Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno all’immagine a favore della Pubblica amministrazione pari ad almeno 6 mensilità. La Corte Costituzionale boccia la norma.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001)  

cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.

Coronavirus

La tecnologia come primo “vaccino” per mediare al conflitto tra il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto alla riservatezza dei dati personali

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci sta ancora arrecando dei danni ma è proprio dal male che bisogna trarne giovamento per migliorarsi ancora di più. Anche le attività produttive sono ad un bivio: trarne insegnamenti ed evolversi con lo scopo di agganciare la domanda di beni e di servizi oppure arrestare definitivamente le proprie attività lavorative.

Il famoso virus Covid-19 hanno fatto nascere uno sconto, di sicuro epocale, tra la voglia di riaprire i capannoni delle imprese italiane e gli uffici degli studi professionali e il pericolo di danneggiare la salute dei lavoratori dipendenti e dei collaboratori al netto della salvaguardia della privacy.

Questi tre diritti (diritto al lavoro, diritto alla salute e diritto alla riservatezza dei dati personali) sono entrati, come mai prima, in conflitto tra loro da quando è stato imposto – in via eccezionale – la misurazione della temperatura di ogni singolo lavoratore all’atto del suo ingresso nel posto di lavoro (si veda il Protocollo sanitario del 14 marzo 2020 siglato dal Governo Italiano e dalle Parti Sociali)

Stiamo assistendo ad un infinito dibattito che  vede confrontarsi il mondo dell’impresa e quello del sindacato con le Istituzione politiche in cui finora non si è fatta una sintesi.

Per mediare a tutto questo vi è già un primo “vaccino” che si chiama tecnologia. Se soltanto pensiamo all’introduzione dei braccialetti elettronici per opera del colosso Amazon e all’adozione delle politiche sanitarie nello stabilimento dell’Ilva sappiamo perfettamente che – in questa emergenza sanitaria di tipo epocale – la tecnologia, a differenza dei due casi prima citati, può davvero rappresentare una svolta per la ripresa delle attività di imprese e di professionisti senza violare nessuno diritto costituzionalmente garantito ad ogni cittadino italiano (Articoli 1, 3, 4, 35 e 36 per il diritto al lavoro – Articolo 32 per il diritto alla salute oltre al Testo Unico per la sicurezza sul lavoro – Articoli 13, 14 e 15 della Costituzione, art. 5 della Legge n. 300/1970 e Regolamento U.E. n. 679/2016 per il diritto alla riservatezza dei dati personali).

E’ da considerare che la prima medicina, utile per la ripresa economica e per la tenuta sociale del nostro Paese, è rappresentata da un dispositivo tecnologico (il cosiddetto “wearable device”) che misura la temperatura, la pressione e il battito cardiaco da far indossare da ogni singolo lavoratore. Chiaramente è opportuno che all’ingresso del luogo di lavoro venga effettuata in primis la misurazione con il termo-scanner da parte del datore di lavoro che rimane sempre moralmente, penalmente e civilmente responsabile nei confronti del proprio personale dipendente. Un altro aspetto rilevante che emerge da questa situazione emergenziale è che tale dovere morale dovrà essere rispettato anche da ogni singolo lavoratore.

Ancora si potrebbe – come avanzato da tutti coloro che credono nella tecnologia – introdurre, a prescindere dagli eventi eccezionali, anche un’altra tecnologia e ossia la “blockchain” che per il tramite degli “smart contracts” potrà trattare i dati sanitari riservati dei lavoratori trasmessi dai “wearable device” in maniera anonima.

Chiaramente l’umanità attende il secondo ed ultimo vero “vaccino” che sia in grado di sconfiggere questo virus e pertanto sarà determinante  il comportamento di ogni singolo lavoratore che, in quanto cittadino modello, ha il dovere di garantire l’incolumità di ogni singolo collega di lavoro.

Come detto al principio dell’articolo, dalle situazioni di malessere possiamo trarne insegnamento per l’avvenire e finora il popolo Italiano ha dato dimostrazione di possedere coscienza civica che si spera rimanga intatta nel tempo e che si avvicini all’educazione civica del Giappone.

di Antonino ALFANO

I consorzi europei di infrastrutture di ricerca (ERIC) e la mobilità Risorse Umane

Cosa sono gli ERIC

Gli ERIC (European Research Infrastructures Consortium) sono consorzi di diritto europeo costituiti, su iniziativa delle comunità scientifiche, da un gruppo di Paesi e per decisione della Commissione Europea. Gli ERIC costituiscono quindi una rete basata sulla collaborazione e integrazione del tessuto della ricerca in entità uniche, competitive, per qualità e dimensioni, a livello internazionale che permettono di mobilitare grandi risorse con la massima elasticità. Gli ERIC tendono a fare dell’Europa scientifica una nazione integrata collegando università, cliniche e centri di ricerca. Una prova delle capacità di risposta degli ERIC a situazioni estese e complesse come l’epidemia COVID19 si può vedere nell’iniziativa di CERIC-ERIC (Central European Research Infrastructure Consortium – basato nell’Area di Ricerca di Trieste) di aprire una via d’accesso rapida alle infrastrutture consortili per chi necessita di analisi su materiali utili a combattere il virus. A questa iniziativa sono seguite quelle della maggior parte  degli altri ERIC.

Attualmente sono operativi o in fase di costituzione  25 ERIC di cui 6 nell’area biomedica, 8 in quella ambientale, 6 dedicati alle scienze umane e sociali; 3 per la fisica, ingegneria e per lo studio di materiali avanzati[1]

Le sedi legali degli ERIC sono ubicate in 10 paesi e nel prossimo futuro è prevedibile un aumento degli Stati membri e dei paesi associati che ospiteranno un ERIC. Agli ERIC possono aderire paesi extra UE (es. Israele, Norvegia, Svizzera).

Gli ERIC di tutta Europa hanno dato vita al Forum ERIC per rafforzare il coordinamento e la collaborazione all’interno della loro comunità.

L’Italia è protagonista nello sviluppo degli ERIC, è infatti presente nella maggior parte degli ERIC e ospita la sede istituzionale di alcuni di essi.[2]

Le normative sugli ERIC

Gli ERIC sono regolati da due Regolamenti Europei: il n° 723/2009 modificato dal n° 1261/2013. [3]

Gli articoli rilevanti per quanto riguarda le problematiche delle Risorse Umane sono, all’interno del citato Regolamento, l’art. 10 che stabilisce “Lo statuto deve contenere….. la politica in materia di occupazione, comprese le pari opportunità” e l’Art.15 che fissa la gerarchia delle norme che regolano la costituzione e il funzionamento degli ERIC: il diritto comunitario in materia,  la legge dello Stato in cui l’ERIC ha la sua sede legale per le questioni che non sono disciplinate (o lo sono parzialmente) da norme comunitarie; lo statuto dell’ERIC e le relative norme di attuazione.

Caratteristiche giuridiche dell’ERIC 

Ai sensi del regolamento ERIC, un ERIC è un soggetto giuridico dotato di personalità giuridica e piena capacità di agire riconosciuto in tutti gli Stati membri. Esso deve essere costituito da almeno tre Stati: uno Stato membro e altri due paesi, che possono essere Stati membri o paesi associati. Possono farne parte Stati membri, paesi associati, paesi terzi diversi dai paesi associati e organizzazioni intergovernative, che contribuiscono congiuntamente alla realizzazione degli obiettivi dell’ERIC.

Come già accennato, il diritto applicabile è il diritto dell’Unione e il diritto dello Stato della sede legale o della sede operativa per quanto riguarda talune questioni amministrative, tecniche e di sicurezza. Lo statuto e le sue disposizioni di attuazione devono essere conformi al diritto applicabile. 

L’ERIC è considerato un organismo o un’organizzazione internazionale ai sensi delle direttive sull’IVA e sulle accise e può pertanto beneficiare delle relative esenzioni. Essendo inoltre considerato un’organizzazione internazionale ai sensi della direttiva sugli appalti pubblici, l’ERIC può adottare regole proprie in materia di appalti.

Gli ERIC non hanno scopo di lucro, ma posso svolgere alcune limitate attività di carattere economico strettamente connesse alla sua funzione principale 

La struttura di governance dell’ERIC è flessibile e consente di definire nello statuto i rispettivi diritti ed obblighi, gli organi e le relative competenze e altre disposizioni interne.

Il regolamento ERIC è direttamente applicabile negli Stati membri, e gli Stati membri  devono adottare misure amministrative adeguate per ospitare un ERIC o aderirvi, e garantire l’esenzione dall’IVA e dalle accise a norma del regolamento ERIC. Inoltre, essendo un nuovo tipo di soggetto giuridico, l’ERIC deve essere assimilato nei regimi normativi e amministrativi nazionali, questo ha sollevato diverse questioni pratiche che riguardano, ad esempio, un registro europeo e il collegamento con i registri nazionali (come camere di commercio o registri di associazioni) nei quali inserire gli ERIC, con le relative conseguenze per lo status del personale.

I Consorzi sono entità private con un fine “pubblico” in quanto destinate a preservare l’eccellenza scientifica comunitaria; possiedono poi diversi caratteri tipici di enti di diritto internazionale.  Nella realtà pratica, non essendo prevista, nelle legislazioni nazionali, una categoria speciale per gli ERIC in quanto soggetto giuridico, restano interrogativi in merito al loro carattere pubblico o privato; questione che ha ovvi riflessi sulla gestione delle Risorse Umane.

La Carta Europea dei Ricercatori

Prima di proseguire nell’esame degli ERIC sotto il profilo delle Risorse Umane, occorre fare un cenno alla Raccomandazione della Commissione Europea  dell’11 marzo 2005 riguardante la “Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori”[4]. Questo documento individua i “ricercatori” secondo la definizione del “Manuale di Frascati” e cioè: «Professionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati” La Raccomandazione riguarda chi svolge qualsiasi attività professionale nella R&S, sia nel campo della «ricerca di base», della «ricerca strategica», della «ricerca applicata», dello sviluppo sperimentale e del «trasferimento delle conoscenze». Sono comprese l’innovazione e le attività di consulenza, supervisione e insegnamento, la gestione delle conoscenze e dei diritti di proprietà intellettuale, la valorizzazione dei risultati della ricerca o il giornalismo scientifico.

Particolarmente interessante è il riconoscimento del “Valore della mobilità”: “I datori di lavoro e/o i finanziatori devono riconoscere il valore della mobilità geografica, intersettoriale, inter/trans-disciplinare e virtuale nonché della mobilità tra il settore pubblico e privato, come strumento fondamentale di rafforzamento delle conoscenze scientifiche e di sviluppo professionale in tutte le fasi della carriera di un ricercatore. Dovrebbero pertanto integrare queste opzioni nell’apposita strategia di sviluppo professionale e valutare e riconoscere pienamente tutte le esperienze di mobilità nell’ambito del sistema di valutazione/avanzamento della carriera.”

