Gli ordini professionali come datori di lavoro pubblici. L’utilità di un regolamento per attenuare il rigore della normativa pubblica.

Avendo già prestato consulenza a diversi ordini professionali sul tema, sintetizzo alcuni punti relativi al rapporto di lavoro con gli ordini professionali.

Gli ordini professionali come datori di lavoro.

Gli ordini professionali sono a tutti gli effetti degli enti pubblici non economici.

Ciò significa che gli stessi, anche se di modeste dimensioni, applicano al personale la normativa prevista per gran parte degli enti pubblici che è contemplata nel Testo Unico del Pubblico Impiego DLGS 165/2001.

Le assunzioni.

In primo luogo, come enti pubblici, gli ordini professionali debbono assumere per concorso o comunque tramite procedure selettive.

La norma in questione prevede che le assunzioni nell’ambito della pubblica amministrazione siano esse a termine sia a tempo indeterminato debbano avvenire per il tramite di una procedura selettiva (concorso) disciplinata dall’art. 35 del DLGS n. 165/2001.

Quindi, come nelle pubbliche amministrazioni, previa redazione del piano del fabbisogno di personale si dovrà redigere il concorso per l’assunzione del personale in pianta stabile.

Prima di procedere al bando di concorso si renderà necessario determinare l’organico dell’ordine medesimo definendo le qualifiche e le categorie contrattuali per poi inserirlo nel piano triennale del fabbisogno di personale

Il piano triennale del fabbisogno di personale è stato introdotto con il DLGS 75/2017 (decreto Madia) e comporta l’elaborazione di un piano di spesa ed assunzioni senza il quale non si potrà procedere a bandire alcun concorso.

La modalità concreta per la predisposizione di tale piano è contenuta nel decreto 8 maggio 2018 del Ministro per la Pubblica Amministrazione. (Allegato 1)

Dovranno inoltre aver luogo tutti gli adempimenti in termini di sicurezza e benessere previsti dal DLGS 81/2008.

Il personale sarà trattato ed inquadrato secondo il contratto del Comparto Enti Pubblici non Economici.

Nell’instaurare rapporti a termine o di natura flessibile o di consulenza, gli ordini professionali subiranno le limitazioni stabilite per il settore del pubblico impiego.

In particolare per gli incarichi professionali e le consulenze.

Particolari limitazione nel ricorso a consulenze sono imposte agli ordini professionali, come del resto alle amministrazioni pubbliche dall’articolo 7 del DLGS 165/2001 

L’articolo 7 del DLGS 165/2001 fa divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione aventi ad oggetto prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed ai modi di lavoro.

Solo per specifiche esigenze cui le amministrazioni non possono far fronte con personale in servizio, esse possono conferire incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo ad esperti di particolare e comprovata specializzazione. In tal caso, devono ricorrere i seguenti requisiti:

a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente;

b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;

c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico; (43)

d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione.

Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Inoltre le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione.

Solo in casi del tutto eccezionali e sino alla soglia massima di euro 5.000.l’incarico può essere oggetto di affidamento diretto.

Il trattamento contrattuale per i dipendenti dagli ordini professionali sarà quello del Comparto Enti Pubblici Non Economici.

In tema di mansioni, agli ordini professionali troverà quindi piena applicazione l’articolo 52 DLGS 165/2001e quindi non sarà possibile la promozione alla categoria superiore per svolgimento di fatto delle mansioni superiori.

Inoltre il passaggio tra aree professionali sovraordinate, potrà avvenire esclusivamente mediante concorso.

In materia disciplinare troverà applicazione l’articolo 54 del DLGS 165/2001 che prevede la redazione di apposito codice di comportamento, l’articolo 54 bis che impone la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti e l’articolo 55bis e seguenti che disciplinano il procedimento disciplinare.

Importante lo stesso articolo sopraindicato, laddove impone ad ogni ente pubblico la costituzione di apposito Ufficio per i Provvedimenti Disciplinari al Personale dipendente.

Eccezioni e particolarità.

Ulteriore novità in tema e data dall’entrata in vigore del DL 124/2019 convertito nella legge 19.12.2019.

All’articolo 50 della predetta normativa comma 3 bis è stabilito che gli ordini e collegi professionali, tenendo conto delle loro peculiarità dovranno attenersi ai soli principi generali del DLGS 165/2001, emanando un loro regolamento. E’ inoltre escluso l’obbligo per gli ordini professionali di attenersi in tema di valutazione della Performance e nomina degli Organismi Interni di Valutazione a quanto previsto dal DLGS 150/2009 (legge Brunetta).

