La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna sull’·articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza […]

Interpretazione autentica dell’articolo 38 del DLGS 81/2015. Licenziamento e somministrazione illecita di manodopera.

Il licenziamento intimato dal somministrante è privo di effetto provenendo da chi non è reale datore di lavoro.

A chiarimento di fondati dubbi di dottrina e giurisprudenza interviene il DL 19.5.2020 e successiva legge di conversione n.77/2020 che stabilisce l’interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento.

Per comprenderne la portata giova la ricostruzione della normativa che pareva aver introdotto un duplice licenziamento ( o meglio con duplice imputazione)  per il lavoratore che aveva avuto la ventura (meglio sventura) di lavorare nell’ambito di una illecita somministrazione di manodopera.

  1. La questione.

In tema di somministrazione irregolare, il reale utilizzatore quasi mai, per evidenti motivi, provvede al licenziamento del lavoratore che viene invece effettuato dal datore di lavoro apparente.

Per costante indirizzo giurisprudenziale, non era riconosciuto al datore di lavoro apparente il potere di licenziare e quindi, il recesso da questi intimato doveva considerarsi come mai avvenuto e pertanto, il rapporto di lavoro era destinato a proseguire con l’utilizzatore il quale avrebbe dovuto così direttamente assumersi l’onere del licenziamento.

Tra il 2011 ed il 2015 tra collegato lavoro e jobs act, sono state emanate diverse norme atte ad evitare che delle tardive le azioni per il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo ad un determinato soggetto potessero avere per l’impresa, dato il passare del tempo ed il pieno e la decorrenza del diritto, effetti devastanti sui soggetti datori di lavoro che subivano l’azione.

L’articolo 32 della legge 4.11.2010 n.183 (collegato lavoro) estende così i termini di decadenza per l’impugnazione del licenziamento (60 giorni per l’impugnazione e da questi 180 giorni per l’avvio del contenzioso) a tutti i casi dove il ricorrente chieda la costituzione di un rapporto di lavoro diverso dal formale titolare, ivi compresa l’ipotesi di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003.

Dunque nel caso di somministrazione irregolare, il lavoratore che avesse voluto ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro intercorrente con l’utilizzatore avrebbe dovuto agire a pena di decadenza entro i predetti termini.

Ponendosi l’interrogativa da quando far decorrere il termine di decadenza, appare ragionevole ritenere che esso coincida con la cessazione del rapporto oggetto della somministrazione.

A questo punto però la questione si complica alquanto.

  • L’interpretazione dell’articolo 27 del DLGS  276/2003 e del successivo articolo 38 del DLGS 81/2015.

L’articolo 27 del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno, stabiliva  al comma 2 che nel caso di riconoscimento del rapporto di lavoro in capo al reale utilizzatore, tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino alla  concorrenza della somma effettivamente pagata e che inoltre tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, dovevano intendersi  come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.

La norma quindi imputa ad entrambi i soggetti somministrante illegittimo e destinatario della somministrazione ogni atto inerente il rapporto di lavoro del somministrato irregolare.

Non vi era espressa menzione del licenziamento che si sarebbe potuto intendere anche alla stregua di uno degli atti concernenti la gestione del rapporto.

La norma appena esaminata era abrogata dal DLGS 81/2015 che all’articolo 38 così dispone:

1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.

2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione.

3. Nelle ipotesi di cui al comma 2 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. (71)

4. La disposizione di cui al comma 2 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

Rimaneva quindi ferma la previsione o meglio interpretazione che vuole imputabili ad entrambi i soggetti somministrante e somministrato l’imputazione degli atti di gestione del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza della Suprema Corte avvallava una simile interpretazione (Cassazione 13.9.2016 n.17969).

Affermava la Suprema Corte che l’articolo 27 del DLGS 276/2003 disponendo, in maniera espressa ed inequivoca che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto, si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”, sancisce che l’utilizzatore subentra nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore.