Le Risorse Umane degli ERIC

Nei prossimi dieci anni si prevede che il numero di ERIC raggiunga le 50 unità. In questa fase iniziale, gli ERIC impiegano direttamente oltre 500 persone (il principale datore di lavoro è l’ESS-ERIC basato in Svezia) ma questo numero potrebbe presto salire ben oltre i 1.000 con i Consorzi in cui lo staff di R & S è previsto essere assunto direttamente. Questo numero può salire a circa 10.000 unità nei prossimi 10 anni se le condizioni di lavoro saranno allettanti in termini di mobilità e salari all’interno dell’area di ricerca dell’UE.

La fase di avviamento della maggior parte degli ERIC è ancora basata su personale di R & S distaccato (principalmente part-time) dai paesi partecipanti attraverso le loro istituzioni di ricerca: il numero di questo personale è stimato essere superiore al migliaio, ma è già visibile la tendenza verso l’occupazione diretta,  funzionale a una maggior efficienza operativa.

Gli Statuti degli ERIC – Politiche sulle Risorse Umane

Dalla lettura degli statuti dei vari ERIC [5]1 emerge che, nella maggioranza dei casi, alla politica per il Personale  è dedicato solo un generico richiamo al principio di “pari opportunità” e qualcuno accenna a criteri di “trasparenza e pubblicità” nelle procedure di selezione del personale. Spesso si rimanda per i dettagli alle regolamentazioni interne.

Troviamo però alcuni esempi di più ampia articolazione delle politiche in materia di occupazione.

Il primo è lo statuto di DARIAH (Digital Research Infrastructure for the Arts and Humanities), che articola ampiamente la politica in materia di occupazione. Nell’Art. 28 oltre al doveroso richiamo alla. “politica di pari opportunità”,  e a una serie di principi per definire le responsabilità e garantire la trasparenza nei processi di selezione e reclutamento, sono fissati due principi interessanti sotto il profilo della mobilità:  la  “non discriminazione fra il personale impiegato direttamente e il personale distaccato” e l’attribuzione dei contratti di lavoro alla normativa nazionale del paese nel cui territorio è impiegato il personale.

Il secondo è quello di SHARE  (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) il cui statuto non solo richiama le pari opportunità e l’attribuzione dei contratti alle norme nazionali, ma accenna anche a come agevolare la mobilità con queste parole: “Fatti salvi i requisiti della legislazione nazionale, ciascuna Parte contraente deve, all’interno della propria giurisdizione, facilitare la circolazione e la residenza dei cittadini dei paesi della Parte contraente coinvolti nei compiti dell’ERIC-SHARE e dei familiari di tali cittadini”

Qualche indicazione sulle responsabilità in materia di occupazione è contenuta nello statuto di LIFEWATCH-ERIC.

Problematiche nella gestione del personale degli ERIC

Sinteticamente tracciato il quadro normativo di riferimento, è ora il caso di soffermarsi sui profili critici legati alla gestione delle risorse umane, riconducibili, innanzitutto, alla forte mobilità che caratterizza il personale degli ERIC (ricercatori, tecnici e amministrativi).

Problematiche normative

Problematica è, innanzitutto, la mancanza di uniformità tra le regole giuslavoristiche, previdenziali, fiscali dei diversi paesi, senza dimenticare le norme sull’immigrazione. Questa diversità crea una serie di ostacoli a quella mobilità che, come detto, è fortemente richiamata dalla Carta dei Ricercatori ed è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di ciascun ERIC.

Gli ostacoli non sono in linea generale differenti da quelli che devono affrontare aziende e lavoratori in mobilità internazionale e che si possono cosi sintetizzare

  • Fisco: Non esiste una norma comune europea che uniformi il trattamento fiscale delle persone in mobilità all’interno dell’Unione, ma ogni paese ha stipulato un accordo del genere con tutti gli altri: il numero degli accordi esistenti è quindi nell’ordine di svariate centinaia. Per fortuna, per la parte che più direttamente ci interessa, la generalità di questi accordi prevede la non imponibilità (o la non acquisizione della “residenza fiscale”) dei redditi di persone che restino in un paese diverso dal proprio per meno di 183 gg. Oltre questo limite temporale, il reddito prodotto nel paese (retribuzioni, bonus ecc..) sarà tassabile secondo le regole interne al Paese stesso. Resta un problema di cumulabilità  di tali redditi con quelli prodotti nel paese di origine. Il cittadino italiano, per esempio, non perde praticamente mai la residenza fiscale in Italia, a meno che non si liberi di ogni fonte di reddito o bene fiscalmente rilevante. Ne deriva che il lavoratore italiano che lavora in un Paese X,  producendo un reddito regolarmente tassato, debba denunciare tale reddito in Italia; questo si cumulerà con le altre fonti (di reddito) e per evitare che il reddito prodotto all’estero sia sottoposto a doppia imposizione dovrà  procurarsi una documentazione che attesti le imposte pagate nel Paese X,
  • Previdenza obbligatoria: è uno dei pochi campi in materia di lavoro dove esistono regolamenti europei (fin dagli anni 70 del ‘900):il n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU L 166 del 30.4.2004, pag. 1), e il N. 000/2009 settembre 2009 (GU L 284 del 30.10.2009, pag. 1) che stabilisce le modalità di applicazione del precedente. 883/2004 [6]. In estrema sintesi la normativa prevede:
    • – un lavoratore distaccato da un paese all’altro dell’Unione rimane soggetto alla legislazione del primo Stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona distaccata. 
    • – Oltre il limite dei ventiquattro mesi il lavoratore sarà sottoposto alle regole previdenziali del paese di distacco.

– al termine dell’attività lavorativa la pensione del lavoratore sarà calcolata con il criterio della “totalizzazione dei periodi” così definita dalla Circolare INPS 88/2010:“I periodi di assicurazione, di attività subordinata, di attività autonoma o di residenza maturati sotto la legislazione di uno Stato membro si aggiungono a quelli maturati sotto la legislazione di qualsiasi altro Stato membro, nella misura necessaria, ai fini dell’applicazione dell’articolo 6, a condizione che tali periodi non si sovrappongano.”

A complicare le cose sono intervenute norme interne italiane (D.Lgs 2 febbraio 2006 n. 42 e la L. 24 dicembre 2007, n. 247 all’Art 1. 76 ) che hanno disposto, nell’interpretazione della già citata circolare INPS 88/2010 che i periodi maturati all’estero in Paesi comunitari e in Paesi legati all’Italia da convenzioni bilaterali di sicurezza sociale devono essere conteggiati, a prescindere dal limite di 3 anni previsto dall’articolo 1, comma 76, lettera a), della legge 24 dicembre 2007 n. 247, rispettando, invece, il periodo minimo necessario per l’applicazione della normativa comunitaria (1 anno) o delle singole convenzioni bilaterali”

Da tutto quanto sopra si evince che la normativa in materia di previdenza obbligatoria non agevola la mobilità dei lavoratori, soprattutto in una realtà come quella degli ERIC dove la mobilità è naturalmente “spinta”.

  • Previdenza Complementare: In questo campo non esiste una regolamentazione che uniformi i sistemi, ma la UE ha previsto l’istituto dello IORP, un tipo di fondo pensione integrativo basato in uno dei paesi dell’Unione e  alimentabile con contributi provenienti da tutti i paesi dell’EEA. Su iniziativa della Commissione Europea è stato creato un Consorzio che ha recentemente fatto nascere il Fondo pensione integrativo RESAVER destinato a tutti i lavoratori della ricerca. RESAVER IORP è operativo in Italia dopo l’approvazione dell’autorità di vigilanza COVIP.
  • Assistenza sanitaria: i regolamenti comunitari di sicurezza sociale n. 883/04 e 987/08  gli assistiti dai diversi servizi sanitari possono usufruire dell’assistenza nei paesi europei (e convenzionati) a condizione di possedere una attestazione rilasciata dal servizio del paese di origine.
  • normative sull’immigrazione da paesi extra-UE: le norme che prevedono un iter agevolato per la concessione di visti ed ingressi ai ricercatori extra-comunitari valgono solo per i ricercatori in senso stretto. Questo potrebbe creare problemi in caso di mobilità di personale tecnico o amministrativo, eventualità possibile data la natura transnazionale degli ERIC

Problematiche economiche: La mobilità dei lavoratori ha un evidente impatto sui loro trattamenti economici, i principali punti critici sono:

  • mobilità tra paesi con grande differenza negli standard e costo della vita e/o nei trattamenti fiscali e previdenziali:  è evidente che le differenze ora enunciate comportano adeguamenti nel trattamento economico del personale in mobilità tenendo conto delle differenze di costo vita e il disagio connesso alla nuova sede.
  • lavoro del coniuge/compagno/a: è chiaro il peso che la rinuncia del compagno/a ad un lavoro retribuito (e magari anche gradito) ha sulla disponibilità del lavoratore in mobilità,che deve trovare un tornaconto economico o di prospettive di carriera 
  • scuole per i figli: la possibilità o meno di garantire ai figli un’istruzione adeguata e in continuità/prospettiva con quella nazionale è ugualmente importante
  • sistemazione logistica: non diversamente da sopra, per quanto riguarda la destinazione in una sede attrattiva o meno per clima, livello di vita, sicurezza, facilità di spostamento.
  • rientro alla sede di origine: èuna fase delicata della mobilità, che va programmata e gestita con la massima attenzione, tenendo conto sia dello sviluppo di carriera che del trattamento economico.

Problematiche contrattuali

Non esiste un Contratto Collettivo di Lavoro specifico per gli ERIC, come non esiste al momento in Italia un Contratto Collettivo destinato al mondo della ricerca “privata” (cioè quella che esula dalla categoria degli Enti Pubblici di Ricerca).  Troviamo così istituzioni che applicano il CCNL Metalmeccanici, altre il CCNL Chimici/Farmaceutici o per il settore Terziario; mentre le due Fondazioni basate in provincia di Trento (Fondazione Bruno Kessler e Fondazione Edmund Mach)  applicano un loro contratto provinciale, altre ancora, come  l’Istituto Italiano di Tecnologia non applicano alcun contratto collettivo, ma si sono date un proprio regolamento e, attenendosi a questo, regolano i rapporti con i dipendenti sulla base di contratti individuali.

Soluzioni gestionali e prospettive

In questo momento, come abbiamo accennato nel punto precedente, non esistono contratti collettivi o linee guida uniformi che regolino la gestione del personale degli ERIC e ciascun consorzio opera indipendentemente dagli altri.

Il rapporto di lavoro con i dipendenti diretti è regolato in Italia da contratti individuali che richiamano i regolamenti interni di ciascun consorzio. Ci sono state iniziative comuni ma  non sono andate oltre alcune indicazioni operative per affrontare le problematiche sopra esaminate. In particolare è stato suggerito,  in assenza di norme coordinate a livello europeo, di utilizzare mobilità brevi, che consentano di mantenere la situazione fiscale e previdenziale del paese di origine  e di non affrontare le problematiche economiche legate a una presenza stabile in un altro paese.