In pratica, gli ordini professionali non debbono apprestare il complesso sistema di Valutazione della Performance ed istituire a questo scopo gli Organismi Indipendenti di Valutazione.

Il punto che costituisce un’ulteriore novità, consente per le questioni non fondamentali di applicare una normativa più snella dopo aver approvato un proprio regolamento.

Il regolamento potrebbe essere un utile filtro per semplificare e razionalizzare l’applicazione del Testo Unico sul Pubblico Impiego a Strutture spesso abbastanza semplici e garantite economicamente dai contributi degli iscritti.

24 maggio 2020

Avvocato Fabio Petracci

Coronavirus

CORONAVIRUS – COVID 19 e rischi penali del datore di lavoro.

E’ insistente ed attuale la polemica che paventa una responsabilità penale del datore di lavoro, qualora il dipendente contragga sul posto di lavoro il contagio da COVID 19.

Alla base della discussione, troviamo l’articolo 42 comma 2 del DL 18/2020 che introduce questa particolare forma di contagio tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL.

La definizione di infortunio sul lavoro che ne dà la legge non rispetta la tradizionale differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale.

Si ritiene infatti nell’ambito della medicina legale come l’infortunio sul lavoro sia un evento traumatico e repentino che causa un problema di salute al lavoratore, nel mentre la malattia professionale consiste in una patologia connessa alle condizioni di lavoro.

Nel caso di specie, le condizioni di lavoro sono date dal contatto con il virus determinato dalla tipologia del lavoro.

Possiamo avere un contatto tipico e specifico, come nel caso del personale sanitario di qualsiasi qualifica e specie e del personale di soccorso e controllo delle disposizioni sanitarie, come pure un’esposizione che potremmo definire generica di chi è costretto a lavorare con il pubblico nell’ambito di una pandemia.

La malattia può avere una durata relativamente breve e comportare la definitiva guarigione, può comportare delle conseguenze talora permanenti o l’esito infausto del decesso.

La particolarità della pandemia.

Le cause e le circostanze materiali che determinano il contagio sono solo parzialmente acclarate, come pure i mezzi ed i dispositivi per prevenire il contagio.

Infortunio o più propriamente malattia contratta nell’ambito della prestazione, all’INAIL compete il relativo trattamento che può essere il pagamento delle giornate di assenza e le relative cure, come pure il risarcimento di danni permanenti o addirittura il danno e l’indennizzo  da decesso.

La responsabilità civile del datore di lavoro.

Accanto all’INAIL sussiste pur sempre la responsabilità del datore di lavoro per il danno differenziale e gli ulteriori pregiudizi alla salute, oltre ai danni di natura non patrimoniale.

Sino a qui anche se abbiamo citato una norma di legge che prima non c’era e legata all’emergenza, la situazione appare normale.

Si pone invece la difficoltà interpretativa e l’originalità della stessa di fronte ad uno scenario scientifico e di prevenzione in piena evoluzione e denso ancora di incertezze.

Quindi se i virologi non sono ancora in grado unanimemente di consigliarci senza ombra di dubbio l’uso della mascherina, al datore di lavoro ed intendiamo qui il datore di lavoro onesto e diligente, è affidato il compito più gravoso di individuare cause e mezzi protettivi, laddove i dubbi non sono ancora chiariti.

In primo luogo, incombe sul datore di lavoro una responsabilità civile come parte contrattuale.

Egli, in base all’articolo 2087 del codice civile è obbligato a garantire ai propri prestatori di lavoro, il massimo possibile della sicurezza.

Essendo il rapporto di lavoro a tutti gli effetti un contratto, egli deve garantire tale adempimento e provare, qualora citato in causa, di aver fatto tutto il possibile per adempiere a tale obbligo.

In caso contrario, non ci sarà sanzione alcuna in senso tecnico, ma esclusivamente il risarcimento di danni anche cospicui.

La responsabilità penale del datore di lavoro.

Scatta comunque anche la responsabilità penale per lesioni o morte sul lavoro.

Quivi normalmente la responsabilità è dovuta a colpa.

La colpa consiste allorquando si accerti la sua negligenza, imprudenza, inosservanza di leggi e regolamenti, ordine e discipline.