Doveva , pertanto, ritenersi, statuiva la motivazione della sentenza, che, vi fosse , un’ unica matrice, per quel che riguarda la tipologia di lavoro, che viene ricondotto all’utilizzatore negli stessi termini in cui era stato voluto (costituito) e poi gestito dal somministratore,  per quanto riguarda tutti  gli atti di gestione del rapporto che producono quindi, per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento.

Ne conseguiva, secondo la Cassazione, che il licenziamento anche se intimato, come nella fattispecie in esame, dal somministratore avrebbe dovuto essere impugnato nei sessanta giorni successivi alla sua comunicazione, pena la ordinaria decadenza dell’azione di annullamento anche rispetto all’utilizzatore, non potendo ormai trovare applicazione i principi affermati da questa Corte con riguardo alla L. n. 1369 del 1960.

A conclusioni analoghe perveniva successivamente Cassazione n.6668 del 7.3.2019, la quale però aderiva alla tesi già formulata in precedenza dalla Corte in nome della funzione di nomofilachia della Corte medesima e non avendo la parte interessata formulato diverse ragioni a contestare detto orientamento.

Dunque conseguenza di questa previsione e della sua interpretazione, era il fatto che allorquando il fittizio datore di lavoro (somministrante illegittimo) licenziava il somministrato, il licenziamento avrebbe dovuto intendersi anche come proveniente dall’utilizzatore.

In realtà, molto tempo prima, ma già nella vigenza dell’articolo 27 DLGS 276/2003, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sentenza n.22910 del 26.10.2016) avevano diversamente ritenuto  come la normativa di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003 si presentasse come eccezione alla regola generale che imputa il rapporto di lavoro a chi effettivamente instaura il contratto, e come a tale  eccezione non poteva aggiungersi l’ipotesi non prevista del licenziamento e dei suoi effetti da imputarsi ad entrambi i soggetti imprenditore illegittimamente somministrante ed utilizzatore della prestazione.

  • Altre considerazioni d’ordine costituzionale e comunitario.

Oltre a quest’ultima autorevole giurisprudenza, militano a favore di queste ultime conclusioni altre considerazioni anche di ordine costituzionale e comunitario.

L’interpretazione che vuole come tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione e la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, verrebbe ad imporre, come abbiamo visto, l’impugnazione nei confronti di quest’ultimo, del licenziamento in sede stragiudiziale e giudiziale entro limiti temporali a pena di decadenza e nell’ambito della motivazione adotta dal datore di lavoro fittizio (illecito somministratore).

Su tale base, si finirebbe per pretendere che il dipendente illecitamente somministrato debba impugnare un licenziamento intimato da chi (irregolare somministrante) non è realmente il suo datore di lavoro e quindi, sulla base di una motivazione inerente un rapporto di lavoro che non lo riguarda, o ancor meglio non esiste e comunque proviene da un soggetto terzo (somministratore).

Infatti, il somministratore che non è datore di lavoro non ha il potere di licenziare né comunque può giustificare il licenziamento con fatti che riguardano alla fine un soggetto estraneo al rapporto. Il potere, in questo caso, gli viene attribuito sulla base di una “fictio” di natura legale e quindi nella stessa logica si imporrebbe una motivazione fittizia ed un onere di impugnare la stessa in merito alla quale è lecito nutrire dei dubbi.

La legge finirebbe così per creare un potere che non esiste e che non rispecchia una situazione reale, giungendo a simulare una situazione che come giusta causa o giustificato motivo potrebbe rendere legittimo il licenziamento.

Di fronte ad un tanto, non rimane che ribadire come il soggetto licenziato in questo caso non possa essere toccato da fatti giuridici limitati alla sfera di un soggetto estraneo al rapporto di lavoro.

La questione si pone in maniera ancor più evidente e reale di fronte a quello che, come la motivazione, è, nel nostro ordinamento, e non solo, il primo requisito di legittimità del recesso.

