CASSAZIONE: Rapporto di lavoro ed invenzioni: azione di indebito arricchimento da parte di consulente nei confronti della Pubblica Amministrazione.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 7178/2024 interviene sul caso di un medico che aveva maturato negli Stati Uniti adeguata competenza nel campo dell’informatica medica e svolgeva una collaborazione con la ASL n.6 di Palermo.

Contestualmente ed al di fuori dell’oggetto della consulenza, egli aveva realizzato per la ASL medesima un programma denominato Sistema Informativo 2004 – 2005.

Egli peraltro non aveva ricevuto formale incarico alcuno dall’amministrazione che riteneva di non dovergli compenso alcuno non risultando incarico alcuno formalizzato.

Il consulente quindi conveniva in giudizio l’amministrazione ritenendo sussistente un indebito arricchimento della medesima.

La domanda era accolta dal Tribunale di Palermo, ma successivamente, la Corte d’Appello in riforma della sentenza del Tribunale, rigettava la domanda.

Avverso quest’ultima sentenza era interposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione.

La suprema Corte individua il tema della decisione nel fatto che secondo la ASL sarebbe stato pattuito con il consulente un surplus di orario che avrebbe compensato l’opera resa in ambito informatico definibile come un’invenzione aziendale resa da un prestatore autonomo.

Secondo invece il consulente, l’opera sarebbe stata resa a seguito del conferimento di un diverso e complesso incarico professionale.

Premette la Cassazione che i rapporti con la Pubblica Amministrazione richiedono, per la loro instaurazione, la forma scritta che nel caso di specie risulta assente.

Nel caso di specie, l’opera di carattere informatico doveva ritenersi incompatibile con l’attività di medico di guardia a fronte della quale risultava erogato lo straordinario.

La difesa della ASL è inoltre incentrata sul fatto che il consulente avrebbe dovuto agire in forza dell’articolo 64 del DLGS 30/2005 che tutela le invenzioni nell’ambito del rapporto di lavoro.

La Cassazione sul punto dubita che un software possa considerarsi brevettabile.

Ritiene inoltre che altre normative concorrenti a tutela delle opere dell’ingegno non siano applicabili al caso di specie in quanto non trattasi di lavoro dipendente e non è accertato che l’opera fosse brevettabile.

Essa pertanto ritiene come l’unica azione esperibile sia nel caso di specie quella per ingiustificato arricchimento, in quanto l’azione teoricamente esperibile per l’inadempimento contrattuale trovava il proprio limite nella mancanza di forma scritta da parte della pubblica amministrazione.

In tal senso, la Cassazione ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite della medesima Corte del 5 dicembre 2023 la quale ha affermato che “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo”.

Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.

In tema di invenzioni nell’ambito del rapporto di lavoro si ricordano le disposizioni contenute nel codice civile e nelle leggi speciali.

Il primo accenno va all’articolo 2590 del codice civile laddove è stabilito che Il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro I diritti e gli obblighi delle parti relativi all’invenzione sono regolati da leggi speciali, il c.d. Codice della proprietà industriale (DLGS 30/2005).

La legge stabilisce inoltre che tale disposizione si applica a tutti i datori di lavoro sia privati che pubblici (vedasi articoli 64 – 65 del DLGS 30/2005).

Essa in base all’articolo 4 della legge 81/2017 trova applicazione anche al lavoro para – subordinato.

Le invenzioni debbono essere brevettabili.

Si distinguono per quanta riguarda le invenzioni da lavoro le invenzioni di servizio che costituiscono oggetto del contratto e conferiscono al datore di lavoro il diritto ad avvalersi dei benefici dell’invenzione stessa.

Per quanto riguarda invece le cosiddette invenzioni di azienda (invenzioni avvenute avvalendosi del ruolo e dell’attività aziendale, ma non oggetto di contratto) spetta al lavoratore un equo compenso, ma l’invenzione è acquisita dal datore di lavoro.

Le invenzioni cosiddette occasionali sono quelle realizzate in occasione del rapporto di lavoro, ma senza collegamento alcuno con l’attività lavorativa.

Al datore di lavoro è riconosciuto un diritto di opzione per l’uso esclusivo, con diritto per l’inventore di ottenere i diritti patrimoniali conseguenti allo sfruttamento economico dell’invenzione.

Fabio Petracci

Utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 e licenziamento

L’utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 può giustificare il licenziamento del lavoratore.

È legittimo l’utilizzo dell’opera di un’agenzia investigativa qualora finalizzato a confermare i sospetti di un uso fraudolento dei permessi. Conferma questo orientamento una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 12/03/2024, n. 6468).

Cosa accade e cosa può fare il datore di lavoro di fronte ad un utilizzo dei permessi di cui alla legge 104/92 non coerente con le finalità della legge?

La fattispecie.

L’articolo 33 della legge 104/1992 comma 3 e 3 bis così stabilisce:

  1.   Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità. Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli sopra elencati, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o del convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.

3-bis.    Il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui al comma 3 per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quello di residenza del lavoratore, attesta con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell’assistito”.

Quindi la legge 104/92 impone al datore di lavoro un sacrificio ed un limite alla propria attività ed alla naturale corrispettività del rapporto di lavoro, sacrificio finalizzato a ragioni di solidarietà sociale a favore del lavoratore chiamato ad assistere un proprio familiare gravemente invalido.