Il crescere del numero degli ERIC, oltre alla difficoltà, comune a tutte le Istituzioni di  di gestire il “lavoro di ricerca” con contratti “industriali”, sta facendo emergere la necessità di un inquadramento comune che regoli le risorse umane che operano in un ambito così particolare e importante sia per la cultura che per l’economia del nostro Paese e qualche segnale di crescente interesse per la redazione di un contratto collettivo per la Ricerca “privata” si sta manifestando.

In realtà i problemi normativi e gestionali che riguardano le risorse umane impiegate negli ERIC necessiterebbero, per essere risolti, di un complesso di principi comuni a livello comunitario che, se è troppo ottimistico immaginare come un “Contratto Collettivo Europeo” (esistono esempi di accordi transnazionali siglati dalla Confederazione Europea dei Sindacati ETUC e dalle sue articolazioni, ma riguardano aziende multinazionali che regolano in modo comune specifiche tematiche come la Formazione o la Sicurezza sul lavoro), potrebbero portare almeno alla emanazione di linee guida comuni a tutti gli ERIC. Ma anche un’eventuale “contratto” comune non sarebbe sufficiente a sviluppare l’enorme potenziale di produzione scientifica degli ERIC nel loro complesso. Il “lavoro di ricerca” per le sue dimensioni, per la specificità degli obiettivi e le caratteristiche umane e culturali delle persone potrebbe essere un ottimo terreno su cui sperimentare da parte dell’Unione regolamentazioni più omogenee, che rendano reale un mercato comune e aperto del lavoro, abbattendo gli ostacoli alla mobilità delle persone, senza suscitare troppe apprensioni e sucettibilità sovraniste nei Paesi membri.

Al momento, l’unico segnale positivo è quello dello IORP nel campo della previdenza integrativa, che per il mondo della ricerca ha dato vita a RESAVER-IORP che, sia pure tra molte difficoltà, sta operando e sviluppando in molti paesi.

Purtroppo, non sembra che l’Unione abbia compreso appieno la rilevanza strategica delle risorse umane per il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che si attendono dagli ERIC.

La “Seconda relazione sull’applicazione del regolamento (CE) n. 723/2009 del Consiglio, del 25 giugno 2009, relativo al quadro giuridico comunitario applicabile ad un consorzio per un’infrastruttura europea di ricerca (ERIC)” [7]del 6.7.2018 recita infatti: “Gli ERIC svolgono un ruolo importante nella deframmentazione della ricerca europea, grazie alla creazione, in modo armonizzato e strutturale, di infrastrutture di ricerca europee che sviluppano e offrono servizi nell’intera Unione, promuovendo la trasparenza nella raccolta dei dati, l’accessibilità delle informazioni e degli strumenti, e la conservazione di dati e servizi per gli utenti. Ciò non è solo inteso a migliorare il sostegno alle comunità scientifiche, ma può anche favorire politiche basate su elementi concreti in settori quali sanità, energia, ambiente e politiche di innovazione sociale e culturale.”, ma quando prende in esame le problematiche che devono affrontare gli ERIC per operare in piena efficienza cita principalmente questioni legate al trattamento fiscale dei consorzi o le modalità di registrazione nei diversi paesi citando solo di sfuggita le risorse umane.

Il Forum ERIC ha invece dimostrato di aver presente la rilevanza dei temi legati alle Risorse Umane che ha così sintetizzato, dopo una recente ricerca sui temi più rilevanti per  la comunità degli ERIC , al punto “3 Occupazione, distacco, assunzioni”: “Le sfide nell’area delle risorse umane all’interno degli ERIC vanno da: attrazione e fidelizzazione dei talenti per profili specifici, mobilità, assunzioni e processi di assunzione…”

Sarà compito dunque degli ERIC stessi, nei propri paesi, mantenere attivo lo scambio di informazioni per impostare politiche omogenee e per proporre alle autorità competenti le modifiche alle regole nazionali che ostacolano la mobilità. Il Forum ERIC a livello europeo, oltre a tenere le fila delle informazioni provenienti dai diversi paesi, dovrà sensibilizzare le Direzioni Generali della Commissione Europea interessate (Ricerca; Lavoro) sui punti critici che ostacolano la mobilità e stimolare l’introduzione di nuove regole che rendano effettiva la mobilità del personale della ricerca.

In questo modo gli ERIC potranno affrontare in modo attivo, e innovativo i temi che sono stati esaminati, cominciando dal rafforzare, con adeguati specialisti, la funzione dedicata, dato che al momento, secondo la ricerca sopra citata: “…la maggior parte degli ERIC non ha nel proprio team un membro dello staff dedicato alle risorse umane.”

di Andrea Gino CRIVELLI


[1] per dettagli vedi il sito www.eric-forum.eu

[2] vedi l’articolo del prof. Carlo Rizzuto sul Sole-24ore del 12/4/2020 https://www.ilsole24ore.com/art/la-ricerca-e-efficace-se-lascia-liberi-fare-non-se-guidata-dall-alto-ADRDeGJ

[3] https://eur-lex.europa.eu/

[4] https://cdn4.euraxess.org/sites/default/files/brochures/eur_21620_en-it.pdf

5  reperibili sul sito www.eric-forum.eu

[6] https://eur-lex.europa.eu/

[7] www.eric-forum.eu

Coronavirus

Tutela del consumatore, scrive l’avvocato Laura Aramini del Centro Studi Viaggi annullati per coronavirus: il settore turistico in bilico tra richieste di rimborsi e voucher Avv. Laura Aramini (Konsumer): “Il vettore deve procedere al rimborso o emettere un voucher, ma si tratta di una misura che tutela il venditore, non certo il consumatore”

Tra i primi effetti dell’emergenza da covid-19 sull’economia italiana va indubbiamente segnalata la cancellazione di viaggi e vacanze. L’impossibilità di spostarsi, ma anche la paura di entrare in contatto con estranei e focolai, ha portato migliaia di persone a disdire le prenotazioni nel breve periodo, ma anche quelle effettuate per i mesi estivi.

Molti turisti hanno lamentato la difficoltà di ottenere il rimborso da parte dell’agenzia o del portale presso il quale avevano effettuato l’acquisto, che avevano offerto soltanto di posticipare le date o di emettere un voucher. In effetti, ci troviamo oggi a vivere in una situazione che non si era mai verificata prima e, per questo, genera incertezza in diversi campi.

Con il decreto-legge del 2 marzo 2020, è stato stabilito all’art. 28 il diritto al rimborso in favore di chi abbia acquistato un biglietto o un pacchetto turistico, senza poter effettuare il viaggio o la vacanza per motivazioni connesse all’epidemia derivante da COVID 19. – Ha dichiarato l’Avvocato Laura Aramini, dell’associazione KonsumerIl vettore, dunque, entro quindici giorni dalla comunicazione effettuata dal cliente, dovrà procedere al rimborso del corrispettivo versato o emettere un voucher di pari importo,utilizzabile entro un anno dall’emissione. Questo, dunque, non dovrebbe lasciare spazio ad equivoci, ma la questione dei voucher sembrerebbe, di fatto, tutelare solo il venditore e non certo l’acquirente.”

Secondo Konsumer, questa norma, contenuta in un decreto-legge della cui legittimità secondo diversi costituzionalisti c’è da dubitare, impedisce ai consumatori di poter recuperare il denaro speso, consistente  talvolta in i somme ingenti, obbligandoli a fruire di viaggi in tempi da loro non scelti che, magari, non si sposano con i loro impegni o con il desiderio di restare a casa in un momento così particolare.

Dopo aver attentamente studiato la disposizione,Konsumer ha deciso di mettere le sue sedi a disposizione di tutti i passeggeri e turisti che vogliono ottenere l’immediato rimborso del prezzo pagato, in quanto crede che siano casi in cui  il cliente abbia diritto a ricevere la restituzione di quanto versato, senza dover attendere  un voucher.

Coronavirus

Corona Virus – Decreto Liquidità e Gestione Sindacale dei Livelli Occupazionali. Per ottenere il finanziamento, serve l’accordo sindacale sui livelli occupazionali?

La norma in discussione.

L’articolo 1 del Decreto Liquidità DL 23/2020 all’articolo 1, comma 1 prevede espressamente che “ L’impresa che beneficia delle garanzie assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali.”

Trattasi di un rilevante limite non solo per la concessione del credito, ma anche per il futuro della gestione aziendale.

La norma è, come vedremo inedita, e presenta dei tratti del tutto sintetici che necessitano di spiegazione.

Alcune ipotesi similari, ma non identiche.

La subordinazione dell’autonomia nella gestione dell’azienda soprattutto nell’ambito degli eventi di ristrutturazione a cavallo tra gli anni 80/90 era spesso caratterizzata dalla necessità di consultazione tra le parti che potevano sfociare in accordi che andavano a regolamentare e qualche volta a lenire i contraccolpi sul piano sociale ed occupazionale che tali eventi necessariamente comportavano.

I casi di maggior rilievo sono dati dal DLGS 148/2012 in tema di ammortizzatori sociali e di cassaintegrazione guadagni, laddove all’articolo 14 impone in tali casi, la preventiva comunicazione alle organizzazioni sindacali finalizzata alla stipula di eventuale accordo sindacale per disciplinare la procedura.

Analoghe procedure sono previste in tema di trasferimento d’azienda mediante l’articolo 47 della legge 428/1990 e dall’articolo 4 della legge 223/91 in tema di procedure di mobilità.

In pratica la necessaria informativa sindacale e l’eventuale accordo che ne segue si inseriscono nella gestione delle crisi o delle ristrutturazioni o riconversioni aziendali.

Si parla in questo caso di ruolo gestionale della contrattazione collettiva.

Le criticità rilevate.

La norma in esame invece costituisce il presupposto per ottenere in un momento di crisi contingente determinata da una grave pandemia, la garanzia dello stato che prelude ad un finanziamento creditizio.

Qualche voce allarmistica aveva lamentato come non avrebbe potuto accedere al credito chi non avesse allegato alla richiesta il testo dell’accordo in tema di livelli occupazionali.

Non è proprio così, la lettera richiede esclusivamente la dichiarazione dell’impegno a stipulare in sede sindacale degli accordi per gestire i livelli occupazionali.

Serve allegare il testo dell’accordo?

Infatti, sul piano relativo alla concessione del credito, la circolare ABI del 9.4.2020 impone all’impresa che beneficia della garanzia pubblica, esclusivamente di assumere l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali.

Questa precisazione non esclude però rilevanti perplessità sulla legittimità della norma e sulla sua portata.

Legittimità della norma – problemi.

Per quanto attiene la legittimità costituzionale, va posta debita attenzione sull’articolo 39 della Carta Costituzionale che salvaguarda la libertà sindacale e sull’articolo 41 della stessa Carta Costituzionale che sancisce la libertà di impresa con i limiti della sicurezza e dell’utilità sociale.