La motivazione del licenziamento deve assolutamente essere reale e pertinente al contesto lavorativo, altrimenti non è una vera motivazione.

La motivazione è un elemento fondamentale del licenziamento e la sua violazione involge anche aspetti di costituzionalità e di coerenza con la normativa comunitaria.

La legge a questo punto non può automaticamente trasferire ad un soggetto terzo le ragioni esplicitate da altri per giustificare il recesso.

Appare irragionevole sostenere l’esistenza di una proprietà transitiva delle motivazioni e del potere di licenziare.

La legge potrebbe semmai imputare formalmente la provenienza dell’atto ad altro soggetto per quanto riguarda i termini e l’interruzione del rapporto, ma non potrà mai trasporre le ragioni da un soggetto all’altro.

La motivazione deve essere reale ed imputabile fattualmente al reale titolare   del rapporto.

Dunque, una lettura costituzionalmente orientata porta a ritenere vero atto di licenziamento solo quello proveniente dal soggetto che ha utilizzato la prestazione.

Una diversa lettura del secondo comma dell’articolo 27 DLGS 276/2003 e successivamente dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 finirebbe per collidere con l’articolo 3 della costituzione in quanto espone il soggetto somministrato a differenza di altri soggetti destinatari di licenziamento, sarebbe onerato ad impugnare una motivazione che non è in alcun modo rilevabile e contestabile presso il reale datore di lavoro. Tale differenza giustificata sino a quando sia necessario a far decorrere rapidamente e senza incertezza i termini di definizione della causa, non è più razionale e giustificata, allorquando impone ad un soggetto di contestare una situazione fattuale che non esiste.

Sempre in relazione all’articolo 3 della Carta costituzionale, la norma così intesa pare confliggere anche con il principio di ragionevolezza limite costituzionale al potere del legislatore (articolo 3 Costituzione).

La norma in effetti nel voler contemperare il giusto interesse dell’impresa a vedere una definizione in tempi ragionevoli di eventuali controversie per il riconoscimento di un rapporto di lavoro, penalizza in maniera senza dubbio abnorme il lavoratore che si trova a dover impugnare un recesso comunicato da un soggetto in relazione ad una situazione di fatto in essere presso altro soggetto, quando sarebbe stato sufficiente porre dei termini di decadenza per l’impugnazione di un licenziamento che proviene da chi di fatto non è il reale datore di lavoro.

La situazione delineata apre come già accennato, anche altri notevoli interrogativi d’ordine costituzionale e di conformità all’ordinamento comunitario.

Un simile impianto normativo collegato alle recenti modifiche apportate all’articolo 18 legge 300/70 dalla legge 92/2012 e di seguito dal Jobs Act sulle tutele crescenti DLGS 23/2015 che, nel caso di recesso soprattutto motivato come licenziamento economico, o addirittura privo di motivazione, potrebbero comportare la sola tutela risarcitoria, faciliterebbe in maniera irragionevole e abnorme l’utilizzatore della somministrazione illecita, che potrebbe giovarsi di motivazioni apparenti provenienti dall’illecito somministrante.

In pratica, il legislatore lungi dall’introdurre adeguate normative di tutela del posto di lavoro e di contrasto a forme illegittime di intermediazione realizzando così un contemperamento tra i principi costituzionali in tema di protezione del lavoro con quelli a promozione dell’imprenditorialità, si sostituisce al datore di lavoro che versa in una situazione di illecito, ed introduce delle norme atte a favorire un comodo recesso.

La norma così formulata e nella sua interpretazione letterale appare comunque contraria all’ articolo 4 della Carta Costituzionale, in quanto una simile lettura non agevola e favorisce l’accesso al lavoro e la sua conservazione.

Essa peraltro contrasta con l’articolo 24 della Costituzione in quanto finisce per violare il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti, dovendo il lavoratore impugnare e disattendere una motivazione necessariamente generica e fittizia.