In sostanza, l’assenza dal lavoro e la mancata prestazione trovano ragione e giustificazione in base alla stretta attinenza con tale finalità.

Al di fuori di tali limiti, si concretizza una condotta del lavoratore idonea a determinate condizioni di gravità a giustificare il licenziamento.

L’ipotesi disciplinare.

L’orientamento della Corte di Cassazione e dei giudici di merito è quello di ravvisare l’ipotesi disciplinare del licenziamento, ogniqualvolta non sussista uno stretto nesso causale tra l’attività svolta dal lavoratore nel corso del permesso e le necessità dell’assistito.

Ciò significa in primo luogo che non sussiste il nesso causale allorquando il lavoratore utilizzi il permesso per riposarsi dall’attività di assistenza prestata. Non è pertanto consentito un riposo che potrebbe definirsi “compensativo” dell’assistenza prestata in altri momenti, Non sussiste inoltre in tutti i casi in cui il lavoratore utilizzi il tempo concessogli per finalità che alcuna attinenza hanno con l’opera di assistenza.

Sussiste invece, il nesso e la giustificazione laddove il dipendente risulti assente per effettuare compere o commissioni per conto dell’assistito.

Non sussiste l’ipotesi disciplinare allorquando il lavoratore si sia momentaneamente assentato per una necessità urgente ed imprevista.

L’ipotesi di utilizzo fraudolento dei permessi qualora grave per durata o intenzionalità o reiterazione, giustifica il licenziamento per giusta causa.

Minimi discostamenti tra tempo di assistenza e durata del permesso ove contenuti e non reiterati possono dar luogo a sanzioni disciplinari minori.

Si fa presente che anche la mancata comunicazione dell’avvenuto ricovero dell’assistito che in base all’articolo 33 fa venir meno il diritto all’assistenza può costituire mancanza disciplinare che nei casi più gravi può dar luogo anche al licenziamento.

Come procedere.

L’accertamento.

L’onere di provare l’utilizzo improprio dei permessi grava sul datore di lavoro.

Normalmente gli accertamenti è consigliabile siano affidati ad una agenzia investigativa.

Sul punto meritano attenzione alcune cautele.

Se l’agenzia investigativa non può verificare e controllare l’effettuazione della prestazione del dipendente, essa può invece indagare condotte truffaldine che arrechino pregiudizio all’azienda.

Quindi ben potrà l’agenzia investigativa verificare la presenza e l’attività del lavoratore in permesso per fornire l’assistenza di cui alla legge 104/92.

Si ritiene però da molte parti che l’attività investigativa sia comunque soggetta alla disciplina in materia di trattamento dei dati e quindi, secondo quanto disposto dall’articolo 4 n.1 e 2 del Regolamento 679/2016 – GDPR, l’investigatore potrà agire solo sulla base di concreti sospetti.

Si consiglia pertanto di dare atto di un tanto nella lettera con la quale viene conferito l’incarico all’agenzia investigativa sulla base di rilevati e concreti sospetti.

Alla fine della propria attività, l’investigatore dovrà redigere una relazione con i nominativi degli accertatori che potranno essere indicati in qualità di testi nell’eventuale procedimento di impugnazione del licenziamento.

La contestazione.

La procedura disciplinare di licenziamento è imperniata sulla lettera di contestazione che in apertura del procedimento deve essere inviata all’incolpato.

Si ricorda che per la validità del procedimento, la contestazione di addebito deve individuare in maniera chiara e specifica il fatto in merito al quale il lavoratore è chiamato a discolparsi.

Quindi dovranno essere indicate le giornate e l’ora di assenza dagli incombenti di cui alla legge 104/92 e preferibilmente anche le attività svolte in luogo della dovuta assistenza.

Molta attenzione dovrà essere posta alle giustificazioni poste dal lavoratore per verificare se siano idonee o meno a smentire l’esito degli accertamenti svolti.

Fabio Petracci

La retribuzione nelle Cooperative

La determinazione della retribuzione.

Con l’entrata in vigore della legge 142/2001 il mondo della Cooperazione trova una regolamentazione di protezione del socio – dipendente che si interseca notevolmente con quella del lavoro dipendente.

In tal modo, si realizza un sistema complesso che supera il concetto di mutualità in diversi tratti, introducendo diverse disposizioni del diritto del lavoro, anche, come vedremo, in tema di retribuzione.

L’articolo 3 comma 1 della legge n.142/2001 prevede che il trattamento economico del socio lavoratore dipendente debba essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e stabilisce come la misura minima non possa essere inferiore ai minimi previsti per prestazioni analoghe dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine.

Di seguito interveniva l’articolo 7 comma 4 del DL 248/2007 il quale precisava come in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria andavano applicati i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria.

La riduzione dei compensi in caso di crisi aziendale.

In materia di retribuzione, va inoltre considerata la possibile riduzione della retribuzione in caso di deliberazione di crisi aziendale che richieda interventi straordinari. (articolo 6 legge 142/2001).

In questi casi, va stabilita la temporaneità dello stato di crisi, nonché uno stretto nesso di causalità tra lo stato di crisi aziendale e l’applicabilità ai soci lavoratori degli interventi di riduzione del trattamento retributivo.