In entrambi i casi sia di responsabilità civile che penale è necessario che la fattispecie di danno possa essere fatta risalire alla condotta accertata attraverso il cosiddetto nesso causale che lega l’evento al rapporto di lavoro.

A differenza della responsabilità civile, la responsabilità penale è esclusivamente personale (articolo 29 Costituzione).

Ciò significa che ne risponde soltanto di persona chi incaricato o delegato di assicurare tutte le cautele imposte.

La responsabilità civile, a differenza di quella penale, poggia su di una norma generale data dall’articolo 2097 del codice civile che non impone soltanto il rispetto di tutte le norme vigenti in materia, ma che come norma di chiusura generale impone al datore di lavoro anche la ricerca e la definizione di ogni cautela nominata ed innominata al fine di garantire salute e benessere ai propri dipendenti.

Su tale base una volta affermata la responsabilità civile del datore di lavoro, la responsabilità penale dovrà conseguire esclusivamente al mancato rispetto di norme a ciò delegate.

In una situazione del tutto inusuale ed anomala, dove la scienza non è ancora in grado di dettare i suoi principi al legislatore, l’ipotesi di responsabilità penale, fatto salvo il caso di violazione delle norme vigenti e l’accertamento del contagio in ambito lavorativo, prova che compete al lavoratore, la responsabilità penale appare abbastanza remota.

Il nesso causale, il contagio deve essere stato contratto sul posto di lavoro o in occasione di lavoro.

Altrettanto difficile sarà per il lavoratore dimostrare di aver contratto il virus sul posto di lavoro.

Egli dovrebbe disporre di una tracciabilità dei contatti, oppure dovrebbe ricorrere ad elementi presuntivi atti a dimostrare la contagiosità del posto di lavoro, come ad esempio l’alta percentuale di contagi in una determinata unità produttiva.

Qualche possibile soluzione.

Un’altra via da percorrere per avere da una parte certezza e dall’altra un incentivo a rispettare le regole, potrebbe essere rinvenibile sulla scorta del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Non va dimenticato che al fine di garantire l’effettivo rispetto della normativa concordata da sindacati e datori di lavoro al punto 13 è prevista l’esistenza di un apposito Comitato Aziendale per applicare e verificare le regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e degli RLS.

Per una maggior certezza, si potrebbe affidare a questi organismi un’apposita attività di certificazione che metta al riparo gli imprenditori seri da rischi penali.

Annullare del tutto l’ipotesi penale potrebbe rappresentare un incentivo al mancato rispetto delle regole.

Fabio Petracci.

Alte professionalità

Ricercatori e quadri: lavoratori della conoscenza e alte professionalità

Sempre più frequentemente, in un contesto di lavoro in trasformazione, si riflette sull’allontanamento del paradigma produttivo dall’impianto concettuale giuslavoristico classico, basato sul lavoro manuale e ripetitivo, in favore della crescente rilevanza di professioni basate sulla conoscenza e caratterizzate da un alto valore aggiunto di tipo immateriale.

Il tema dell’emersione del lavoro basato sulla conoscenza, sulle capacità relazionali, organizzative e di coordinamento, è una questione risalente che ha trovato la prima espressione storica e sindacale nel ben noto processo che ha condotto al riconoscimento legale della categoria dei quadri.

Una vicenda analoga nelle premesse, ma che ha avuto sviluppi completamente diversi, è quella del lavoro di ricerca: la professione che, forse più di tutte, si nutre di conoscenza e produce conoscenza,  la più lontana dal lavoro mansionistico a cui è ispirato l’impianto normativo degli anni ’70 del secolo scorso. I ricercatori non hanno mai esercitato un’azione collettiva, paragonabile a quella dei quadri, che potesse culminare nel riconoscimento della professione; eppure, oggi, l’universo dei ricercatori pone, all’interprete e allo studioso di lavoro e di organizzazione, tematiche che sono, almeno in parte, assimilabili a quelle già sollevate dai quadri.

Entrambe le professioni sopra indicate, adottando la prospettiva che proviene dagli studi di organizzazione, possono essere ricondotte alla tipologia dei “lavori della conoscenza” secondo il significato dell’espressione dato da Peter Drucker[1]: lavoratori altamente qualificati, che svolgono un lavoro non manuale, volto alla produzione di output tendenzialmente intangibili.

Questi lavoratori sono stati definiti come «coloro che producono conoscenza nuova a mezzo di conoscenza, accrescendone il valore sociale (offrendo un servizio), il valore economico (creando reddito e patrimonio) e il valore intrinseco e diffusivo (che non è appropriabile e che non è una merce): ossia producono conoscenze a mezzo di conoscenze[2]».