Il tema trattato involge pure il diritto comunitario.

E’ vero che non sussiste direttiva comunitaria alcuna in tema di licenziamento, ma pur in assenza di una direttiva sul licenziamento individuale, il diritto europeo incide comunque su alcuni profili delle discipline nazionali, grazie, ad alcuni importanti principi di natura comunitaria in tema di politica sociale.

Ci riferiamo in primo luogo, all’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali UE che stabilisce il principio in base al quale ogni licenziamento deve trovare giustificazione.

Stabilisce l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ( tutela in caso di licenziamento ingiustificato) Che ““Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.”

La tutela, ad avviso di chi scrive, presuppone che il provvedimento provenga anche formalmente da chi ne pone in atto gli effetti e si basi su di una motivazione reale e conoscibile da parte del lavoratore.

Di seguito, si richiama pure l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che aggiunge alla tutela anche i mezzi per attuarla individuando un valido motivo legato alla condotta del lavoratore o al funzionamento dell’impresa datrice di lavoro.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione, rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Di seguito gli articoli 7 e 8 stabiliscono importanti regole procedurali a garanzia del lavoratore che contemplano il ricorso ad una autorità terza, e l’onere della prova della legittimità del licenziamento a carico del datore di lavoro, determinando in linea di massima gli obblighi riparatori.

  • In conclusione.

La norma di interpretazione autentica fa chiarezza su di un punto dove già la giurisprudenza sarebbe potuta intervenire anche in relazione alla autorevole pronuncia delle Sezioni Unite del 26.10.2006 n.22910.

Ora, il licenziamento proveniente dall’illecito somministrante, deve ritenersi “ tamquam non esset”.

Conformemente si è espressa la giurisprudenza di merito – Tribunale di Roma terza Sezione Lavoro Giudice Lionetti 3.2.2021 causa promossa dallo Studio Panici.

Fabio Petracci.

Vaccinazioni anti COVID 19 e poteri del datore di lavoro.

Le FAQ del Garante sul trattamento dei dati sulla vaccinazione nel contesto lavorativo.

Con la nota del 17 febbraio 2021 il Garante per la Privacy ha fornito mediante delle FAQ delle indicazioni in merito all’applicazione del GDPR (Regolamento Generale Protezione Dati)  all’atto delle vaccinazioni.

Ci troviamo in un ambito di diritto che attiene di sicuro la salute e la vita privata del cittadino lavoratore, ma che involge necessariamente aspetti di protezione pubblica.

Le FAQ, infatti, rispondono ai quesiti che vengono di seguito riportati:

  1. Il Datore di lavoro può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione?

Ha ritenuto il Garante che al Datore di lavoro non è concesso chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sull’avvenuta vaccinazione, né di consegnare copia dei relativi documenti.  Non è, infatti, ritenuto lecito ai sensi della disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tenuto conto inoltre del Considerando n. 43 GDPR, il Garante ha ritenuto che il consenso fornito dai dipendenti non costituisca una valida condizione di liceità del trattamento, stante la situazione di squilibrio nell’ambito del rapporto tra il soggetto titolare e il soggetto interessato nel contesto lavorativo.

Dunque il datore di lavoro non può acquisire dati e informazioni relativi allo stato di vaccinazione dei dipendenti anche in caso di consenso prestato da questi ultimi.

  • Il Datore di lavoro può chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati?

Ha ritenuto il Garante che il medico competente non è autorizzato a fornire al Datore di lavoro alcun dato relativo ai nominativi dei dipendenti che abbiano sostenuto il vaccino. L’attività di trattamento di questi dati è esclusivamente concessa allo stesso medico competente nell’ambito delle attività di sorveglianza e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica del lavoratore.