Nel tempo, la normativa di cui alla legge 142/2001 è passata al vaglio della giurisprudenza di merito nei seguenti termini:

Ammontare e parametri della retribuzione.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza del 2 ottobre 2023 n.27711 proprio in tema di cooperative, in continuità con il percorso giurisprudenziale in tema di attuazione dell’articolo 36 della Costituzione, ha stabilito il potere del giudice di superare la contrattazione collettiva nazionale di categoria, qualora la stessa non rispetti i criteri costituzionali di retribuzione adeguata e proporzionata di cui all’articolo 36 della Costituzione.

La vicenda sottoposta al giudizio della Corte era quella di soci e/o dipendenti di cooperative a cui veniva applicato il CCNL Servizi fiduciari e corrisposta, a fronte di un rapporto full-time, la paga lorda mensile di circa euro 930 mensili.

Ha stabilito la Corte che in tal caso, il giudice possa servirsi ai fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini per mansioni analoghe.

Sempre in tema di retribuzione per i soci dipendenti, si pone il successivo DL n.248/2007 che all’articolo 7 comma 4 prevede che nel caso di possibile applicazione di contratti della medesima categoria, vanno applicati i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli stabiliti dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.

La disposizione è finita al vaglio della Corte Costituzionale in quanto ritenuta in contrasto con il principio di libertà sindacale enunciato dall’articolo 39 della Costituzione.

La Corte Costituzionale con la decisione n.51 del 2015 riteneva però come l’attuazione in via legislativa dell’articolo 36 della Costituzione mediante il richiamo alla contrattazione collettiva vigente non significava il riconoscimento erga omnes dei contratti collettivi, ma l’utilizzazione degli stessi quali semplici parametri esterni con effetti vincolanti.

Stato di crisi e riduzione della retribuzione.

Per poter legittimamente procedere alla retribuzione dei compensi di fronte all’insorgere di uno stato di crisi, debbono realizzarsi dei puntuali e precisi requisiti come afferma Cassazione 8.2.2021 n.2967 che stabilisce la necessità di dimostrare la temporaneità della misura tramite la fissazione di un termine e la serietà e consistenza degli interventi apprestati.

Stato di crisi e rispetto del minimale contributivo.

Come abbiamo visto, l’articolo 6 della legge n.142/2001 nel caso di deliberazione dello stato di crisi consente di ridurre la retribuzione dei soci al di sotto dei minimi del contratto applicato.

In questo caso, ci si chiedeva, se di fronte all’ipotesi di riduzione della retribuzione al di sotto dei minimali contributivi di cui all’articolo 1 del DL 338/1989, la cooperativa fosse tenuta a rispettare il cosiddetto minimale contributivo.

La Cassazione, Sezione Lavoro 4.6.2019 n.15172 ha stabilito che la regola del cosiddetto minimale contributivo si applica anche nel caso in cui una cooperativa deliberi in base all’articolo 6 della legge 142 del 2001 lo stato di crisi che comporti la riduzione della retribuzione dei soci al di sotto dei minimi contrattuali di categoria, non rientrando la delibera che dichiara la crisi tra le fonti che individuano la retribuzione minima da assumere come parametro per il calcolo dei contributi.

Fabio Petracci

Basse retribuzioni. Basta una legge sul salario minimo?

In questi ultimi tempi, si è molto parlato di salario minimo in termini estremamente contrapposti, facendone da una parte una bandiera e dall’altra l’oggetto di una decisa opposizione.

L’argomento è reso attuale dal basso livello delle retribuzioni nel nostro paese che non solo non crescono, ma tendono addirittura a faticare nell’adeguarsi all’inflazione.

Scopriamo però come il tema dei bassi salari non possa esclusivamente risolversi tramite norme di legge, ma imponga di valutare l’intera situazione del lavoro e dell’economia nel nostro paese.

Qui troveremo un argomento ripetutamente segnalato da CIU-Unionquadri, individuato nella mancata valorizzazione dei lavoratori della conoscenza, della meritocrazia e della formazione di imprenditori e manager.

Appare semplicistico, ma anche fuorviante parlare solo di retribuzioni, di retribuzioni minime e di una sostanziale perdita del valore di acquisto della retribuzione in Italia.

Il tema va affrontato sul piano della qualità e quantità del lavoro, della produttività e della retribuzione dei lavori della conoscenza.

In realtà una delle variabili che determinano il salario è data dalla qualità del lavoro.

Nel 2022 in base ai dati OCSE risultava nel nostro paese una diminuzione del salario medio dal 1990 pari al 2,9%, contro una crescita in tutti restanti paesi dell’organizzazione.

Una delle prime cause di questa situazione è ascrivibile al PIL italiano che non ha ancora recuperato i dati anteriori al 2008.

Oggi nel nostro paese, la percentuale degli occupati con contratto di lavoro subordinato si aggira intorno al 50% contro il 40% degli anni ‘90.

Non va però dimenticato come molti di questi occupati lavorino con contratti a part time, a tempo determinato, a chiamata, o contratti stagionali (contrati che contribuiscono ad abbassare la media salariale).

Nel contempo è in aumento anche il tasso di ingressi ed uscite dai rapporti di lavoro.

Sommando questi fattori comprendiamo, almeno parzialmente, la dinamica verso la compressione del salario medio.

Notiamo in tal senso che tale diminuzione risulta superiore al tasso di inflazione.

Un altro aspetto però va rimarcato.

In Italia, mancano lavori di qualità connotati da salari alti.

In sostanza, manca il lavoro di qualità e dove presente è mediamente poco retribuito.

Sono scarsi e talora poco pagati i lavori della conoscenza e del talento.