La categoria dei “lavoratori della conoscenza” comprende artisti, scienziati, ricercatori e insegnanti, membri delle professioni ordinistiche, consulenti, persone che svolgono funzioni di governance in istituzioni ed enti pubblici e privati, imprenditori e figure manageriali intermedie; tutti, rispetto al passato, esprimono la propria professionalità non tanto nell’esercizio del ruolo di comando, quanto, piuttosto, nell’attività di immissione di conoscenze ed esperienze nelle strutture operative, di coordinamento e di garanzia del raggiungimento di risultati. Ad eccezione delle professioni ordinistiche, svolte in regime di libera professione, tutte queste occupazioni si esercitano nelle organizzazioni[3].

Nonostante i frequenti riconoscimenti formali circa l’importanza della conoscenza e del sapere per la crescita economica e per la qualità sociale di un Paese, queste professioni condividono, nella propria espressione quotidiana concreta, la necessità di fronteggiare ostacoli e difficoltà di non poco momento.

Tendenzialmente, si tratta di professioni poco definite, difficilmente riconoscibili dall’esterno e scarsamente rappresentate, con i relativi effetti in termini di deficit di tutela.

La natura immateriale dell’output rende l’attività difficilmente comprensibile da parte di chi non faccia parte del settore[4] e questo, a livello gestionale, si traduce nella difficoltà di promuovere e misurare la prestazione; inoltre, sono professioni articolate in processi complessi, che richiedono la sinergia di una pluralità di attori: dunque, il risultato finale è solitamente l’esito di una pluralità di sforzi coordinati.

Gli studiosi[5] ascrivono alle professioni della conoscenza altri due fattori critici e cioè la circostanza che spesso sono svolte da persone insufficientemente formate e che sono caratterizzate da un alto grado di instabilità occupazionale. Rispetto alle professioni oggetto di indagine in questa sede, occorre operare qualche distinguo: il tema dell’insufficiente formazione non sembra porsi rispetto ad alcuna delle due categorie esaminate; quello dell’instabilità occupazionale caratterizza principalmente i ricercatori, mentre, rispetto ai quadri risulta difficile generalizzare.

Inoltre, la scarsa riconoscibilità del lavoro svolto, tendenzialmente, ostacola la formazione dell’identità professionale dei lavoratori. Per quanto riguarda il lavoro di ricerca, la questione si pone in termini peculiari: la professione dei ricercatori è tra le meno conosciute e comprese sul piano della percezione sociale e istituzionale, eppure i lavoratori di questo settore traggono fortemente la propria identità professionale dal senso di appartenenza alla comunità scientifica di riferimento. Il fatto di essere altamente specializzati, in un dominio circoscritto e ben definito del sapere scientifico, distingue nettamente i ricercatori e gli scienziati da tutti gli altri lavoratori della conoscenza e li pone a metà strada tra questi ultimi e i professionisti specialisti.

Infine, la preponderante componente specialistica della professione caratterizza anche la natura dell’attività svolta: generalmente, i lavoratori della conoscenza, e in particolare i quadri, svolgono attività basate sulla comunicazione, sul coordinamento di risorse umane e materiali, sulla capacità di impostare progetti e piani di lavoro, di farli rispettare, di curare l’aspetto relazionale e interpersonale dell’ambiente lavorativo. Questo per i ricercatori, invece, diventa vero soltanto quando essi arrivano a ricoprire posizioni di coordinamento, di strutture e/o di laboratori, e spesso, quando ciò accade, ridimensionano la propria attività di scienziati.

Una volta individuate le analogie e tracciate le distinzioni, si può proporre qualche spunto di riflessione in tema di emersione e riconoscimento della professione: il passaggio più critico, si ritiene, è il corretto inserimento di queste professionalità nella propria sede naturale di espressione, cioè le organizzazioni.

Il passaggio risulta difficoltoso perché, sebbene le organizzazioni abbiano bisogno di avvalersi delle potenzialità di queste risorse, non sempre riescono a valorizzarle in quanto dispongono principalmente di strumenti organizzativi e giuridici ispirati ad un tipo di lavoro parcellizzabile, misurabile nel risultato e pienamente controllabile dal datore di lavoro, e quindi poco adatto alla gestione del lavoro della conoscenza. Costituiscono un esempio di questa situazione sia i sistemi di inquadramento tradizionali, analitici e tendenzialmente rigidi dei contratti collettivi nazionali più applicati, sia il quasi esclusivo utilizzo del fattore temporale per la determinazione quantitativa della retribuzione, o, ancora, la rigida struttura gerarchica e la descrizione statica delle mansioni.