Imporre l’obbligo non alla trattativa, ma a contrarre per qualunque delle parti sociali, per ottenere un beneficio economico o la tutela dell’occupazione, può rasentare la violazione di tali principi.

La portata dell’impegno.

I dubbi poi sulla portata di tale normativa non sono pochi.

Nel tempo.

In primo luogo la sua durata, il credito può avere una durata massima di sei anni e ciò starebbe a significare che l’obbligo a definire con la contrattazione ogni intervento sulla gestione dei livelli occupazionali avrebbe una simile durata.

I casi di applicazione.

Ulteriore aspetto che meriterebbe una migliore definizione è dato dai casi di applicazione della fattispecie.

Essa trova applicazione ai soli fenomeni collettivi che toccano gli assetti occupazionali o si estende anche ai licenziamenti individuali di natura economica definiti come licenziamenti per giustificato motivo oggettivo?

A prima vista, parrebbe che il termine livelli occupazionali indichi l’assetto generale dell’occupazione e che quindi non possa interessare il singolo licenziamento, ma la causale economica dello stesso è pur sempre il sintomo di una difficoltà dei livelli occupazionali.

Inoltre a considerare solo i casi che interessano una collettività di occupati, essi già prevedono ipotesi di consultazione e di eventuale definizione contrattuale collettiva.

Dunque in base ad un concetto quanto mai generale e letterale di livelli occupazionali, andrebbero compresi i licenziamenti collettivi, ogni forma di mobilità, cassa integrazione e probabilmente anche il trasferimento d’aziende.

In tutti questi casi, alla ordinaria convocazione sindacale, dovrebbe seguire l’inevitabile e obbligatorio accordo con un sindacato che, come suo diritto, potrebbe anche non voler essere vincolato da accordi.

Le conseguenze negative.

D’altro canto, a vedere la questione dalla parte sindacale, l’organizzazione dei lavoratori potrebbe essere costretto ad accordi ingiusti a pena del mancato conferimento del finanziamento e della chiusura dell’azienda.

La mancanza dell’accordo potrebbe comportare la revoca della garanzia e nel caso di licenziamento la nullità dello stesso, inoltre l’organizzazione dei lavoratori, in caso di mancato accordo, potrebbe agire in base all’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori denunciando la condotta antisindacale.

I rimedi

Necessita quindi un intervento chiarificatore in sede di conversione in legge del decreto che ne chiarisca la durata, la portata ed affronti l’ipotesi in cui la controparte non intenda sottoscrivere l’accordo.

Fabio Petracci.

Coronavirus

Video. Labor network in streaming: la gestione dei rapporti di lavoro ai tempi del coronavirus.

Pubblichiamo il video del webinar organizzato da Labor network (www.labornetwork.it) il 15 aprile sulla gestione dei rapporti di lavoro ai tempi del coronavirus.
L’intervento del avv. Petracci in merito alla sicurezza sul lavoro nell’emergenza COVD – CORONAVIRUS con particolare attenzione allo stress lavoro correlato e burn out delle categorie più a rischio inizia a 1h 44 min.

Coronavirus

Emergenza Coronavirus Il decreto liquidità n.23/2020 dell’8 aprile. Disposizioni in materia di Salute e di Lavoro. – articolo 38 – Disposizioni in materia di Medicina Convenzionata. I medici di base una categoria di lavoratori troppo trascurata. Di Fabio Petracci già Presidente (2009/2012) del Collegio Arbitrale Regione FVG Commissione Paritetica – Medici di Base FVG.

Le recenti disposizioni di legge sull’emergenza COVID

Il decreto liquidità al Capo VI articolo 38 dopo aver trattato prevalentemente temi finanziari, si sofferma su alcune disposizioni urgenti in materia contrattuale in favore della medicina convenzionata, anticipando gli effetti economici dell’Accordo Collettivo Nazionale 2016 – 2018.

La norma dichiaratamente è finalizzata a compensare la categoria del maggior impegno richiesto ai medici convenzionati per garantire la continuità assistenziale durante l’emergenza sanitaria in corso.

La legge specifica poi che le misure economiche a favore dei professionisti vengono adottate anche per garantire la reperibilità a distanza dei medici della medicina generale (telefonica, SMS, Sistemi di messagistica, Sistemi di videocontatto e videoconsulto) per tutta la giornata anche con l’ausilio del personale di studio, in modo da contenere il contatto diretto e conseguentemente limitare i rischi di contagio dei medici e del personale stesso.

Si attribuisce quindi ai medici l’onere di dotarsi di sistemi di piattaforme digitali che consentano il contatto ordinario e prevalente con i pazienti fragili e cronici gravi, collaborando a distanza, sorvegliando inoltre i pazienti in quarantena o in isolamento o in fase di guarigione dimessi precocemente dagli ospedali.

L’intervento legislativo trova in realtà la propria ragione nella difficile situazione in cui si sono trovati i medici di base di fronte all’avanzare del contagio.

Medici di base e coronavirus.

Naturalmente nel corso dell’epidemia le categorie professionali maggiormente visibili a causa anche dei rischi e dello stress sono stati i medici e gli infermieri degli ospedali che hanno operato nei reparti d terapia intensiva.

Importante è stato anche l’apporto dei medici di famiglia vera e propria linea di comunicazione tra il fronte ospedaliero ed il manifestarsi del contagio sul territorio.

In realtà spesso questo contatto ha incontrato notevoli difficoltà, in quanto questa categoria che si pone a metà strada tra il libero professionista ed il medico dipendente non ha ricevuto i supporti organizzativi, informativi, nonché le attrezzatture necessarie.

La categoria ha avuto tra l’altro numerosi deceduti in servizio a causa del contagio.

La pandemia sviluppatasi ha infatti messo a dura prova l’operatività delle strutture sul territorio evidenziando come non sempre abbia funzionato il raccordo tra l’attività di cura ospedaliera ed il rilevamento del contagio sul territorio.

Si è ampiamente evidenziata la necessità di una nuova organizzazione della medicina convenzionata ed un doveroso riconoscimento della sua importanza e del suo potenziamento.

Una breve storia della regolamentazione del lavoro di questa categoria di professionisti.

La Medicina Generale del Territorio in alcuni paesi denominata medicina di famiglia, è un settore professionale di recente istituzione.

In Italia, sino alla prima metà del novecento, le cure mediche primarie sul territorio erano affidate alle condotte mediche.

Di seguito, si passava all’assistenza medica mutualistica.

Verso la fine degli anni 70, si decideva di avvicinarsi al modello inglese che affidava a ciascun medico una lista di pazienti, in modo che tutta la popolazione potesse avere un proprio medico di riferimento.

Tale modello venne adottato con la riforma della sanità del 1978.

La Riforma Sanitaria.

L’articolo 48 della legge 23.12.1978 n.833 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), esordiva menzionando un accordo economico nazionale che doveva disciplinare il rapporto di lavoro e l’organizzazione dei medici convenzionati che avrebbero dovuto operare sul territorio.

La legge imponeva in ogni caso che detti accordi dovessero rispettare determinati parametri.

Quali un rapporto ottimale tra medico ed assistibili che avrebbe poi dovuto determinare il pagamento del compenso. Dovevano inoltre essere stabiliti dei precisi percorsi di formazione e degli elenchi unici. Erano imposte inoltre tutta una serie di incompatibilità e delle forme di controllo da parte di apposite commissioni paritetiche di disciplina che potevano anche irrogare sanzioni, rispettando i principi della contestazione degli addebiti.

Le finalità di questa organizzazione contrattualizzata erano quelle di assicurare la continuità dell’assistenza e forme di prevenzione e di educazione sanitaria.

Si creava quindi un corpo di liberi professionisti disciplinati da un contratto collettivo nazionale, istituendosi così una categoria di medici la cui prestazione era sicuramente autonomo, pur risentendo di molti aspetti del lavoro dipendente.

La Legge Balduzzi.

Il decreto legge n.158/2012 come convertito in legge n.189/2012 opera la riforma dello status dei professionisti di medicina generale.

Esso istituisce in primo luogo, un ruolo unico per le figure professionali dei medici di base e dei medici di guardia. (comma 3 articolo 1 DL n.183/2012).

Il comma 1 del medesimo articolo 1 invece, riordina l’attività dei soggetti convenzionati richiedendo che essa sia svolta all’interno di strutture organizzative mono professionali o multi professionali.

Si vuole in tal modo creare delle strutture sanitarie organizzate e sempre disponibili sul territorio affidandole ai medici di base venendo così incontro anche al ridimensionamento delle strutture sanitarie principali ed evitando l’ormai noto intasamento del pronto soccorso.

La riforma non attecchisce boicottata anche da spinte corporative e dal subentro di altri ministri al dicastero della sanità.

Forse l’attuale contingenza potrebbe indurre a qualche ulteriore riflessione.

Il Decreto Cura Italia

IL DECRETO “CURA ITALIA” , la guida alle misure.

Sarà presto disponibile la guida alle misure per famiglie, lavoratori e imprese volte a fronteggiare l’emergenza economica scaturita in seguito alla diffusione globale del coronavirus.
Il testo analizza in modo dettagliato il contenuto dei provvedimenti del decreto legge “Cura Italia”, tra cui le misure di sostegno al lavoro, le prestazioni previdenziali e assicurative, senza tralasciare gli interventi straordinari previsti in materia di lavoro agile, gli strumenti di sostegno alle imprese, alle famiglie e le misure in materia fiscale.
A ciò si aggiunge una disamina sulla tutela delle persone vulnerabili, dei minorenni, sui contratti di locazione ad uso abitativo e commerciale e sugli adempimenti connessi alla sicurezza sul lavoro.

Di seguito, gli autori:

GIOVANNI ALESSI, avvocato, è socio fondatore dello Studio Legale SAPG legal con sedi in Milano, Roma, New York e Miami. Specializzato in diritto societario, commerciale, bancario e successorio, ha assistito ed assiste grandi società, anche multinazionali, nonché piccole e medie imprese. Socio dell’Associazione “Il trust in Italia”, ha inoltre una consolidata esperienza in materia di Trust, anticipazione successoria, passaggio generazionale e family office che gli consente di gestire problematiche legate all’amministrazione, alla governance ed alla protezione e trasferimento dei patrimoni. Assiste infine i clienti nei settori di Entertainment, Real Estate, Luxury & Design e Sport. Autore di numerosi scritti nelle materie di competenza, è anche relatore in seminari e convegni.

MAURIZIO ALTOMARE, avvocato penalista del Foro di Trani. È abilitato al patrocinio presso le magistrature superiori. È consigliere e responsabile regionale dell’Ufficio legale della Federazione Antiracket Italiana, nell’ambito della quale fornisce consulenza legale alle vittime dei reati di estorsione e usura, prestando la propria assistenza anche a testimoni di giustizia sottoposti a misure di protezione personale, vittime di usura ed estorsione. Partecipa quale relatore a numerosi incontri e convegni in materia di diritto e procedura penale.

