoratore un notevole sostegno al reddito che si fonda su di un fondo assicurativo privato che garantisce il reddito per due anni e quindi su ulteriori due anni di sostegno pubblico.
Il sistema pubblico di sostegno è caratterizzato dall’efficienza dei servizi di collocamento volti alla formazione ed alla ricollocazione professionale del lavoratore.
b) La Francia
A metà degli anni 2000, la Francia presentava una regolamentazione del mercato del lavoro non dissimile da quella italiana con rigide procedure da percorrere per motivare il licenziamento . Poco dopo, erano addottati due nuove tipologie di lavoro subordinato destinati a particolari soggetti . Questi contratti per due anni erano esclusi dalla regola del licenziamento giustificato. La cosa non ebbe successo, né sortì i risultati sperati. Di li a poco, la magistrature francese ne riconosceva l’incompatbilità con la convenzione OIL e con i principi comunitari.
c) La Germania
La disciplina del licenziamento è improntata ad una certa rigidità, nelle imprese che occupano più di 10 dipendenti, il licenziamento deve essere giustificato da motivi attinenti la persona del lavoratore o ad esigenze stringenti dell’azienda. In quest’ultimo caso, il licenziamento è considerato l’extrema ratio che può essere evitata anche attraverso una fase di formazione del lavoratore che ne consenta il reimpiego. Le procedure di licenziamento sono rigorose e possono passare anche attraverso il controllo del consiglio aziendale. L’insussistenza di giusta causa o giustificato motivo può comportare o la reintegra del lavoratore o il pagamento di un’indennità. Salvo il caso di giusta causa è previsto in caso di licenziamento un preavviso che va da 4 settimane a 7 mesi a seconda dell’anzianità del lavoratore.
La normativa e la giurisprudenza italiana da tempo hanno assunto un orientamento meno restrittivo che è stato poi confermato dal collegato lavoro che ha inibito al giudice il sindacato in merito alle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro (articolo 30 comma 1 L.183/2010).
Quindi con la legge 92/2012, sono state apportate parziali modifiche alla normativa concernente il licenziamento. In particolare è stato modificato in diversi punti l’articolo 18 fornendo spazio all’individuazione del licenziamento discriminatorio o para – discriminatorio, stabilendo casi in cui al licenziamento illegittimo non consegue la reintegra, disciplinando l’ipotesi della revoca del licenziamento.
Con il DLGS 23/2015 detto anche Jobs Act, le tutele del lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore della legge e licenziato erano ulteriormente ridotte, in quanto per i neoassunti era previsto un sistema risarcitorio detto a tutele crescenti con risarcimenti ridotti e collegati in maniera automatica all’anzianità di servizio.
Il sistema così congegnato subiva le censure della Corte Costituzionale che con la sentenza n.194/2018, stabiliva l’illegittimità costituzionale della determinazione del danno in maniera automatica collegata all’anzianità di servizio.
La pronuncia di incostituzionalità era limitata dai termini dell’ordinanza che l’aveva provocata, ma lasciava trasparire talune debolezze della normativa in tema di licenziamenti.
Di recente, il Comitato dei Diritti Sociali Europeo ha emesso una decisione dove si ritiene che l’Italia con il Jobs Act che ha ulteriormente ridotto le tutele del lavoratore in caso di licenziamento, sia mancata all’obbligo di rispettare l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che stabilisce il diritto per ogni lavoratore ingiustamente licenziato di ricevere una tutela effettiva e realmente dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
La decisione è stata pubblicata in data 11 febbraio 2020.
Il ricorso proposto dal Sindacato CGIL ritiene che l’Italia abbia violato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che prevede in caso di risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro, il diritto del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo di ottenere in sede giudiziale un risarcimento adeguato rispetto al danno subito tale da assumere carattere dissuasivo per il datore di lavoro.
Lamentava il ricorso del sindacato che un ammontare del risarcimento fissato in termini automatici in funzione dell’anzianità, non rivestiva queste caratteristiche.
In sostanza, il sindacato sindacava diversi articoli del Jobs Act ( DLGS 23/2015).
In primo luogo, era contestato l’articolo 3 che determina i termini di risarcimento per il licenziamento illegittimo, l’articolo 4 che riduce il risarcimento per vizi procedurali,
L’articolo 9 che riduce il risarcimento nelle aziende sotto le dimensioni di legge, l’articolo 10 che estende i limiti risarcitori ai licenziamenti collettivi effettuati senza il rispetto dei criteri di scelta.