Da questo punto di vista, per far emergere le alte professionalità, con particolare riferimento alle professioni in analisi, si potrebbe prendere le mosse da una ricostruzione innovativa della categoria dei quadri. Proprio partendo dalla scarsità di informazioni che la legge 190/1985 ci consegna sulle caratteristiche della categoria[6], la si può interpretare in un’accezione più adatta alle nuove esigenze organizzative. Dalla disposizione di legge, infatti, l’interprete desume soltanto che il Quadro è colui che svolge “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa” e che la contrattazione collettiva determina i requisiti di appartenenza alla categoria, “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa”. La legge, inoltre, nulla dice su quali debbano essere le funzioni con rilevante importanza ai fini della realizzazione degli obiettivi aziendali, cioè le funzioni strategiche.

La storia ci tramanda una figura del Quadro ben definita, rispetto ad alcune caratteristiche, dal momento che

l’identità originaria della classe di lavoratori autrice della propulsione da cui è derivato il riconoscimento è stata quella dei “capi intermedi”, nel senso di figure di raccordo e coordinamento tra il vertice dell’organizzazione, cioè i dirigenti, e la base, cioè gli impiegati e gli operai. Questo carattere originario è stato recepito nella quasi totalità dei contratti collettivi ed è ormai connaturato alla percezione sociale della figura del quadro. Tuttavia, non si tratta di una situazione immutabile né, soprattutto, esclusiva; anche alla luce della parziale valorizzazione conseguita negli anni da questi lavoratori, si potrebbe sfruttare la potenzialità delle parti sociali di adattare gli istituti tipici della contrattazione alle trasformazioni che intervengono nelle relazioni lavoristiche, definendo in maniera diversa, e più ampia, l’ambito di appartenenza della categoria dei quadri.

Si potrebbe, allora, esplorare la nozione, in sé polivalente, di “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”, scindendone il legame, apparentemente indissolubile, con la funzione di coordinamento e direzione di altri dipendenti sotto ordinati gerarchicamente; parallelamente, dovrebbe essere arricchita con contenuti specialistici e con quelle che sono oggi, e forse saranno in futuro, le funzioni strategiche per le attività produttive, sulla base delle specificità di queste ultime. Se si aderisse a questa prospettiva, gran parte dei professionisti della conoscenza, e segnatamente, per quello che ci più interessa, i ricercatori, entrerebbe a far parte a pieno titolo della categoria dei quadri. Infatti, in un contesto come quello attuale, in cui l’innovazione tecnologica e lo sviluppo sperimentale stanno diventando sempre più essenziali per la gestione e per la sopravvivenza del mondo produttivo che conosciamo, quali funzioni possono essere ritenute più strategiche di quelle relative alla ricerca e sviluppo?

Una siffatta lettura della categoria consentirebbe di valorizzare le specificità delle diverse realtà produttive e di gestire le risorse umane in maniera funzionale agli obiettivi che si vogliono conseguire: diverse professioni, a seconda dei contesti e delle priorità aziendali, sarebbero qualificate come strategiche e diversi professionisti verrebbero qualificati come quadri. Questo, senza voler sminuire il valore ancora importante della figura del “quadro direttivo”, consentirebbe anche di rivitalizzare una categoria che probabilmente ha risentito del mancato aggiornamento della propria fisionomia tradizionale, rischiando di diventare obsoleta pur possedendo importanti potenzialità.

Autore

Laura Angeletti

Laurea Magistrale con lode in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, il 12 dicembre 2016, con una tesi in diritto del lavoro (Relatore Prof. Pasqualino Albi)

Diploma di Allievo Ordinario in Scienze Giuridiche, con lode, presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il 20 febbraio 2017, con una tesi in diritto sindacale (Relatore Prof. A. Niccolai)

Attualmente: corso di dottorato industriale in diritto del lavoro e delle relazioni industriali in collaborazione con ADAPT (Associazione per gli studi internazionali e comparati in materia di lavoro e relazioni industriali) presso l’Università degli studi di Bergamo, con una tesi di sul riconoscimento giuridico e contrattuale del lavoro di ricerca non accademico.