Del resto, se non creiamo opportunità di lavoro in questo settore e non operiamo maggiori compensi, rispetto ad altri paesi non avremo maggiore sviluppo e maggiore incremento dei salari e non solo di quelli di alto livello, ma anche dei normali livelli salariali che dovrebbero giovarsi della maggiore produttività.

A quanto riferisce Andrea Guarnero economista dell’OCSE Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, si aggiungono nel caso italiano a questi fattori di bassa crescita dei salari, l’inefficienza del settore pubblico, una scarsa meritocrazia, oltre che una contrattazione aziendale poco sviluppata.

Lo studioso vi aggiunge un aspetto altrettanto interessante come la mancata rivoluzione industriale degli anni novanta.

Rileva come non sia stato sufficiente fornire ai lavoratori adeguati strumenti tecnologici, senza fornire un’assistenza ed una istruzione e formazione adeguata, per usarli al meglio.

Altrettanto negativamente, secondo il medesimo studioso, rileva la bassa istruzione e formazione tanto dei manager che degli imprenditori.

Fabio Petracci

Lo smart working nella Pubblica Amministrazione

Lo Smart Working (o Lavoro Agile) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.

La legge n. 81/2017 disciplina il lavoro agile inserendolo in una cornice normativa e fornendo le basi legali per la sua applicazione anche nel settore pubblico. Con la Direttiva n. 3 del 2017 in materia di lavoro viene avviata ufficialmente la sperimentazione del “lavoro agile” anche nelle Pubbliche Amministrazioni.

Nel 2020, a seguito del diffondersi della pandemia da Covid-19 sono stati emanati una serie di provvedimenti per semplificare l’accesso allo Smart Working e diffonderne al massimo l’utilizzo nella PA.

Il 1° gennaio 2024 è ufficialmente terminato lo smart working “emergenziale” per i lavoratori della pubblica amministrazione.

Nel frattempo, la normativa ha previsto che, entro il 31 gennaio di ciascun anno, le amministrazioni pubbliche redigano, sentite le organizzazioni sindacali, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), quale sezione del Piano della performance.

Il POLA individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 15% dei dipendenti possa avvalersene, garantendo che gli stessi non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera.

Il POLA definisce, altresì, le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative.

Successivamente, il POLA è stato integrato nel PIAO, “Piano Integrato di Attività e Organizzazione”, che accorpa in un unico documento, i piani della performance, del lavoro agile, della parità di genere, dell’anticorruzione e ha durata triennale con aggiornamento annuale, con obbligo di pubblicazione entro il 31 dicembre di ciascun anno.

Una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano ha rilevato come nel 2023 lo smart working in Italia sia aumentato grandi imprese e nelle PMI, ma diminuito nella PA, dove ne hanno usufruito solo 515.000 addetti, il 16% del totale.

Natura delle Autorità Portuali e dei rapporti di lavoro con le stesse: quale normativa in tema di mansioni e di inquadramento?

Prima della legge 84/94

Gli enti portuali che precedettero la creazione delle Autorità Portuali intrattenevano una gran varietà di rapporti giuridici che andavano dall’attività di controllo della portualità alle connesse operazioni portuali.

Allorquando entrava in vigore il DLGS 29/93 riconduzione della gran parte del pubblico impiego alla disciplina del codice civile, nessun problema si poneva per gli enti portuali che, in quanto definiti enti pubblici economici, non rientravano nella disciplina della nuova legge.

Il personale impiegato in tutti i livelli nell’ambito dei porti aveva un contratto collettivo ed il relativo rapporto di lavoro era da sempre disciplinato dal diritto privato.

Con la legge 84/94

Con l’entrata in vigore della legge 84/1994 (Riordino della legislazione in materia portuale) sono istituite le Autorità Portuali poi divenute con il decreto legislativo 169/2016 Autorità di Sistema Portuale, che assumono compiti amministrativi e di gestione demandando ai privati la vera e propria attività portuale di impresa. Ne risulta come le Autorità Portuali poi Autorità di Sistema Portuali assumano funzioni similari a quelle di strutture amministrative pubbliche.

Ne risente dunque anche la definizione giuridica, laddove il comma 5 del citato articolo 6 della legge 84/1994 definisce l’Autorità di Sistema Portuale come ente pubblico non economico di rilevanza nazionale ad ordinamento speciale dotato di autonomia amministrativa, organizzativa, regolamentare, di bilancio e finanziaria.

Dopo l’entrata in vigore del DLGS 169/2016 – Il chiarimento.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 169/2016 mediante l’articolo 6 è chiarita se non la natura dei rapporti di lavoro con le stesse, perlomeno la disciplina del rapporto di lavoro.

Stabilisce l’articolo 6 comma 5 della legge 84/1994 come modificato dal DLGS 169/2016 che ai rapporti di lavoro con le autorità portuali di sistema si applicano i principi di cui al titolo I del DLGS 165/2001 e quindi non l’intero testo unico.

Il successivo comma 6 stabilisce che il personale dirigenziale e non dirigenziale delle istituite Autorità di Sistema Portuale è assunto mediante procedure selettive di natura comparativa, secondo principi di adeguata pubblicità, imparzialità, oggettività e trasparenza, in coerenza con quanto stabilito dall’articolo 10, comma 6.