FEDERICA ATTANASI, avvocato tributarista. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università del Salento, ha espletato la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce; successivamente, ha svolto il tirocinio formativo presso il Tribunale di Lecce. Attualmente collabora con lo studio tributario “Villani” per cui redige pareri ed articoli in materia fiscale e tributaria.

MASSIMILIANO FERRARI, laureato in Economia e Commercio presso l’Università “Luigi Bocconi” col massimo dei voti. Specialista in gestione societaria, consulente fiscale e revisore dei conti. È stato Presidente della Commissione contenzioso dell’Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili di Lecco. Mediatore abilitato e formatore per associazioni di categoria, enti e aziende, svolge la propria attività a livello nazionale presso vari organismi di mediazione e società di formazione. Dal 2013 è socio fondatore dello Studio Ferrari & Associati di Lecco. Relatore e docente a convegni, corsi e master in materia di contenzioso tributario e mediazione civile e commerciale. Autore con Zaira Pagliara dell’opera “Mediazione civile e tributaria a confronto” (Editrice Ad Maiora, 2016), ha curato con Luca Brenna e Marco Milani, l’opera “Il Processo Tributario Telematico. Professionisti e Innovazione Digitale”, (Ad Maiora 2.0, 2017). Recentemente ha pubblicato con Armando Dragoni, l’opera “Legge di Bilancio 2020” (Duepuntozero, 2020).

NICOLA FRIVOLI, avvocato del Foro di Bari, svolge attività di consulenza legale nelle materie del diritto civile. Per oltre dieci anni ha ricoperto l’incarico di Giudice Onorario presso i Tribunali di Bari e di Trani. Cultore della materia presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari è attualmente docente presso la Scuola Forense Barese. Autore di opere monografiche pubblicate da case editrici di rilevanza nazionale, è una delle firme dell’inserto “L’Economia” del Corriere della Sera.

FABIO PETRACCI, è titolare dello omonimo studio legale con sede in Trieste. Specializzato in diritto del lavoro e del pubblico impiego, è cultore della materia presso l’Università degli studi di Trieste. Consulente in ambito nazionale di diverse organizzazioni sindacali, ricopre la carica di Presidente del Centro Studi “Corrado Rossitto” della Confederazione Italiana di Unione delle professioni intellettuali. Autore di numerosi saggi di diritto del lavoro, ha al suo attivo numerose collaborazioni con riviste a livello nazionale. Autore della pubblicazione “Reddito di Cittadinanza” (Duepuntozero, 2019) e “Previdenza Sociale e Lavoro. Il nuovo sistema pensionistico: tutele e contenzioso” (Duepuntozero, 2020).

MADDALENA PETRONELLI, avvocato cassazionista. Presidente della sede territoriale di Trani della Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia e i Minorenni, esercita nel campo del diritto civile, occupandosi in particolare di diritto dei minori e della famiglia. Esperta di diritto fallimentare e di procedure esecutive, ricopre incarichi di curatrice e delegata alle vendite presso il Foro di appartenenza. Autrice del volume “Il nuovo diritto di famiglia: matrimonio, unioni civili e convivenze di fatto” (Ad Maiora 2.0, 2016). Tra le sue pubblicazioni: “Gli strumenti telematici nelle procedure esecutive immobiliari” (Ad Maiora 2.0, 2017), “Gli aspetti patrimoniali della crisi familiare” (Duepuntozero, 2018), “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” e “I nuovi profili della responsabilità genitoriale: diritti, doveri e tutele” (Duepuntozero, 2019).

PASQUALE SANTORO, laureato in giurisprudenza e in scienze economiche, esercita la professione di avvocato civilista. Giudice onorario presso il Tribunale di Bari, è formatore in diritto e tecnica delle assicurazioni. Autore pubblicazioni in materia di responsabilità civile e diritto delle assicurazioni, collabora con il “Foro Italiano” e “Danno e Responsabilità”. Di recente ha pubblicato con La Tribuna “Le nuove norme sulle assicurazioni R.C.A.” (2017) e con Duepuntozero “L’Assicurazione della R.C. Auto tra tecnica, diritto e giurisprudenza – La polizza, le responsabilità, i danni risarcibili” (2020).

DOMENICO SPINAZZOLA, laureato in Scienze delle Professioni Sanitarie della Prevenzione e in Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Si è specializzato in Diritto, Economia e Management delle Aziende Sanitarie presso l’Università LUM “Jean Monnet” di Casamassima. Dal 2007 è dirigente sanitario Responsabile del Servizio delle Professioni Sanitarie della Prevenzione presso la ASL BAT.

MAURIZIO TARANTINO, avvocato del Foro di Bari, svolge attività di consulenza legale con particolare interesse nelle materie di diritto civile e di famiglia. Esperto in diritto condominiale e delle locazioni, articolista giuridico, autore e curatore di importanti opere per alcune delle più importati case editrici del settore, collabora su tematiche giuridiche con diverse riviste e siti specializzati.

ALBERTO TARLAO, avvocato, da sempre attento ai temi giuslavoristici, ha conseguito un master in Diritto del Lavoro e della Previdenza Sociale. Attualmente collabora con Guida al Lavoro del Sole 24 Ore ed è relatore a conferenze in materia giuslavoristica.

MAURIZIO VILLANI, avvocato cassazionista. Specializzato in Diritto Tributario e Penale-Tributario, è relatore in vari convegni nazionali. Docente nei Corsi di Perfezionamento giuridico biennale ad indirizzo teorico-pratico per gli avvocati, è cultore della materia in Diritto Processuale Tributario presso la Libera Università Internazionale Ricerca Scientifica di Roma. Promotore della riforma della giustizia tributaria sin dal 2000, è anche autore di due disegni di legge oggi al vaglio del Senato, nel 2016 è stato insignito del Premio Barocco Nazionale per “il fondamentale contributo scientifico nell’ambito della riforma del nuovo processo tributario”. Collabora con numerose riviste tra cui: Il Sole 24 ore, il Corriere Tributario e il portale Il Tributario di Giuffrè Francis Lefebvre. È autore di diversi testi in materia di contenzioso tributario.

E con la collaborazione di Chiara Bassanese, laureanda in Giurisprudenza con tesi in Diritto del Lavoro, collaboratrice dell’avvocato Fabio Petracci in diverse pubblicazioni e ricerche, aderente all’associazione Libera contro le mafie dal 2012 al 2015, con la quale ho partecipato ad eventi nazionali di attivismo contro il fenomeno mafioso.

Lavoro Agile, oggi una necessità, domani una opportunità.

IL LAVORO AGILE – SMART WORKING

1. Il lavoro agile (Smart Working) e il lavoro a domicilio (il telelavro): punti in comune e differenze; 2. Il lavoro agile (Smart Working) nell’attuale legislazione; 3. Contratti ed esperimenti di lavoro agile (Smart Working) già in essere. Possibilità di applicazione; 4. Punti critici: come determinare la retribuzione, controllo e potere disciplinare, riservatezza, personalità della prestazione, aspetti previdenziali; 5. Il lavoro agile (Smart Working) nel pubblico impiego: il testo unico e la normativa in materia, disposizioni contrattuali, circolari, esperienze, la normativa dell’emergenza, regolamenti degli enti pubblici.

1. Il lavoro agile (Smart Working) e il lavoro a domicilio (il telelavro): punti in comune e differenze

Il lavoro agile – o Smart Working – viene introdotto nel nostro ordinamento con la legge 22 maggio 2017 n. 81, con il fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro e, in questo modo, di aumentare la produttività. La legge lo definisce come una modalità di prestazione del lavoro subordinato, riportante delle peculiarità delineate dalla legge stessa.

La pratica del lavoro agile porta dei vantaggi: il miglioramento della qualità della vita del lavoratore, che ha più tempo libero a disposizione da dedicare a se stesso e alla famiglia, comporta un miglioramento dei profitti aziendali poiché il benessere del dipendente aumenta la produttività e riduce l’assenteismo. Inoltre, la riduzione degli spostamenti per recarsi sul posto di lavoro riduce l’impatto ambientale, oltre a ridurre gli infortuni in itinere (ridotti anche grazie a una qualità della vita meno frenetica del lavoratore).

Il lavoro a domicilio – o telelavoro – è stato introdotto invece dal DPR n. 70/1999 e ripreso dall’articolo 1 dell’Accordo del 9 giugno del 2004. Per tale modalità di lavoro si intende una prestazione lavorativa subordinata effettuata regolarmente a distanza dal lavoratore, cioè al di fuori della sede di lavoro, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Le due modalità lavorative riportano dei punti in comune:

  • Si tratta di una prestazione di lavoro subordinato;
  • La prestazione lavorativa non avviene all’interno dei locali aziendali;
  • La possibilità di utilizzo di un supporto tecnologico;
  • La possibilità, tanto per il settore privato come per il settore pubblico, di optare per tale modalità di lavoro.

Nonostante le somiglianze, vengono riportate tuttavia delle differenze:

  • La disciplina dello Smart Working esclude l’applicazione della normativa sul telelavoro, inadeguata di fronte alla veloce evoluzione degli strumenti tecnologici, oltre ad essere più rigida e costosa;
  • Il luogo di lavoro nel caso dello Smart Working è flessibile e non deve svolgersi obbligatoriamente sul luogo di lavoro, mentre nel caso il telelavoro è sì disancorato dai locali aziendali, ma prefissato;
  • Dalla flessibilità del luogo di lavoro deriva che, nel caso dello Smart Working, il datore di lavoro deve individuare nell’informativa periodica (con cadenza almeno annuale) i rischi generali e specifici connessi alla modalità della prestazione, mentre nel caso del telelavoro (di cui, a differenza dello Smart Working, si conosce in anticipo il luogo della prestazione) il datore deve anche garantire la sicurezza dei luoghi che il dipendente utilizza per lavorare;
  • L’orario di lavoro nel caso dello Smart Working è flessibile (comportando il diritto del lavoratore alla disconnessione), mentre è definito nel telelavoro ed equivale alla durata della prestazione in azienda.

Il tempo del lavoro assume quindi natura definitoria per distinguere le due fattispecie.

2. Il lavoro agile (Smart Working) nell’attuale legislazione

Come già accennato sopra, il lavoro agile viene introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 22 maggio 2017 n. 81, con la finalità di aumentare la produttività permettendo al lavoratore la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

La definizione di lavoro agile viene delineata dalla legge attraverso alcune caratteristiche:

  • L’esecuzione della prestazione lavorativa avviene solo in parte all’interno dei locali aziendali e con i vincoli di orario massimo derivanti da legge e contrattazione collettiva;
  • La possibilità di utilizzo di strumenti tecnologici;
  • L’assenza di postazione fissa nei periodi di lavoro svolti fuori dai locali aziendali;
  • La volontarietà della prestazione;
  • La necessarietà di un accordo scritto tra le parti, che definisca le modalità di esecuzione della prestazione quando resa all’infuori dei locali aziendali e gli strumenti utilizzati dal dipendente, oltre all’individuazione del tempo del lavoro e del rispetto dei tempi di riposo e all’individuazione del periodo di preavviso di recessione dell’accordo a tempo indeterminato che non sia inferiore a 30 giorni;
  • La durata dell’accordo può essere a tempo determinato o indeterminato e ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine (se a tempo determinato) o senza preavviso se sussiste una giusta causa (se a tempo indeterminato). Se questa mancasse, l’accordo deve prevedere un periodo di preavviso comunque non inferiore a 30 giorni.