E’ invece, consentita al Datore di lavoro l’acquisizione dei giudizi di idoneità alla mansione specifica e le prescrizioni/limitazioni colà indicati.

3) La vaccinazione anti Covid-19 dei dipendenti può essere richiesta come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni (ad es. in ambito sanitario)?

Sul punto che appare abbastanza delicato anche in assenza di indicazioni legislative ed anche in relazione a determinate mansioni ove rileva la situazione sanitaria e di immunità del dipendente, il garante si richiama a quanto disposto dall’articolo 279 del DLGS 81/2008.

Stabilisce il predetto articolo che:

 I lavoratori addetti alle attività per le quali la valutazione dei rischi ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria.

2. Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:

a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente;

b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42.

3. Ove gli accertamenti sanitari abbiano evidenziato, nei lavoratori esposti in modo analogo ad uno stesso agente, l’esistenza di anomalia imputabile a tale esposizione, il medico competente ne informa il datore di lavoro.

4. A seguito dell’informazione di cui al comma 3 il datore di lavoro effettua una nuova valutazione del rischio in conformità all’articolo 271.

5. Il medico competente fornisce ai lavoratori adeguate informazioni sul controllo sanitario cui sono sottoposti e sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione dell’attività che comporta rischio di esposizione a particolari agenti biologici individuati nell’allegato XLVI nonchè sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione.

Nonostante l’espressa previsione dei vaccini come strumenti di sicurezza, di fronte a determinate situazioni a rischio, il Garante ha comunque ribadito come spetti comunque al medico competente il trattamento di questi dati, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie e la decisione in merito all’idoneità alle specifiche mansioni.

Sarà quindi il medico competente a fungere da raccordo tra dette esigenze ed il datore di lavoro ed a richiedere a quest’ultimo la parziale o totale inidoneità del lavoratore dipendente.

In ogni caso, il Garante sul punto auspica un intervento normativo che consente sul punto un adattamento del regolamento alla situazione in atto.

Fabio Petracci.

Alte professionalità

Il piano Colao e la funzione strategica del Middle Management nella Pubblica Amministrazione. Il ruolo dei quadri.

Nel mese di aprile, in piena pandemia, il Comitato Colao, era presentato dall’allora Presidente del Consiglio come un gruppo di esperti con il compito di ripensare i radicati modelli organizzativi sociali e di vita economica per la ripartenza del paese.

Il documento venne sintetizzato in 102 schede, alcune misure sono state avviate dal governo. Altre e per la gran parte sono ancora allo stato di progetto e potrebbero in qualche modo essere valutate dal nuovo esecutivo anche in funzione del Recovery Plan.

Il Comitato per attuare il piano di rilancio suggerisce degli interventi incisivi sui settori principali del sistema amministrativo e socio economico del paese, tra questi, uno degli snodi più importanti è individuato nella pubblica amministrazione. Si vuole nelle intenzioni del Comitato creare una Pubblica Amministrazione alleata di cittadini ed imprese, per facilitare la creazione di lavoro, l’innovazione e migliorare la qualità della vita di tutte le persone.

E’ sottolineato come la Pubblica Amministrazione soffra da tempo di una situazione di inefficienza, soprattutto al confronto con gli altri paesi europei.

Le cause vengono in parte  individuate in una cultura che privilegia le procedure rispetto ai risultati e contribuisce ad un rallentamento dell’azione amministrativa ed a una qualità dei servizi al di sotto dei migliori standard internazionali.

E’ stato anche evidenziato come la Pubblica Amministrazione faccia un uso ancora limitato di strumenti digitali e si ritrovi con una forza lavoro più anziana (l’età media dei dipendenti è la più alta dei paesi OCSE), meno istruita rispetto alla media europea e sbilanciata verso le competenze giuridiche. Infine, si denuncia come le strutture soffrano di una limitata capacità di rinnovamento di competenze anche a causa di una spesa in formazione estremamente ridotta e di una scarsa valorizzazione del merito e delle competenze. Tutto ciò è visto come un fattore che influenza negativamente il rapporto di fiducia con i cittadini e con le imprese, che percepiscono la PA come scarsamente efficace ed efficiente.