In sostanza il Titolo I del Testo Unico del Pubblico Impiego riguarda i principi generali della legge, nonché gli articoli 6, 6 bis, 6 ter, che riguardano le assunzioni del personale ed il conferimento di incarichi a terzi.

Precedentemente all’emanazione del DLGS 169/2016 il comma 2 dell’articolo 6 della legge 84/1994 si limitava a prevedere che alle Autorità Portuali non dovevano applicarsi le disposizioni di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 e successive modificazioni nonché le disposizioni di cui al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, fatta eccezione per quanto specificamente previsto dal comma 2 dell’articolo 23 della presente legge (disposizioni in materia di passaggio alle Autorità Portuali del personale dei Porti).

Era inoltre modificato con il DLGS 169/2016, l’articolo 10 comma 6 della precedente legge 84/94 prevedendosi espressamente che il rapporto di lavoro del personale delle Autorità di sistema portuale è di diritto privato ed è disciplinato dalle disposizioni del codice civile libro V – titolo I – capi II e III, titolo II – capo I, e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa.

Il suddetto rapporto è regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro, sulla base di criteri generali stabiliti con decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione, che dovranno tener conto anche della compatibilità con le risorse economiche, finanziarie e di bilancio; detti contratti sono stipulati dall’associazione rappresentativa delle Autorità di sistema portuale per la parte datoriale e dalle organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative del personale delle Autorità di sistema portuale per la parte sindacale.

L’orientamento della Corte di Cassazione. L’articolo 2103 non si applica limitatamente all’accesso alla dirigenza.

A conferma del fatto che le norme concernenti nomine ed assunzioni partecipano alla normativa dell’impiego pubblico, la Cassazione, Sezione Lavoro Ordinanza 6.10.2020 n.21484 ha ritenuto che l’assunzione della qualifica dirigenziale presso le autorità portuali, aventi natura di enti pubblici economici, è sottratta alla disciplina di acquisizione automatica della qualifica superiore fissata dall’art. 2103 c.c., in quanto l’immissione nei ruoli dirigenziali, anche nel caso consegua ad una progressione verticale, è equiparabile al reclutamento esterno ed attiene alla fase della costituzione del rapporto di lavoro, retta dai principi fissati dall’art. 97 Costituzione.

La Corte Costituzionale – procedure selettive solo per il passaggio alla dirigenza.

Di seguito con ordinanza del 9 agosto 2022 n.145, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione sollevava in riferimento all’articolo 97 della Costituzione degli articolo 6, comma 2e 10 comma 6 della legge 84/94 laddove  entrambe le disposizioni in violazione della regola del concorso pubblico, consentivano ai dipendenti delle Autorità Portuali di accedere in via automatica ad una qualifica superiore in ragione dell’applicazione dell’articolo 2103 del codice civile e quindi per l’effetto dello svolgimento di fatto delle mansioni superiori.

La Consulta, dopo un ampio esame, della disciplina del personale delle ADSP (Autorità di Sistema Portuale) ha ristretto l’applicazione delle norme di cui al DLGS 165/2001 all’assunzione del personale attraverso procedure selettive di natura comparativa e come tali procedure avrebbero dovuto essere altresì attuate per il passaggio alla categoria dirigenziale.

Diversamente riteneva la Consulta per quanto atteneva il passaggio da un’area all’altre della carriera impiegatizia e per le restanti regole afferenti all’inquadramento in quest’ultima carriera.

Sosteneva la Consulta nell’ordinanza citata come l’articolo 10, comma 6 della legge 84/1994 anche nella parte ad oggi vigente prevede che il rapporto di lavoro del personale della Autorità di Sistema Portuale sia di diritto privato e quindi disciplinato nei limitati di cui al già menzionato articolo 6, dalle norme del codice civile e dalla contrattazione collettiva e che quindi non andava di conseguenza applicato, in quanto non richiamato dal DLGS 169/2016 e quindi dall’articolo 6 della legge 84/94,  l’articolo 52 del DLGS 165/200 che detta una speciale normativa in tema di inquadramento e di mansioni.

Riteneva quindi la Consulta che l’applicazione dell’articolo 2103 esulava completamente dalla materia concorsuale e non sussisteva quindi nell’applicazione dell’articolo 2103 del codice civile violazione alcuna del principio costituzionale di cui all’articolo 97 della Carta Costituzionale.

Ne discende che:

La disciplina concernente l’accesso alla dirigenza è sottratta alla disciplina del codice civile e quindi all’articolo 2103 dello stesso, dovendosi considerare accesso a separato rapporto di lavoro.

Per il resto del rapporto di lavoro del personale delle Autorità Portuali, il primo accesso all’impiego avviene attraverso procedura selettiva, mentre le successive vicende sono disciplinate dal codice civile e dalle leggi sul lavoro.

Ne discende che in materia di contrattazione collettiva, valgono le norme ordinarie del lavoro e non quelle del DLGS 165/2001.

Nello specifico, l’ordinamento contrattuale delle carriere non dirigenziali, non sarà soggetto all’articolo 52 del DLGS 165/2001, ma alle ordinarie regole contrattuale ed all’articolo 2103del codice civile (mansioni di fatto, promozione automatica, possibilità di dequalificazione di un livello in caso di ristrutturazione aziendale).

Inoltre, il datore di lavoro Autorità Portuale, sebbene di sicura natura pubblica, nello stabilire le regole dell’inquadramento non sarà tenuto ad utilizzare i criteri del pubblico impiego (posizioni organizzative etc) ma lo dovrà fare esclusivamente per la dirigenza.