3. Contratti ed esperimenti di lavoro agile (Smart Working) già in essere. Possibilità di applicazione

Diverse grandi imprese, alla proposta di riforma che avrebbe introdotto lo Smart Working nell’ordinamento italiano, si sono dimostrate poco interessate. Da un lato, il quadro normativo non era certo ed interpretabile, e dall’altro lato non era chiara la materia di modalità di utilizzo degli strumenti e di gestione delle questioni riguardanti salute e sicurezza sul lavoro.

Altre imprese, invece, avevano adottato già dal 2016 delle modalità di Smart Working. Questo ha aperto le porte a delle opportunità, ad esempio gli uffici condivisi di co-working, e può aprirne in futuro per combattere la discriminazione di genere:

A. La modalità dello Smart Working in spazi di co-working

Come già evidenziato da Il Sole 24 ore nel 2015, sono stati sperimentati degli spazi di co-working, ossia degli uffici in condivisione tra più professionisti che lavorano con la modalità dello Smart Working. A Milano è stato aperto uno di questi spazi che può ospitare fino a 5mila lavoratori, ma esistono anche altre numerose realtà di co-working tra l’Italia e la Svizzera. Il vantaggio di questo tipo di uffici, secondo Mauro Mordini (Country Manager di Regus) è quello di pagare solo per ciò che effettivamente si usa (linee telefoniche, WiFi ecc.) e di usufruire di spazi diversi per il lavoro a seconda delle esigenze. L’abitazione del lavoratore non è un ambiente professionale e non dà accesso a tutti gli strumenti che si possono trovare in uno spazio condiviso, permettendo inoltre un risparmio sui costi fissi. Viene offerta un’occasione, tra l’altro, di creare un network di contatti che si generano da un ufficio in cui coesistono più piani e più realtà.

B. Lo Smart Working come modalità per combattere la discriminazione di genere

I presupposti da prendere in considerazione sono tre:

  • l proposito dell’introduzione dello Smart Working nell’ordinamento italiano con la legge del 22 maggio 2017 n.81 è quello di aumentare la produttività permettendo al lavoratore una più semplice conciliazione dei tempi del proprio lavoro e della propria vita;
  • Vantaggi derivanti dalla stipulazione di tali accordi sono il miglioramento della qualità della vita del lavoratore, poiché diventa meno frenetica vista anche la riduzione degli spostamenti per recarsi al luogo di lavoro;
  • Come evidenziato a livello tanto nazionale quanto dai lavori degli ultimi anni della Commissione Europea, molte donne italiane sono fin troppo spesso costrette ad optare per soluzioni di riduzione dell’orario di lavoro (part-time), riducendo così anche lo stipendio e i contributi previdenziali, se non addirittura lasciando il lavoro per un periodo o definitivamente (comportando la mancanza di stipendio e contributi previdenziali), poiché il carico della vita famigliare è tutto sulle loro spalle. Questo comporta, ad esempio, una discriminazione indiretta di misure in materia previdenziale, come ad esempio la legge 28 marzo 2019 n.26 che istituisce la modalità di pensionamento anticipato Quota 100. Lavorando meno ore rispetto agli uomini o dovendo lasciare il lavoro per un periodo o definitivamente per prendersi cura della famiglia (oltre al discorso sul gender pay gap), per le donne è più arduo versare i contributi per gli anni necessari necessari per poter accedere alla pensione anticipata, nonostante la previsione della c.d. opzione donna. Inoltre, le donne sono più esposte al rischio di infortuni in itinere poiché il dover conciliare i tempi del lavoro con le necessità famigliari le porta a muoversi più di fretta rispetto agli uomini.

Un accordo di Smart Working, quindi, può essere un’occasione per la donna per non dover lasciare il lavoro o per non essere costretta ad optare per una riduzione dell’orario di lavoro, siccome lo stesso scopo che si propone l’introduzione della modalità è rendere facile al lavoratore (la lavoratrice) la conciliazione tra il tempo del lavoro e della propria vita. La lavoratrice, allora, non si troverebbe costretta ad accontentarsi di un salario ridotto (o mancante) e potrebbe versare i contributi previdenziali senza veder svanire la possibilità, ad esempio, di un pensionamento anticipato.

Inoltre, la riduzione degli spostamenti permetterebbe alla lavoratrice di non dover muoversi in fretta, riducendo gli infortuni in itinere.

4. Punti critici: come determinare la retribuzione, controllo e potere disciplinare, riservatezza, personalità della prestazione, aspetti previdenziali

Il dipendente, nello svolgimento della propria mansione con le modalità dello Smart Working, ha diritto ad una retribuzione non inferiore a quella corrisposta agli altri lavoratori subordinati a parità di mansioni svolte.

Il potere disciplinare del datore di lavoro è lo stesso previsto dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (lo Statuto dei Lavoratori), dei limiti della legge e dell’accordo raggiunto con il lavoratore. L’accordo tra le parti, oltretutto, deve precisare eventuali altri comportamenti disciplinarmente rilevanti ulteriori rispetto a quelli già individuati dal datore di lavoro nel codice disciplinare esposto in azienda.

Il datore di lavoro, inoltre, deve garantire la protezione dei dati utilizzati ed elaborati dal lavoratore che svolge la sua prestazione lavorativa in modalità di Smart Working.

Dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, come già accennato nel primo capitolo, il datore di lavoro ha l’obbligo generale di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore in modalità di lavoro agile, ma ha anche l’obbligo di informativa periodica (almeno una volta all’anno) in cui deve individuare i rischi generali e specifici connessi alla modalità di adempimento alla prestazione lavorativa. Se dovesse verificarsi un infortunio durante lo svolgimento dell’attività lavorativa all’infuori dei locali aziendali, connesso con la prestazione lavorativa, la legge stabilisce il diritto alla copertura INAIL.

5. Il lavoro agile (Smart Working) nel pubblico impiego: il testo unico e la normativa in materia, disposizioni contrattuali, circolari, esperienze, la normativa dell’emergenza, regolamenti degli enti pubblici.

Il lavoro agile nel settore pubblico

Il lavoro agile era già stato previsto come applicabile al pubblico impiego con l’art. 14 della legge 7 agosto 2015 n. 124, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che introduceva nuove misure per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che le varie amministrazioni avrebbero dovuto applicare dal momento dell’entrata in vigore della legge.

Queste, infatti, con il limite delle risorse di bilancio disponibile con la legislazione vigente e senza oneri ulteriori per la finanza pubblica, avrebbero dovuto adottare misure per fissare gli obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro, ma soprattutto sperimentare la modalità di prestazione lavorativa dello Smart Working.

Misure, queste, concernenti l’organizzazione del lavoro basate sulla flessibilità lavorativa che tenga conto dei bisogni dei dipendenti in modo da conciliare i loro tempi della vita e del lavoro, che permettano entro tre anni ad almeno il 10% dei dipendenti, che richiedano l’accordo per lavorate con tale modalità, di avvalersi delle nuove e flessibili modalità lavorative, con la garanzia di non subire penalizzazioni ai fini del riconoscimento della professionalità e della progressione di carriera.

Destinatari di tali misure sono tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, senza discriminazioni. A tale proposito viene istituito un organo di controllo, il Comitato Unico di Garanzia. I dirigenti, anch’essi potenziali fruitori della misura, sono tenuti a salvaguardare le aspettative di chi utilizza le nuove modalità in termini di formazione e crescita professionale e promuovano percorsi informativi e formativi che non escludano i lavoratori dal contesto lavorativo, dai processi di innovazione in atto e dalle opportunità professionali.

Le varie amministrazioni sono tenute a:

  • Adottare misure che permettano al lavoratore di conciliare i tempi del lavoro e della propria vita, che non prevedano per forza la presenza del lavoratore nei locali aziendali;
  • Dare la precedenza alla fruizione dei lavoratori che si trovino in condizioni di svantaggio personale, familiare e sociale e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato;
  • Individuare le attività che non sono compatibili con la nuova modalità di lavoro, tenendo conto dell’obbiettivo per il triennio successivo all’entrata in vigore della legge della fruizione della misura da parte di almeno il 10% dei dipendenti che lo richiedano;
  • Individuare degli obbiettivi prestazionali specifici, misurabili, coerenti e compatibili con il contesto organizzativo che permettano di responsabilizzare il personale e di valutare e valorizzare la prestazione in termini di risultati effettivamente raggiunti, obbiettivi tanto quantitativi come qualitativi;
  • Promuovere dei corsi di formazione, in particolare per i dirigenti, per una maggiore diffusione del ricorso alla nuova modalità lavorativa e per incrementare produttività e modelli organizzativi più competitivi;
  • Riprogettare lo spazio fisico e virtuale del lavoro, creando anche degli spazi condivisi;
  • Promuovere l’uso della tecnologia per la prestazione lavorativa, anche per colmare il c.d. digital divide per il consolidamento di una struttura amministrativa basata su reti informatiche e tecnologicamente avanzate.

A tal proposito, è necessaria un’attenta analisi del contesto dell’organizzazione del lavoro interna all’amministrazione, la definizione degli obiettivi e delle caratteristiche del progetto generale di Smart Working, avviare poi la sperimentazione, ed infine monitorarla e valutarla.

La direttiva è vincolante per le Amministrazioni dello Stato:

  • Scuole;
  • Aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo;
  • Regioni, Province, Comuni, Comunità montane e loro consorzi e associazioni;
  • Università;
  • Istituti autonomi case popolari;
  • Camere di commercio e loro associazioni;
  • Tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali;
  • Amministrazioni, aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale;
  • Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate).

La normativa dell’emergenza

Vista la pandemia del virus COVID-19 che negli ultimi mesi si sta diffondendo non solo in tutta Europa, ma anche in tutto il mondo, si è vista la necessità di un distanziamento sociale per rallentare – e poi fermare – il contagio. La necessità sottesa allo Smart Working, quindi, in questo periodo non è tanto la conciliazione dei tempi del lavoro e della vita del lavoratore, quanto la necessità di evitare contatti con le altre persone nei locali aziendali.

La necessità di salvaguardare la salute e sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro stato evidenziato dal DL 2 marzo 2020 n.9 (e successive modifiche) e dal Protocollo condiviso dal Governo e dalle Parti Sociali del 14 marzo 2020 – Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro. Entrambe le fonti legali dispongono di preferire l’applicazione della misura, ove possibile, dello Smart Working, tanto nel settore privato come nel settore pubblico.