Per questo il Piano invoca una rapida trasformazione della nostra Pubblica Amministrazione verso l’auspicata efficienza e modernizzazione.

Le misure economiche che a breve saranno adottate dalla Comunità Europea impongono un tanto sia come presupposto di ogni altro intervento, sia come obiettivo.

E’ stato pertanto ritenuta fondamentale un’attenta gestione e valutazione delle politiche finanziate con fondi europei, i quali assumeranno un ruolo ancora più centrale nei prossimi anni.

Il piano auspica inoltre la raccolta e l’utilizzo dei dati statistici e amministrativi, anche ai fini di consentire le valutazioni della politiche, rivedendo l’attuale normativa per renderne più agevole l’accesso per fini di ricerca, nonché il superamento della “burocrazia difensiva”. Esso consiglia quindi di intervenire per riformare la responsabilità dei funzionari e dirigenti pubblici per danno erariale in casi differenti dal dolo, e/o prevedere che il premio assicurativo (compreso quello per l’assistenza legale da parte di un professionista scelto dal dirigente) venga pagato dall’amministrazione di appartenenza.

E’ parte del progetto anche il rafforzamento della cyber difesa. Si vorrebbe quindi dotare l’Italia di un sistema di cyber difesa di eccellenza, per potenziare in misura significativa la capacità di prevenzione, monitoraggio, difesa e risposta, in linea con i migliori standard internazionali. Un tanto presuppone un forte incremento di risorse umane qualificate e investimenti su infrastrutture e dotazioni tecnologiche degli organismi preposti (comparto intelligence, Polizia postale e delle comunicazioni, Difesa, principalmente), nonché la creazione di un regime personale speciale per i tecnici specializzati all’interno delle amministrazioni per permettere maggiore, rapidità ed efficacia di reclutamento di risorse scarse sul mercato e altamente contese.

Tutti questi progetti è giocoforza che presuppongano un appropriato piano di reclutamento delle risorse umane e di valutazione delle competenze, rafforzando contestualmente la formazione continua del personale.

Il piano reputa fondamentale la costituzione ed il rafforzamento di un middle – management pubblico.

Nello specifico auspica come le diverse amministrazioni dovrebbero identificare le figure del middle management più suscettibili di beneficiare di interventi formativi di tipo manageriale.

Il piano espone come il «middle-management» soprattutto nel settore pubblico sia lo snodo chiave perché iniziative di modernizzazione e digitalizzazione abbiano successo. Alle competenze tecniche dei dipendenti si devono affiancare competenze manageriali diffuse.

Il «middle management» può essere così un acceleratore dell’innovazione invece che costituire un freno insuperabile sui processi rispetto alle competenze esterne.

Constata come già esistano quadri intermedi validi e facilmente professionalizzabili con interventi formativi, ma spesso ignorati e non premiati. Ritiene quindi come si debba sviluppare un piano articolato ma rapido per:

a. Identificare nell’ambito delle diverse amministrazioni le figure di middle management più suscettibili di beneficiare di interventi formativi di tipo manageriale (ruolo, età, competenze pregresse, segnalazione di interesse a ruoli manageriali)

b. Avviare iniziative formative mirate al middle management della PA, tenendo conto che una parte del processo formativo avviene anche attraverso «social learning» e scambio di esperienze tra i discenti. Nella scelta dei corsi formativi, bisogna dunque prediligere percorsi strutturati con un approccio orientato alla risoluzione di problemi più che alla teoria manageriale, e che permettano interazioni strutturate (idealmente in piccoli gruppi continuativi). Può essere utile a questo fine affiancare nello stesso corso quadri con background professionali differenti, e predisporre l’utilizzo di piattaforme di e-learning digitali che riescano a supportare questo tipo di interazioni (piuttosto che approcci di lezione frontali e passivi).