Internship aziendale, nell’ambito del dottorato industriale, presso la Ripartizione Organizzazione e Risorse Umane della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (attività di ricerca sul campo per la stesura della tesi e supporto legale alle attività della Ripartizione).

Pratica forense presso lo studio legale Albi  di Pisa e lo studio legale Molinari – Fraccaro di Trento.

Esperienze di ricerca svolte presso Università europee (visiting student):

29 Luglio – 16 Agosto 2013 – London School of Economics and Political Sciences (Londra)

Summer School: Introduction to International Human Rights: Theory, Law and Practice

Marzo – Aprile 2014 École Normale Supérieure de Paris (Parigi)

Diritto della Concorrenza dell’Unione Europea

Marzo – Aprile 2015; ottobre – novembre 2016 – Universidad de Castilla La Mancha (Toledo)

Diritto del Lavoro (stesura della tesi di laurea)

Tirocini:

Settembre – Dicembre 2015

Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (New York City, NY)

Periodo di tirocinio presso l’ufficio della Rappresentanza Permanente d’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite: collaborazione all’organizzazione della settantesima sessione dell’Assemblea Generale (UNGA70) e alle attività della Terza Commissione (Human Rights).

Pubblicazioni:

L. ANGELETTI, Ricerca ed innovazione responsabile in Italia. Accordo AIRI-CNR per la RRI, in Bollettino ADAPT 15 luglio 2019, n. 27

L. ANGELETTI, Trasferimento tecnologico in Italia: qualcosa si muove, in Bollettino ADAPT, 26 marzo 2018

L. ANGELETTI, Insussistenza del fatto e licenziamento: una rassegna ragionata, in Diritto delle Relazioni Industriali, 3/2018

L. ANGELETTI, R. BERLESE, V. GUGLIOTTA, Introduzione a”Il lavoro 4.0. La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative“, a cura di A. CIPRIANI, A. GRAMOLATI, G. MARI, Firenze University Press, 2018

L. ANGELETTI, Obbligo formativo nell’esercizio dello ius variandi datoriale. Una nuova nozione di “equivalenza delle mansioni”?  in BollettinoAdapt, 22 gennaio 2018

L. ANGELETTI, Nota a Trib. Roma, sez. Lav., 1 dicembre 2015, Trattamenti economici accessori tra contratti collettivi e giurisprudenza, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2/2016

L. ANGELETTI, Nota a Cass. Civ., Sez. III, 3 gennaio 2014, n. 41, Responsabilità civile del magistrato: cenni ricostruttivi di un complicato rapporto con l’azione penale, da un lato e con la responsabilità dello Stato, dall’altro in Danno e Responsabilità, 4/2014

L. ANGELETTI, Nota a Cass. Civ., Sez. III, 28 gennaio 2014, n. 1762, ll danno esistenziale a cinque anni dalle Sentenze di San Martino: il dibattito sui nomina juris, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 4/2014

L. ANGELETTI, Appunti di comparazione tra la legislazione sull’immigrazione italiana e quella britannica. Trattamento riservato ai richiedenti asilo provenienti da ex-colonie del paese che riceve la domanda: sono previste misure particolari? in F. Biondi dal Monte e M. Melillo (a cura di), Diritto di asilo e protezione internazionale: storie di migranti in Toscana, Pisa University Press, Pisa, 2014

L. ANGELETTI, Nota redazionale a Cassazione Civile, Sez. III, 28 febbraio 2013, n. 22585, in collaborazione con l’Osservatorio sul danno alla persona – Lider Lab – Scuola Superiore Sant’Anna, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 1/2014


[1] F. BUTERA, S. DI GUARDO, Il modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza, Fondazione Irso Working Paper, 1/2009

[2]F. BUTERA, S. BAGNARA, R. CESARIA, S. DI GUARDO, Knowledge Working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Milano, Mondadori Università, 2008

[3] F. BUTERA, A. FAILLA, Professionisti in azienda, Milano, ETAS LIBRI, 1992

[4] F. BUTERA, S. DI GUARDO, Il modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza, Fondazione Irso Working Paper, 1/2009: “se ci sediamo accanto a un ricercatore o ad un manager, spesso non capiamo quello che fa, qual è il suo outpunt, se sta ripetendo una procedura o sta generando nuova conoscenza”, p. 6

[5]

[6] A. GARILLI, Le categorie dei prestatori di lavoro, Jovene, 1988, p. 253