Il DL 25 marzo 2020 n.19 dedica al pubblico impiego gli articoli 18 e seguenti e, incentrato sull’applicazione dello Smart Working, è l’articolo 18:

  • Art. 18 Misure di ausilio allo svolgimento del lavoro agile da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico: per agevolare lo Smart Working vengono incrementati del 50% i quantitativi massimi delle vigenti convenzioni-quadro di Consip SPA per la fornitura di PC e tablet ai lavoratori, fatta salva la facoltà, da parte dell’aggiudicatario, di recesso da esercitarsi entro 15 giorni dalla comunicazione della modifica da parte della stazione appaltante. Nel caso di recesso o aumento dei quantitativi non soddisfacente al fabbisogno delle Pubbliche Amministrazioni, è possibile pubblicare dei bandi di gara.

Tuttavia, come esposto nell’articolo Lavorare da casa sta innalzando la produttività (ma si lavora anche di più). I primi dati, comparso sulla rivista Forbes Italia il 2 aprile 2020, molti dei lavoratori alle dipendenze di aziende pubbliche quanto di pubbliche amministrazioni ritengono di lavorare di più rispetto alle ore di lavoro all’interno dei locali aziendali (ricerca condotta da OnePoll per conto di Citrix Systems – fornitore statunitense di sistemi di business continuity, coinvolgente 5mila lavoratori in tutto il mondo, Italia compresa). Il 22,1% degli italiani intervistati sostiene di aver lavorato almeno un giorno da casa anche prima dell’emergenza mondiale, il 70,8% sostiene di lavorare le stesse ore lavorate in ufficio o superiori e il 78,9% sostiene che i livelli di produttività sono uguali o superiori.

Questi dati, probabilmente, saranno dovuti al fatto che la normativa dell’emergenza ha velocizzato il passaggio dal lavoro nei locali aziendali al lavoro agile, omettendo ad esempio la fase di formazione prevista invece dalla legge 7 agosto 2015 n. 124. La differente ratio delle due fonti, tuttavia, non può giustificare la restrizione del diritto del lavoratore al rispetto dell’orario di lavoro ed alla disconnessione.

Fabio Petracci

Chiara Bassanese

Sito INPS

Offline il sito dell’INPS, l’opinione di un quadro informatico (di altro ente previdenziale)

In questi giorni, abbiamo assistito al default del sito informatico dell’INPS che ha causato nell’ambito della situazione di emergenza dovuta al Coronavirus un ulteriore emergenza che ha impedito la distribuzione degli aiuti economici stabiliti dal Governo.
Per capire almeno alcune delle ragioni che non permettono a queste strutture di funzionare correttamente, pubblichiamo la testimonianza di un quadro informatico di un ente previdenziale.
Come vedremo, alla vicenda personale di mortificazione della professionalità, si accompagnano scelte aziendali che non sempre appaiono corrette.
Pubblichiamo questa esperienza , non per polemica, in questo momento non ce ne sarebbe proprio bisogno, ma perché in futuro la professionalità acquisita non venga trascurata e sprecata.