Fabio Petracci

 

Il nesso di causalità quale elemento costitutivo dell’illecito extracontrattuale

Nel diritto civile è considerato illecito, e, dunque, fonte di responsabilità risarcitoria, l’atto che lede posizioni giuridiche altrui. In virtù dell’art. 2043 c.c., qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Sono elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale: il fatto, il dolo o la colpa, il danno ingiusto, il nesso di causalità. Quest’ultimo elemento costitutivo riguarda sia il collegamento della condotta all’evento lesivo (causalità di fatto) sia la determinazione del danno risarcibile (causalità giuridica).

L’illecito civile ha una struttura diversa da quello penale.

In ambito penalistico è necessario accertare se la condotta umana abbia prodotto l’evento che costituisce il fatto-reato.

Nell’ambito della responsabilità civile, tale verifica non è considerata sufficiente, sarà necessario, infatti, accertare anche se da quella lesione siano derivate conseguenze pregiudizievoli.

In sede civile, la lesione dell’interesse protetto non costituisce il danno, ma la causa di quest’ultimo.

È, pertanto, necessario accertare due nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la lesione dell’interesse e quello tra la lesione dell’interesse e il danno risarcibile.

La prima verifica attiene alla causalità materiale, mentre la seconda riguarda la causalità giuridica. Gli unici riferimenti normativi si rinvengono negli artt. 2043 c.c. e 1223 c.c.

Quest’ultimo, secondo l’opinione prevalente, si riferisce al nesso di causalità giuridica a sua volta richiamato dall’art. 2056 cc.

Nel codice civile, a differenza del codice penale, manca una definizione del nesso di causalità materiale.

Preso atto della lacuna legislativa esistente, l’orientamento giurisprudenziale tradizionale afferma che il riferimento normativo è da ricondurre ai principi delineati negli artt. 40 e 41 c.p.

La causalità materiale, definita altrimenti come causalità fondativa è quella che fonda la responsabilità, mentre la causalità giuridica, viene definita come causalità descrittiva della responsabilità; ove sussista la prima, si rinviene l’illecito, ove ricorra anche la seconda sarà configurabile, altresì, il danno.

Con riguardo alla causalità materiale esistono diverse teorie comuni al diritto penale.

Secondo la teoria della condicio sine qua non la condotta illecita è causa dell’evento dannoso se in mancanza della prima, attraverso l’eliminazione mentale o ipotetica della condotta, l’evento non si sarebbe verificato.

La debolezza del paradigma è rinvenuta nel fatto che, anche eliminando mentalmente ogni semplice occasione di un evento, si ha l’impressione che essa sia stata causa di quest’ultimo, con la conseguenza che la catena causale diventerebbe infinita, senza valutazioni qualitative dell’effettiva incidenza eziologica delle varie circostanze che hanno portato all’evento.

La rigidità del criterio è temperata dall’applicazione del 2 comma dell’art. 41 c.p. secondo cui “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”.

La dottrina maggioritaria ritiene che la norma imponga un giudizio valutativo sull’efficacia causale delle varie circostanze; il nesso di causalità sarà escluso quando rispetto alla circostanza che si sta eliminando mentalmente, esemplificativamente: un incidente che comporta il ricovero in ospedale del paziente, ve n’è un’altra: precedente, concomitante o sopravvenuta (caso fortuito o forza maggiore) come un terremoto che determina il crollo dell’ospedale, dotata di efficienza causale assolutamente prevalente rispetto alla circostanza che si sta eliminando mentalmente, nei confronti dell’evento che si verifica, nel caso di specie, ad esempio: la morte del ricoverato.

La teoria della causalità adeguata impone, infatti, una valutazione qualitativa delle circostanze presenti lungo la linea causale dell’evento sostituendo alla mera eliminazione mentale ex post della circostanza una vera e propria valutazione, pur sempre meramente ipotetica, ex ante sull’idoneità della medesima a produrre l’evento in termini ipotetici e, dunque, probabilistici.

L’impostazione della teoria della causalità adeguata è stata perfezionata da altre teorie tese ad individuare i criteri per valutare l’efficienza causale di una circostanza rispetto ad un evento.

La teoria del rischio specifico propone, invece, di valutare se l’evento è concretizzazione del rischio creato dalla condotta negligente dell’agente.

L’impostazione si avvicina a quella dello scopo della norma violata secondo cui l’evento è riconducibile causalmente alla condotta se la norma mirava proprio ad impedirlo, si pensi ad esempio all’investimento di un pedone per eccesso di velocità nel centro abitato.

La tesi, nata nell’ambito della responsabilità per omissione trova operatività anche nell’illecito extracontrattuale, necessariamente commissivo. Infine, la tesi della sussunzione del rapporto tra condotta ed evento sotto leggi scientifiche, se note, o statistiche negli altri casi, al fine di verificare l’efficienza eziologica di una causa presunta.

Ad ogni modo, nonostante il richiamo ai principi penalistici, ciò che cambia nell’accertamento della causalità materiale dalla responsabilità civile a quella penale è il coefficiente probabilistico finale.

Mentre, infatti, nel diritto penale il regime probatorio trova fondamento nella regola della prova” oltre il ragionevole dubbio”, per la causalità materiale, in ambito civilistico, opera il criterio della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n.581) inteso sotto il profilo della probabilità logica oltre che statistica.