Interveniva nel giudizio anche la CES Confederazione Europea dei Sindacati che appoggiava il ricorso, richiamandosi a diversi testi internazionali quali il patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali, e culturali (PIDESC) ai commenti del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (CDESC), alla Convenzione n° 158 ed alla Raccomandazione n° 166 dell’ILO in materia di licenziamento, soprattutto all’interpretazione del Comitato degli esperti per l’attuazione delle convenzioni e delle raccomandazioni (CDEACR), nonché ad altri strumenti meno specifici ma pertinenti, come il testo di politica generale adottato nel 2009: “Superare la crisi: un patto globale per l’occupazione”. Inoltre, faceva riferimento alle conclusioni del 5° rapporto periodico del CDESC (2015), che invita l’Italia a misurare l’impatto delle misure di austerità sul rispetto dei diritti umani.
I riferimenti della CES andavano anche a diversi testi normativi dell’Unione Europea quali l’articolo 153 del Trattato dell’Unione Europea e l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione.
La Confederazione Sindacale Europea richiamava inoltre la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, osserva, inoltre, che un licenziamento può costituire un’ingerenza nel diritto a detrimento della vita privata (Özpinar contro Turchia, richiesta n° 20999/04, sentenza del 19 ottobre 2010, definitiva il 19 gennaio del 2011; Oleksandr Volkov contro Ucraina, richiesta n° 21722/11, sentenza del 9 gennaio 2013, definitiva il 27 maggio 2013).
Concludeva la CES, affermando che il plafond per l’indennizzo risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo in Italia era contrario alla Carta, tanto più che esso teneva conto soltanto dell’anzianità del servizio e non tiene conto di altre variabili importanti.
Nel corso dell’esame del ricorso, la Corte Costituzionale con la sentenza n.194/2018, stabiliva che l’articolo 3 del DLGS 23/2015 era da considerarsi incostituzionale, proprio perché prevedeva in caso di licenziamento illegittimo dei criteri automatici e riduttivi per determinare il risarcimento.
Di seguito era adottato il DLGS n.87 del 12 luglio 2018 che ha aumentato l’importo minimo e massimo dell’indennizzo, rispettivamente da quattro a sei mensilità e da ventiquattro a trentasei mensilità. Lo stesso decreto, modificato dalla legge n°145 del 30 dicembre 2018.
Dall’esame della normativa di diritto internazionale, comunitario e nazionale, il Comitato rilevava quanto segue:
Il Comitato rileva che il reclamo verte sull’adeguatezza del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato dopo il 7 marzo 2015, conformemente agli articoli 3, 4, 9 e 10 del decreto legislativo n° 23/2015, modificato dopo la presentazione del reclamo. A tale riguardo, rileva che la tesi del carattere automatico del calcolo dell’importo delle indennità, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n° 23/2015, non è più valida, a seguito del giudizio di incostituzionalità di questa clausola (Corte costituzionale, sentenza sopracitata n° 194/2018), che consente al giudice di tener conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri elementi (numero dei lavoratori, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti).
Rileva, pertanto, che la parte reclamante continua a mettere in discussione altri aspetti del meccanismo indennitario in caso di licenziamento illegittimo, cioè il tetto massimo delle indennità (plafond), unitamente alle restrizioni applicabili in materia di reintegro del lavoratore, alla presunta assenza di tutela alternativa o complementare dai licenziamenti illegittimi in altre disposizioni, alla presunta mancanza di strumenti adeguati di protezione sociale per i lavoratori licenziati, così come di un meccanismo di conciliazione, che favorirebbe l’uso dei licenziamenti illegittimi.
Il Comitato ricorda che, ai sensi della Carta, i lavoratori licenziati senza un valido motivo devono ottenere un indennizzo o un altro risarcimento adeguato. I meccanismi indennitari sono ritenuti conformi alla Carta quando prevedono: il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso; la possibilità di reintegro del lavoratore e/o indennità di un importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima (Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, paragrafo 45; Conclusioni 2016, Bulgaria).
Il Comitato rileva che i meccanismi di risarcimento attualmente previsti dalle disposizioni contestate variano in funzione del tipo di licenziamento e della dimensione dell’impresa (unità produttiva fino a 15 o più lavoratori ).
In caso di licenziamento discriminatorio (in base all’appartenenza sindacale, politica o religiosa, etnica, lingua, al sesso, alla disabilità, all’età, all’orientamento sessuale o alle convinzioni personale), inficiato di nullità (cioè, quando è intimato durante il periodo tutelato dopo un matrimonio, una nascita o una malattia) oppure se il licenziamento non è stato notificato per iscritto, il lavoratore può richiedere la reintegrazione nel suo posto di lavoro (oppure un’indennità forfettaria di 15 mensilità) ed ottenere anche un’indennità non inferiore a cinque mensilità non limitata al plafond, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (articolo 2 del decreto legislativo n° 23/2015).
Ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n° 23/2015, si applica lo
stesso risarcimento di cui sopra se il procedimento dimostra che il fatto materiale contestato al lavoratore non sussiste (e anche se il fatto ha avuto luogo, ma non era passibile di licenziamento, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione nella sua sentenza n° 12174 dell’8 maggio 2019) per le unità produttive con più di 15 lavoratori.
Il Comitato rileva che, nei casi di cui sopra, la vittima del licenziamento senza motivo valido può ottenere un’indennità non limitata dal plafond, che copra le perdite finanziarie subite dal licenziamento, nonché la reintegrazione nel suo posto di lavoro, a meno che il lavoratore preferisca un indennizzo forfettario in sostituzione della reintegrazione (se si tratta di una piccola impresa, la reintegrazione è esclusa nei casi contemplati nel paragrafo 90 di cui sopra, ma questa è possibile in caso di licenziamento discriminatorio e negli altri casi contemplati nel paragrafo 89 di cui sopra). Dal momento che le situazioni sopra menzionate non riguardano la questione essenziale sollevata nel reclamo, vale a dire l’esistenza di limiti predeterminati all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, il Comitato ritiene che non sia necessario esaminarli separatamente.
Per quanto riguarda gli altri tipi di licenziamento senza motivo valido, il Comitato rileva che le disposizioni contestate, oltre a non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro, prevedono un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l’importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6,12,24 o 36 mensilità di riferimento.
Inoltre, se il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 con un contratto a tempo indeterminato nel settore privato, ritiene di essere stato oggetto di una misura di licenziamento individuale senza un valido motivo, che si tratti di un motivo oggettivo (soprattutto licenziamento economico) o soggettivo (motivo disciplinare con preavviso), oppure di un licenziamento senza giusta causa (licenziamento disciplinare immediato), il decreto legislativo n° 23/2015 (articoli 3, comma 1, e 9) prevede un’indennità limitata dal plafond di: Sei mensilità di riferimento per i lavoratori delle piccole imprese (con meno di 16 lavoratori), 24 o 36 mensilità di riferimento nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data di assunzione e di licenziamento, avvenuta prima o dopo il 14 luglio 2018).
Se il licenziamento illegittimo è dovuto a vizi di forma (ad esempio, se il motivo del licenziamento non è indicato) o procedurali (ad esempio, se il lavoratore non ha potuto difendersi in sede disciplinare), gli importi dell’indennità sono dimezzati per le piccole imprese e limitati dal plafond di 12 mensilità di riferimento per le altre, ai sensi degli articoli 4 e 9 del decreto legislativo n° 23/2015.
Infine, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, in quanto intimato in violazione delle procedure o dei criteri di selezione, l’articolo 10 del decreto legislativo n° 23/2015 prevede un’indennità limitata dal plafond di 24 o 36 mensilità nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data del licenziamento, avvenuto prima o dopo il 14 luglio 2018. Il Comitato ricorda che qualsiasi tetto massimo (plafond), che svincola le indennità dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta, come, in una certa misura, ha già espresso la Corte Costituzionale nella decisione n° 194/2018. Nel caso del tetto massimo delle indennità accordate a titolo di compensazione del danno materiale, la vittima deve poter chiedere un ristoro del danno morale subito attraverso altre vie legali e gli organi giurisdizionali competenti, per accordare un indennizzo per il danno materiale e morale subito, devono pronunciarsi in tempi ragionevoli (Finnish Society of Socail Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, comma 46; conclusioni del 2012, Slovenia e Finlandia).
Il Comitato rileva che il Governo, per quanto riguarda le eventuali vie legali che consentono di ottenere un risarcimento supplementare, menziona la possibilità che il lavoratore ottenga un indennizzo supplementare ai sensi delle disposizioni generali in materia di responsabilità civile (ad esempio, in caso di danno arrecato alla salute o in caso di licenziamento vessatorio). Indica, inoltre, che gli organi giurisdizionali competenti, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto, possono ordinare la reintegrazione del lavoratore in casi diversi da quelli coperti dalle disposizioni contestate, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto.