UN PO’ DI STORIA
L’informatizzazione dell’ente inizia nel 1983 con il cosiddetto Nuovo Sistema Informativo.
Questo prevedeva, oltre all’informatizzazione delle aree istituzionali (“premi” e “prestazioni”), la creazione di un CED per ciascuna sede territoriale e l’installazione di uno o due “mainframe” (i cosiddetti sistemi dipartimentali”, IBM 8100 prima con sistema operativo DPCX e, in seguito IBM 9370 con sistema operativo DPPX) e di un terminale “stupido” con relativa stampante per ciascun utente amministrativo.
Nei CED erano previsti 2 “operatori di controllo” per ciascun sistema dipartimentale. A ………, dove cominciai ad operare, eravamo in 4 per la sola sede di ……….
Gli “operatori” vennero selezionati su base volontaria attraverso quiz psico-attitudinali (quelli classici che la IBM allora somministrava per selezionare il proprio personale). Per essere ammessi alla selezione bisognava dichiarare in forma scritta l’impegno, in caso di esito positivo, di frequentare i successivi corsi di formazione e le successive selezioni (successivamente fu illegittimamente inibito agli informatici, per salvaguardare l’investimento in formazione fatto su di loro, di accedere alle selezioni per ispettori di vigilanza, in pratica “bloccandoli” nel profilo in maniera discriminatoria). Ai quiz seguiva il corso selettivo di tre settimane consecutive a Roma, presso il “Servizio Meccanizzazione” , Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale). La selezione consisteva nell’invio ai corsi del doppio del personale necessario che veniva poi dimezzato attraverso una esame finale. Una selezione seria, dunque!
Già allora, per il merito delle problematiche trattate, il rapporto tra il personale informatico “periferico” e la direzione centrale tendeva ad essere diretto e non mediato gerarchicamente dalle direzioni (allora “ispettorati”) regionali e le direzioni delle unità di appartenenza (sedi).
I direttori delle sedi, poco collaborativi e generalmente chiusi al cambiamento, mal digerivano quello che interpretavano come un eccesso di indipendenza e si opponevano al fatto che il personale migliore venisse sottratto al buco nero burocratico-amministrativo, ponendo in atto resistenze passive di ogni genere attraverso atteggiamenti contraddistinti da ignoranza, arroganza, supponenza, ignavia, negligenza. Esercitarono pressioni corporative anche sul Direttore Generale che, per ridimensionare lo “scandalo” della presenza di questo personale selezionatissimo e “anarchico”, fino ad indurlo a scrivere una lettera, infarcita di ambiguità , dove tra le righe apriva ad una possibilità di utilizzo del personale informatico “anche” sul fronte amministrativo (i “tempi morti”, fisiologici in un CED, che morti non sono affatto perché sono lo spazio per elaborare soluzioni che richiedono impegno mentale, venivano interpretati, nella loro visione tradizionalmente asfittica che non concepisce necessario il “pensare”, come dolce far niente in orario d’ufficio). Ricordo, di quell’antica lettera la frase-cerniera, “onde non rimanere avulsi dal contesto produttivo”, come se gli informatici non producessero nulla, come se non fossero, se non gli unici, tra i pochi, ad avere una visione globale dei problemi da quell’osservatorio privilegiato che si era rivelato il CED, come se non fossero il motore concreto di un cambiamento epocale nel modo di lavorare.
Questa strategia di corto respiro e, soprattutto, inutile portò al consolidamento del legame con la Direzione Centrale e con le énclave più illuminate di questa, creando una sorta di legame cameratesco con colleghi e dirigenti contraddistinto da orizzontalità, degerarchizzazione pur nel rispetto dei ruoli, spirito di corpo. Il “tu” era d’uso, come negli ambienti IBM, e nelle molteplici occasioni in cui si andava a Roma ci si trovava anche fuori dalle mura dell’Istituto. Con alcuni elementi del mitico Punto Assistenza Utenti, tutti ormai in pensione da anni, grazie anche ai “social”, esistono ancora oggi rapporti da “commilitoni”.
Ovviamente non fu per tutti così, alcuni colleghi, soprattutto in realtà più provinciali (come quella , dove opero dal 1991,), non seppero contrastare adeguatamente le pressioni dei direttori di sede e accettarono di svolgere, a latere di un lavoro già impegnativo, anche lavoro amministrativo. Quivi u collega , come tutto ringraziamento per essersi occupato anche di rendite, fu deferito alla Corte dei Conti e si vide per anni la liquidazione bloccata). Come era prevedibile ne uscì pulito, visto che la causa del danno erariale era da ascriversi non al suo operato, bensì a patologie organizzative endemiche, ma non ripagato a sufficienza né del lavoro svolto, né dei patemi subiti.
Questo legame diretto con la direzione centrale, come vedremo in seguito, da via di fuga si trasformerà in un boomerang e, comunque, ha rappresentato fin dall’inizio una ulteriore patologia organizzativa che si cronicizzerà. Grazie al combinato disposto di questa doppia stortura, i problemi informatici erano (e sono) percepiti come problemi esclusivi “degli informatici” e basta, e non della struttura di appartenenza. Addirittura la gestione di parte degli approvvigionamenti del materiale di consumo (ad es. nastri e cartucce per stampanti, diversamente da quanto accadeva per la carta e le penne) avveniva (e in molte realtà ancora avviene) a cura dei CED e non di quelli che, al tempo, si chiamavano economati). Fin da allora, e proprio grazie agli atteggiamenti di coloro che sembrava auspicassero il contrario, avveniva la trasformazione di fatto del CED in “corpo separato” a cui tutto chiedere e nulla dare in termini di logistica e sinergie organizzative, salvo far valere la gerarchia ove ve ne fosse necessità: il CED già da allora percepito come “appaltatore” dei sevizi informatici e non già come momento organizzativamente e logisticamente coordinato con il resto della struttura.
I RAPPORTI CON I COLLEGHI
La questione dei “fannulloni” (Brunetta) e/o “nullafacenti” (Ichino) non nasce per caso o per invenzione: insufficienze logistico-organizzative, modalità di selezione del personale ingerenze indebite e abusive da parte di elementi politici (e conseguenti cattivi esempi) hanno, nel tempo, portato il personale ad assumere modalità di adattamento al “sistema” tali da legittimare e garantire, pro domo sua, sempre il massimo rendimento con il minimo sforzo ed evitare il rischio di “sovraesposizione”. Il motto potrebbe essere “sbaglia chi lavora e io non sbaglio mai”.
Quale alibi migliore dunque dell’informatica che non funziona? Come recita un saggio proverbio piemontese “Na cativa lavandera a treuva mai na bona pera” (la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra). Peccato che a fare da parafulmine fossero (e sono) gli informatici, sia per i malfunzionamenti endemici all’INAIL, sia per la strumentalizzazione di questi.
Un illuminante aforisma dice: “Quando gli altri non sanno ciò che tu sai, tu non sai niente”. Quando a non sapere ciò che tu sai è il tuo responsabile il clima si fa pesante.
Il rapporto con i dirigenti normalmente si manifesta in due modalità tipiche, opposte ma entrambe esiziali. La prima consiste nella pretesa di fare i controllori con gli strumenti che man mano ti mette a disposizione il controllato; la seconda, più subdola, nel “dare carta bianca” per non assumersi nemmeno le responsabilità di carattere generale e/o liminare.
Il rapporto con i colleghi amministrativi è ancora più scivoloso. A parte rare eccezioni la norma consiste nello spacciare per “tecnico” e quindi di competenza dell’informatico, ogni problema di tipo pratico o gestionale, dalla sostituzione della cartuccia di toner fino all’uso di un programma applicativo o di una procedura informatizzata nella quale l’informatico non può nemmeno entrare perché, correttamente, non abilitato. Il problema non è tanto quello di ricordare agli interessati, anche a muso duro, che sono affari loro, ma di ricevere comunque venti telefonate e discutere venti volte, quando solo una o due di quelle telefonate sono pertinenti. Dati i presupposti non si tratta mai di telefonate “serene”.
I peggiori sono quelli che o perché sanno che verranno mandati al diavolo o perché non vogliono assumersi la piena responsabilità della loro accidia, vanno dal direttore. Questi ovviamente chiama l’informatico e, dopo aver ottenuto la spiegazione, chiede “per favore” di mettere in condizione il collega, solitamente un caso umano, di operare, o di smascherare l’alibi. Questo comporta ovviamente il dover affrontare tensioni interpersonali delle quali chi ha scelto di occuparsi di questioni tecniche non è tenuto a occuparsi, il dover assistere, in alcuni casi a scenate isteriche, pianti e sceneggiate invereconde.
Vi è inoltre la pretesa che l’informatico supplisca a formazione, informazione, addestramento carenti o del tutto inesistenti (grottesco dopo oltre quindici anni di formazione negata).
Solitudine, incomprensione, carico mentale (elaborare soluzioni a problemi è diverso che passar carte!), carico psicologico da oggettive difficoltà relazionali diventano il leitmotiv di una funzione che dovrebbe essere esclusivamente tecnica!
RIPRENDIAMO LA STORIA
Intanto l’informatica continuava ad evolversi. All’inizio degli anni ’90 ai vecchi mainframe vennero affiancati sottosistemi UNIX per la gestione delle azioni di rivalsa (progetto “polaris”) e di quella che poi sarebbe diventata la “gestione documentale”), ai terminali stupidi vennero sostituiti dei personal computer con sistema operativo windows 3.1 e subito dopo windows ’95, comparvero i primi collegamenti internet, su rete ISDN e i primi indirizzi di posta elettronica, abusivi e artigianali, implementati a cura dei CED (su sollecitazione impropria della dirigenza) grazie ai servizi offerti da provider gratuiti tipo “libero” (bisognava “far vedere” all’“esterno” che si era “avanti”).
Sempre pressati da un surplus di lavoro derivante dai rapporti distorti con i colleghi e con la dirigenza, gli informatici si trovarono a lavorare dovendo dominare contemporaneamente almeno sette sistemi operativi diversi (DPPX, dos, windows 3, windows 95, due versioni di UNIX, OS2 IBM…) in un clima di solitudine oppressiva e quasi di ostilità da parte dei colleghi che opponevano fiera resistenza ad ogni evoluzione e ad ogni richiesta di farsi parte attiva del cambiamento.
Intanto, a peggiorare una situazione già critica, cominciava il turn-over della prima generazione di informatici. A Roma il PAU spariva ed iniziavano le esternalizzazioni, nel silenzio di sindacati sospettabili di collusione, per la “periferia”, a parte un concorso, si continuava a pescare dalla lista dei test psico-attitudinali senza comprendere che non si trattava di una graduatoria di “idonei” e che sotto un certo punteggio esisteva l’inidoneità certificata.
Mi accorsi che molte operazioni qualificanti, demandate al centro, potevano essere compiute in periferia e ne parlai con alcuni interlocutori qualificati. La versione corrente era che non si potessero affidare compiti delicati a persone che “avrebbero fatto danno”, visti gli ultimi ingressi nei CED (sì, ma perché li hanno selezionati?). Ma forse si voleva solo affidare alle società esterne per motivi non sempre chiari l’attività(i progetti avviati intanto fallivano aprendo una ponderosa stagione di scandali con tanto di arresti).
Le esternalizzazioni intanto continuavano, il monopolio IBM-Olivetti-Telecom si sgretolava e si affacciavano alla ribalta sempre più numerosi soggetti esterni, spesso, si dice, nati ad hoc, ai quali veniva affidata la migrazione delle procedure istituzionali da mainframe ad archittettura “client-server”. Questa prima migrazione avveniva affidando a diverse società esterne la riscrittura delle procedure senza che questi soggetti colloquiassero tra di loro. Si arrivò al punto di non poter caricare più procedure sullo stesso pc e all’impossibilità di avere una configurazione standard per tutti i pc, e questo creò problemi logistico organizzativi enormi in periferia, dove, si dovevano rattoppare le carenze centrali con soluzioni subottimali e di corto respiro. Le soluzioni e gli adattamenti per rimediare a quella “sommarietà” romana che poi sarebbe diventata la regola, dipendevano quindi esclusivamente dagli informatici “periferici” sui quali ricadeva l’onere di far funzionare tutto nonostante tutto. I corsi di aggiornamento e i viaggi verso Roma diminuirono fino ad azzerarsi completamente e, in periferia ormai ci si doveva affidare pressoché esclusivamente all’esperienza dei singoli e alla buona volontà.
Finalmente questa fase finì e si arrivo alla migrazione delle procedure su piattaforma web. Nel frattempo i sistemi dipartimentali, i mainframe, erano stati dismessi.
Gli informatici periferici non vennero più rimpiazzati e a quelli rimasti vennero affidati i compiti “residuali”, quello che al netto di qualsiasi eufemismo, si è soliti chiamare “lavoro di merda”. Dequalificazione professionale e demansionamento avanzavano spediti e inesorabili.
I RAPPORTI CON LE SOCIETA’ ESTERNE
Se dal punto di vista sindacale sull’argomento vi sarebbe molto da dire, la scelta di esternalizzare dal punto di vista aziendale è una scelta come un’altra.
Una corretta logica però avrebbe voluto che le società esterne operassero sul territorio coordinate e controllate da nostro personale. Nonostante gli informatici territoriali si relazionassero quotidianamente con le società esterne questo non è avvenuto. Si è preferito, come ho già detto, depauperare un personale altamente qualificato di mansioni e funzioni, ponendolo sullo stesso piano del personale esterno, ferme restando però le responsabilità legate alla “funzione pubblica”. I compiti del personale INAIL sono di fatto diventati indistinguibili da quelli degli addetti esterni, così che taluni lavori rischiano di essere pagati due volte, una volta attraverso il corrispettivo del contratto con la società esterna, un’altra con lo stipendio del funzionario. Nessuno, nemmeno il sindacato, ha fatto chiarezza su questo delicatissimo aspetto.
Al momento attuale, a livello di Direzione Centrale , il rapporto con gli esterni è quello corretto, in quanto questi sono controllati e coordinati dai nostri, mentre il rapporto tra informatici periferici e esterni non lo è. Costoro si permettono di scrivere e telefonare ai nostri funzionari sul territorio impartendo disposizioni di fatto, imponendo scadenze, modalità e metodi come se fossero elementi gerarchicamente sovraordinati. Quando ho scoperto e mi sono opposto al giochetto è stato tutto un piagnucolare e un ricorso alla retorica della “collaborazione”, e del “tavolo di lavoro”, favolette a cui possono credere solo gli ingenui, che tra gli informatici, sono molti.
Un esempio per capire: la gestione della telefonia IP. Quando i telefoni tradizionali vennero sostituiti da telefoni IP nulla funzionava a dovere. Il numero dell’help-desk a cui rivolgersi in caso di malfunzionamenti era (ed è) lo 06 ……….. Ovviamente i colleghi preferivano rivolgersi agli informatici presenti in loco e dovetti affrontare una non facile campagna di persuasione per far sì che si rivolgessero direttamente a chi di dovere, visto che per questo era (è) pagato. Poiché il più delle volte, per risolvere i problema, si doveva eseguire qualche modesta operazione sugli apparecchi telefonici o sugli switch, gli operatori del servizio fonia, dopo aver ricevuto la telefonata dall’utente in difficoltà e preso in carico il problema, constatata l’incapacità di questi di eseguire quelle banali operazioni richieste, telefonavano a noi del CED chiedendo, appunto, “collaborazione”. Alla fine sulla carta figurava che quegli interventi erano stati presi in carico e risolti dalla società esterna preposta (tanto di numero di ticket registrato), mentre il lavoro lo facevamo, per loro, noi funzionari. Quando, polemicamente, scrissi una mail chiedendo copia del contratto al fine di capire se stavo, in quei momenti, lavorando per il mio ente o per una società esterna che non era in grado di far fronte ai sui compiti, visto che le richieste di “collaborazione” erano diventate pressanti e quotidiane, scoppiò il finimondo e il risultato fu che a me non telefonarono più preferendo rivolgersi esclusivamente ad altri collega giudicati più malleabili. A quel punto promossi un’inversione di rotta: invitai i colleghi amministrativi a non comporre più il numero di Roma, ma a rivolgersi nuovamente al CED, insegnai a molti di loro come risolvere i problemi più comuni e feci calare drasticamente il numero dei ticket aperti, se non altro per onorare un principio di realtà.
LA “SPENDING REWIEW” E IL NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO
Il sottotitolo potrebbe essere “cornuti e mazziati”.
Quando il governo Monti, con la “spending review” impose alla amministrazioni dei tagli alla spesa, il nostro ente sempre zelante nei confronti del potere, decise di eliminare gli informatici periferici e di chiudere i CED lasciando solo un “processo informatico” a livello di direzione regionale. Particolarmente zelante e attivo e attento (fino alla petulanza) nel perseguire il nobile obiettivo fu un personaggio di estrazione sindacale pervenuto alle vette dell’ente.
Se dal punto di vista sindacale la chiusura dei CED periferici poteva costituire un problema (risolvibile con i pensionamenti grazie al saggio attendismo strategico dei sindacati e di parte della dirigenza centrale), in una prospettiva di seria riorganizzazione aziendale risponde indiscutibilmente ad una logica di razionalizzazione. Le procedure di lavoro stavano migrando su piattaforma “web”, i server sparivano dai CED e venivano accentrati e “virtualizzati” e i “client” si “alleggerivano”.
Con una buona politica di investimento e riqualificazione delle risorse umane residue, con una esternalizzazione puntuale che prevedesse un rapporto diretto, tramite call center tra utenti amministrativi e società esterne, si sarebbe potuto progettare un percorso virtuoso per conferire agli informatici periferici un ruolo di coordinamento, studio, elaborazione di soluzioni organizzative, funzioni di auditing per orientare la platea degli utenti ad un corretto uso delle risorse informatiche, soprattutto in collaborazione con il professionista della CIT (presente in ogni direzione regionale ma dipendente direttamente da un coordinatore “romano”), sgravandoli del “lavoro di merda”. Si è preferito invece puntare sui “sopravvissuti” per colmare la sommarietà con cui venivano licenziate le novità tecnologiche. E’ come se Una casa automobilistica rilasciasse delle vetture difettose scaricando consapevolmente i problemi su un concessionario privo di mezzi. Insomma, funzionari apicali trasformati in ordinari sbrigafaccende privi di strumenti a disposizione di chiunque per risolvere i problemi più disparati all’interno di una catastrofe organizzativa ormai endemica sulla quale sarebbe opportuno accendere dei potenti riflettori a vari livelli.