Secondo l’espressione usata dall’articolo 1223 c.c. la causalità giuridica limita i danni risarcibili a quelli che sono conseguenza immediata e diretta dell’atto illecito. La norma impedisce che, una volta accertato il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento siano risarcibili tutti i danni subiti in occasione dell’illecito.

Il criterio è sostanzialmente empirico, e rappresenta un valido strumento a disposizione del giudice per risolvere le peculiarità del caso concreto, limitando i danni risarcibili a quelli che sono dotati di una certa regolarità causale.

Per la causalità giuridica che riguarda il rapporto dell’interesse leso dal fatto illecito e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate, occorre, dunque, fare riferimento alla regola stabilita dall’articolo 1223 c.c. Il filtro imposto da questa norma prevede la risarcibilità della sola causalità immediata e diretta, da valutare sulla base dei medesimi parametri della preponderanza dell’evidenza sopracitati.

La Cassazione, con una recente pronuncia (Cass. Sez. III, 26 aprile 2023, n. 10978), ha ribadito che il criterio della preponderanza dell’evidenza rimane lo standard probatorio in materia civile. Sarà sufficiente, infatti, un grado di certezza inferiore rispetto a quella richiesta in ambito penale ove trova

applicazione l’art. 533 c.p.p. che legittima la condanna solo quando l’imputato risulti colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Jessica Destradi

L’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro?

In sintesi approssimativa, potremmo definire l’intelligenza artificiale come la facoltà e l’abilità di delegare ad una macchina le capacità umane di apprendimento, ragionamento, creatività.

In concreto e grazie all’acquisizione di queste doti, l’intelligenza artificiale riesce a pianificare ragionamenti e azioni adattandovi il relativo comportamento.

In maggior dettaglio, l’intelligenza artificiale consente non solo l’acquisizione di dati e informazioni, ma anche l’interazione con l’esterno mediante il raggiungimento di obiettivi ed il rispetto di vincoli anche al fine di appropriate decisioni, realizzando l’intelligenza artificiale veri e propri processi decisionali.

Come si confronta una simile evoluzione con il mondo del lavoro?

L’attuale mondo del lavoro è segmentato per categorie (articolo 2095 del codice civile – contrattazione collettiva) che rispecchiano il livello di professionalità di ciascun soggetto.

Partiremo dalla rivoluzione informatica che in qualche modo è intervenuta principalmente sulle professionalità medio – basse, permettendo l’immagazzinamento di ogni tipologia di dati e la loro diffusione per preconizzare gli effetti dell’intelligenza artificiale destinata a gestire e sostituire l’azione intellettuale.

Come è destinata a rapportarsi con il mondo del lavoro?

Da quanto si qui esposto, gli effetti dell’intelligenza artificiale paiono destinati a ripercuotersi su ogni tipo di professionalità, ma in particolare su quelle medio – alte, quali quadri, dirigenti, professionisti con tutta una serie di opportunità e rischi che andremo ad esaminare.

Il primo aspetto che prende corpo è quello della sostituzione robotica che potrebbe coinvolgere molti soggetti anche qualificati del mondo del lavoro.

Ma, anche altre problematiche sono indotte dal cambio degli schemi e delle metodologie del lavoro.

Ci riferiamo a quel fenomeno che viene definito quale tecno stress, diritto alla disconnessione, invasività delle forme di lavoro a distanza, ma soprattutto dalla necessità per il lavoratore di doversi misurare e di dover seguire nuove impostazioni attuate dalla macchina.

Questa sfida non può naturalmente risolversi in un rifiuto del nuovo o magari in una iper regolamentazione delle attività.

Alcune correnti di pensiero come Ichino (relazione presentata al convegno promosso dall’Associazione Giuslavoristi Italiani, Torino, 15 settembre 2017) presentano una visione sostanzialmente ottimistica degli effetti del progresso tecnologico sul lavoro.

Afferma testualmente lo studioso “Sono portato a dar credito alla visione della “corsa tra automazione e creazione di nuovi mestieri” come un fenomeno ciclico: ogni ventata di innovazione tecnologica determina una riduzione del costo del lavoro che a sua volta incentiva l’invenzione di nuove funzioni da attribuire al lavoro umano, donde un freno ai nuovi investimenti in innovazione tecnologica”.

Si ravvisa invece la necessità di modificare il contesto lavorativo per evitare la spersonalizzazione dello stesso ed attuare misure idonee a sviluppare la potenzialità del capitale umano, quali la formazione continua, il benessere lavorativo, la specifica attenzione al lavoro intellettuale e soprattutto alle professionalità medio alte.

Grande importanza è attribuita dagli studiosi ed in particolare dal già citato Ichino al Welfare aziendale soprattutto sotto l’aspetto della formazione continua dei dipendenti atta ad evitare l’obsolescenza delle professionalità se non addirittura il riposizionamento del lavoratore nell’ambito del contratto di lavoro, favorendone l’evoluzione verso un contratto ibrido formato da due parti, una collettiva deputata alla tutela ed alla sicurezza ed un’altra di natura individuale attenta all’evolversi della professionalità ed ai relativi mutamenti.

Nel trarre queste conclusioni si ritiene che alla fine la tecnologia sia destinata a supportare il lavoro umano anziché a sostituirlo.