Il Comitato osserva che la CGIL contesta queste argomentazioni e precisa che il risarcimento previsto, sotto il profilo della responsabilità civile, non è collegato al carattere illegittimo del licenziamento, ma alle modalità del licenziamento ed alle conseguenze per l’integrità psicofisica (Corte di Cassazione, sentenza n° 23686 del 19 novembre 2015), per la vita privata o per la reputazione della vittima; per quanto riguarda la possibilità di reintegrazione, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, la CGIL sostiene che essa si applica solo nei casi molto rari di nullità del licenziamento. Il Comitato rileva che il Governo non ha fornito esempi di casi in cui sarebbe stato concesso un risarcimento per licenziamento illegittimo in base alle disposizioni relative alla responsabilità civile o ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile. Il comitato osserva che tale disposizione è stata utilizzata per riconoscere la nullità dei licenziamenti illegittimi in alcuni casi (sentenza n°4517/2016 del Tribunale del Lavoro di Roma, con la quale ha riconosciuto il carattere ritorsivo del licenziamento di un lavoratore che aveva contestato le misure disciplinari; sentenza n° 687/2016 del Tribunale del Lavoro di Vicenza con la quale riconosce il carattere abusivo di un presunto licenziamento per motivi economici, mentre il datore di lavoro sperava di trarre vantaggio dalle nuove misure di promozione dell’assunzione), ma ritiene che nulla impedisce di stabilire che tali esempi, forniti da organi giurisdizionali inferiori, siano rappresentativi di una giurisprudenza stabile e consolidata e che possano coprire tutti i diversi casi.
Osserva, altresì, che il meccanismo di conciliazione previsto dall’articolo 6 del decreto legislativo n° 23/2015 miri espressamente ad “evitare il procedimento giudiziario”. Se l’obiettivo è decongestionare gli organi giurisdizionali nazionali ricorrendo a soluzioni in sede extra giudiziaria, il Comitato non ritiene che ciò sia in contrasto con la Carta, il Comitato ritiene che ciò non debba avvenire a spese dei diritti soggettivi garantiti dalla Carta.
Orbene, rileva che in caso di licenziamento illegittimo (diverso da quello discriminatorio, inficiato di nullità, intimato verbalmente o sostanzialmente infondato, si vedano i paragrafi 89 – 91), la vittima ha la scelta tra due opzioni risarcitorie per il danno materiale – giudiziario o extra giudiziario – limitato da un tetto massimo (plafond) che non copre le perdite finanziarie effettivamente sostenute dalla data del licenziamento. Il Comitato ritiene che le condizioni di ciascuna di queste due opzioni risarcitorie sono tali da incoraggiare, o quanto meno a non dissuadere, il ricorso al licenziamento illegittimo.
Infatti, in caso di licenziamento illegittimo, l’opzione conciliativa prevista in Italia permette al datore di lavoro di sottrarsi dal procedimento giudiziario controllando i costi del licenziamento (limitato da un plafond di 27 mensilità, 6 per le piccole imprese), mentre questo impegna la vittima a rinunciare a qualsiasi altro procedimento, avente come unico vantaggio il fatto di essere certi di ricevere un indennizzo in un breve lasso di tempo.
La via legale non presenta, pertanto, un vero carattere dissuasivo del licenziamento illegittimo nella misura in cui, da un lato, l’importo netto dell’indennizzo per i danni materiali non è significativamente superiore a quello previsto in sede di conciliazione e, d’altra parte, la durata della procedura avvantaggia il datore di lavoro, dato che l’indennizzo in questione non può superare gli importi prestabiliti (limitatati da un plafond di 12, 24 o 36 mensilità, a seconda dei casi, di 6 mensilità per le piccole imprese) e il risarcimento diventa nel tempo inadeguato rispetto al danno subito. Per quanto riguarda le vie di ricorso menzionate dal Governo, il Comitato constata l’assenza di elementi conclusivi che consentano effettivamente di ottenere un indennizzo supplementare generalizzato.
104. Alla luce di questi elementi, il Comitato ritiene che né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima del licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto dalla legge in risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l’uso dei licenziamenti vigore, e né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un illegittimi.
Il Comitato quindi emetteva il seguente parere:
Alla luce di quanto detto, il Comitato ritiene che l’indennizzo versato in caso di licenziamento in violazione di un diritto fondamentale, debba mirare a risarcire totalmente, tanto sul piano finanziario, quanto su quello professionale, il danno subito dal lavoratore; la soluzione migliore consiste generalmente nel reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, pagando le retribuzioni dovute e mantenendo i diritti acquisiti. A tal fine, gli organi imparziali devono essere dotati dei poteri necessari per decidere rapidamente, pienamente e in completa indipendenza, e, in particolare, di decidere la forma di riparazione più adeguata, tenuto conto delle circostanze, e soprattutto della possibilità di reintegrazione. Se la reintegrazione non è stata proposta a titolo di risarcimento, se non è possibile o se non è chiesta dal lavoratore, sarebbe auspicabile che l’indennizzo scelto per il licenziamento in violazione di un diritto umano fondamentale fosse proporzionato al danno subito e in quantità maggiore a quella pagata per altri tipi di licenziamenti.
Fabio Petracci