c. Prevedere incentivi anche non monetari (progressione in carriera, incarichi, autonomia decisionale, iniziative strutturate di mentoring e coaching) per quanti si rivolgono a queste iniziative formative e dimostrano di aver acquisito nuove o più solide competenze nella gestione delle risorse e nella promozione dell’innovazione nella PA. d. Strutturare i percorsi formativi in modo tale che sia possibile valutarne l’effetto causale sui discenti, calcolarne costi e benefici, e migliorarne l’erogazione nel tempo.

Di fronte a così autorevoli ed attuali sollecitazioni CIU Unionquadri, da tempo impegnata per il riconoscimento dei quadri nella Pubblica Amministrazione non può che ribadire e riproporre il proprio impegno a tale obiettivo.

Da lungo tempo CIU Unionquadri sostiene che la costituzione di un’area professionale intermedia nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato collocata tra la dirigenza e l’area definita non dirigenziale sia non solo una legittima aspettativa di molti pubblici dipendenti, ma una risposta alle esigenze di buon funzionamento della pubblica amministrazione.

L’istituto della Vice Dirigenza che trova origine con la legge 145 del 2002 (legge Frattini) dapprima non ha trovato attuazione da parte della contrattazione collettiva e quindi, stante la forte opposizione di talune forze sindacali, è stata abrogato.

Le esigenze di buona amministrazione che consigliano di tornare su questo tema sono in primo luogo quella di eliminare i costi della dirigenza diminuendone il numero dei componenti da limitarsi ai settori strategici. In secondo luogo, quella di istituire un assiduo ed intelligente controllo di prossimità sul personale, evitando così gli episodi scandalosi di assenteismo che hanno interessato numerose pubbliche amministrazioni.

In secondo luogo vi è la possibilità di destinare quest’area come sbocco naturale per il personale apicale non impiegatizio impegnato in funzioni di innovazione ed eccellenza.

Un orario di lavoro “smart”: lo smart time

Una forma di flessibilità a favore di aziende e lavoratori inserita nel contratto di Assopostale con CIU Unionquadri.

Il commento è di Fabio Petracci e Alberto Tarlao del Centro Studi Corrado Rossitto di Ciu – Unionquadri.

L’organizzazione del lavoro è in continua evoluzione: oltre al lavoro agile, la cui finalità principale è quella di garantire una migliore conciliazione dei tempi di vita e lavoro ed aumentare la produttività del lavoratore, un ulteriore possibile strumento di flessibilità all’interno del rapporto di lavoro potrebbe essere quello della formulazione di un contratto di lavoro con applicazione di un orario agile o “smart time”.

Di fronte a forme di flessibilità dettate principalmente dall’interesse dell’impresa a restringere i costi e ad affrontare la concorrenza, aumentando spesso la precarietà, avanzano pure forme di flessibilità volte anche a migliorare i tempi di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Il primo esempio viene dal lavoro agile connotato da flessibilità nell’orario e nel luogo della prestazione, il secondo, di natura esclusivamente contrattuale e diremmo sperimentale, come vedremo, deriva da una sostanziale combinazione del part time verticale con il lavoro a chiamata.

CIU Unionquadri organizzazione sindacale operante nell’ambito delle nuove professionalità, nonché dei quadri, e dei ricercatori assieme ad altre organizzazioni sindacali, assieme ad Assopostale hanno siglato il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per la Distribuzione delle Merci, la gestione multifase della Logistica e dei Servizi Privati, disciplina settori quali il ritiro, la consegna, trasporto, gestione immagazzinamento e deposito (merci, prodotti, pacchi, alimentari, cibo, posta), volantinaggio, consegna di cataloghi pubblicitari e distribuzione giornali; la prestazione di hostess e steward, ed altre prestazioni affini della logistica e del terziario.