Viene così citata la telemedicina, i controlli che assistono un pilota d’aereo o di automobile mediante il computer, la possibilità di lavoro, grazie alle nuove tecnologie, di entrare nel mondo del lavoro anche per i disabili.

In sostanza, qualsiasi conclusioni si vogliano trarre non si può negare il ruolo di propulsione verso il nuovo e di salvaguardia della professionalità rappresentato dal Lifelong Learning come da raccomandazione del Consiglio d’Europa del 22 maggio 2018 (2018/C 189/01).

Fabio Petracci

Il disegno di legge in materia di Intelligenza Artificiale

In data 13 marzo 2024 il Parlamento Europeo ha approvato l’IA Act, di cui è attesa la pubblicazione. Nel frattempo, il Consiglio dei Ministri, ha approvato un disegno di legge per l’introduzione di disposizioni e la delega al Governo in materia di intelligenza artificiale.

Il disegno di legge italiano non si sovrappone al Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale ma ne accompagna il quadro regolatorio in quegli spazi propri del diritto interno, tenuto conto che il regolamento europeo è impostato su un’architettura di rischi connessi all’uso della intelligenza artificiale (IA).

Le norme intervengono in cinque ambiti:

  • la strategia nazionale;
  • le autorità nazionali;
  • le azioni di promozione;
  • la tutela del diritto di autore;
  • le sanzioni penali.

Si prevede, inoltre, una delega al governo per adeguare l’ordinamento nazionale al Regolamento UE in materie come l’alfabetizzazione dei cittadini in materia di IA (sia nei percorsi scolastici che in quelli universitari) e la formazione da parte degli ordini professionali per professionisti e operatori.

La delega riguarda anche il riordino in materia penale per adeguare reati e sanzioni all’uso illecito dei sistemi di IA.

Le norme prevedono che il ciclo di vita dei sistemi e dei modelli di intelligenza artificiale debba basarsi sul rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà dell’ordinamento italiano ed europeo oltre che sui principi di trasparenza, proporzionalità, sicurezza, valorizzazione anche economica del dato, protezione dei dati personali, riservatezza, robustezza, accuratezza, non discriminazione, parità dei sessi e sostenibilità.

Vengono altresì specificati i principi che caratterizzano lo sviluppo e soprattutto la concreta applicazione nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale dell’uomo, della prevenzione del danno, della conoscibilità, della spiegabilità.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale non deve infatti pregiudicare la vita democratica del Paese e delle istituzioni.

L’utilizzo dei sistemi di IA nei mezzi di comunicazione deve avvenire senza pregiudizio ai principi di libertà e pluralismo alla libertà di espressione e del diritto all’obiettività, completezza, imparzialità e lealtà dell’informazione.

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Il G.D.P.R. a cinque anni dalla sua applicazione. L’impatto delle nuove tecnologie tra privacy e cybersicurezza, intelligenza artificiale e Quantum Computing

CIU UNIONQUADRI è l’associazione sindacale delle Alte Professionalità.

Come tale, essa annovera tra i propri componenti un nucleo di DPO Data Protection Officier la cui mansione consiste nel sovrintendere alla corretta gestione dei dati sensibili degli utenti trattati presso aziende e amministrazioni pubbliche.

Il DPO può operare tanto come lavoratore dipendente sia come lavoratore autonomo.

Unitamente a quest’ultima categoria CIU UNIONQUADRI, rappresentata al CNEL, ha curato presso quest’ultima Istituzione il convegno intitolato “Il G.D.P.R. a cinque anni dalla sua applicazione. L’impatto delle nuove tecnologie tra privacy e cybersicurezza, intelligenza artificiale e Quantum Computing”, convegno tenutosi al CNEL in data 8 aprile 2024.

L’iniziativa avviata da CIU Unionquadri è stata patrocinata dal CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e dal CESE – Comitato economico e sociale europeo.

In apertura dei lavori, il Presidente del CNEL professor Renato Brunetta ha evidenziato i cambiamenti apportati dalla transizione digitale e da ultimo dall’intelligenza artificiale nell’ambito della società e dell’economia.

In tal senso, ha sottolineato il professor Brunetta, il CNEL quale Casa dei Corpi Intermedi, sta avviando un lavoro di analisi sugli inevitabili impatti che la trasformazione digitale può avere sul mercato del lavoro e sulla privacy. Siamo anche disponibili ad accogliere le istanze di chi si occupa di regolazione, per definire proposte di legge in questa materia.

In merito alla tipicità dei DPO nell’ambito dei lavoratori della conoscenza, si è soffermata la Presidente di CIU Unionquadri dottoressa Gabriella Ancora.

Dopo l’introduzione del Presidente Brunetta, sono intervenuti relatori di primo piano a livello nazionale ed europeo; Francesco Riva, Consigliere CNEL per CIU-Unionquadri; Fabio Petracci, Vice Presidente CIU-Unionquadri; Maurizio Mensi, Consigliere CESE per CIU-Unionquadri; unitamente ad altre testimonianze di esperti e professionisti del settore, fra cui Paolo La Bollita; Serena Urbano; Marcella Esposito; Antonio Bubici; Francesco Cresti; Vito Donato Grippa; Elisa Lazzaro; Alberto Tarlao.

Ne è emerso un quadro completo dell’applicazione ad oggi della normativa di protezione dei dati e delle problematiche emerse e la disponibilità dell’associazione a collaborare in ogni attività conoscitiva e legislative che dovesse essere intrapresa.

 

Fabio Petracci