Nel campo della logistica, affiorano professionalità innovative, ma instano anche posizioni ad elevata precarietà e rischio di sfruttamento come ad esempio il personale incaricato della consegna di merci di beni di qualunque titolo.

Si è così voluto introdurre, come già accennato, uno strumento contrattuale idoneo di fornire alle prime un ambito di libertà organizzativa ed alle seconde, nel rispetto della particolarità dei tempi di lavoro, la sicurezza di un regolare contratto di lavoro tutelato dalla contrattazione collettiva.

In pratica al lavoratore, assunto con contratto a tempo indeterminato, è assegnato un monte orario che non copre l’intero orario contrattuale “normale” (40 ore settimanali) disciplinato secondo schemi concordati in precedenza con il datore di lavoro per fronteggiare eventuali picchi di attività.

Si tratta quindi della combinazione della normativa in materia di lavoro a tempo parziale con quella del lavoro a chiamata.

Vengono riprese infatti, alcune caratteristiche del lavoro a tempo parziale: in particolare, il riferimento va al part – time c.d. “verticale”, in quanto il dipendente lavorerebbe esclusivamente nel corso di alcune giornate in uno spazio temporale settimanale, mensile o annuo.

Di conseguenza, viene stabilito il numero di ore che il dipendente è tenuto a svolgere, senza tuttavia predeterminare con precisione la collocazione oraria della prestazione lavorativa, garantendogli nel contempo una forma contrattuale a tempo indeterminato, in grado di consentire anche lo svolgimento di altra prestazione che non presenti aspetti di concorrenzialità con l’impresa e di affrancare il dipendente da un collegamento troppo stretto con le eventuali vicende negative della propria azienda.

Il lavoro a chiamata (o lavoro intermittente) è quell’istituto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.

Appare rilevante richiamare in questa sede che il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento del predetto periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.

Ancora, qualora si desideri imporre al lavoratore l’obbligo di rispondere alla chiamata (c.d. disponibilità) gli deve essere riconosciuta un’indennità pari ad almeno il 20% della paga oraria.

Si è quindi voluto inserire nel nuovo contratto collettivo stipulato tra Assopostale – CIU Unionquadri ed altre organizzazioni sindacali una specifica norma contrattuale che stabilisce l’ammissibilità del cosiddetto Smart Time e che in sintesi viene così elaborata:

“Smart time”Il contratto definito “Smart Time” è un contratto a tempo indeterminato a part time verticale con un orario massimo pari a ________ ore annue.

La prestazione può essere delimitata ad un periodo dell’anno definito dalle parti all’inizio dell’anno medesimo e si svolgerà nell’ambito e con i limiti dell’orario di lavoro definito dalla legge e dal contratto.

La chiamata potrà avvenire anche al di fuori del periodo programmato ed in tal caso non sussisterà per il lavoratore l’obbligo di aderirvi.

Questa formula contrattuale può essere adottata per esigenze aziendali di carattere sostitutivo o organizzativo o in periodi temporali predeterminati caratterizzati da punte lavorative o in periodi di festività.

Il contratto definito Smart Time non esclude l’applicazione in detti casi del ricorso al lavoro a chiamata per le causali sopra indicate e nei limiti di legge”.

Una prima applicazione del contratto definito Smart Time è, come si è detto, contenuta nel contratto collettivo stipulato da Assopostale che assicura a categorie sino ad oggi altamente precarizzate un rapporto di lavoro che sebbene ad orario limitato, assicura un contratto a tempo indeterminato con la possibilità di trasformazione a tempo pieno.

Ma, precisa CIU Unionquadri una simile forma contrattuale potrebbe indurre anche le piccole e medie aziende ad assumere consulenti, ricercatori ed alte professionalità, limitando il loro impegno economico e consentendo a questi ultimi ampi spazi di libertà temporale per integrare i loro compensi.