Licenziamento privo di motivazione.

La Cassazione con la sentenza n.30668 del 25.11.2019 ritiene che il licenziamento con mancanza di motivazione vada equiparato al licenziamento affetto da vizio formale con conseguente diritto al conseguente ridotto risarcimento nel caso in cui comunque il licenziamento si appalesi legittimo.

La decisione, ad avviso di chi scrive equipara al licenziamento legittimo e valido, il recesso che per mancanza di motivazione impedisce un concreto esame difensivo di chi ha subito l’atto e quindi concede una sorta di “favor” alla parte recedente. Va notato come dopo la legge 92/2012 (legge Fornero) il comma 4 dell’articolo 18 stabilisce che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, quindi il mero risarcimento) ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

In pratica, la disposizione di legge dissocia in maniera completa l’ipotesi della mancanza di motivazione da quella del licenziamento illegittimo per carenza di giusta causa o giustificato motivo, e sancisce che anche il licenziamento privo di motivazione può essere ritenuto assistito da giusta causa.

Non tiene conto la disposizione di legge citata come sia molto più facile per chi intima un licenziamento senza motivazione, sostenerne in giudizio la giusta causa. E’ così violato non solo il diritto di difesa del lavoratore, ma anche il diritto alla tutela del posto di lavoro, tutti diritti costituzionalmente fondati.

In tema di irregolarità della contestazione nel licenziamento disciplinare nello specifico di fronte alla tardività della contestazione e dunque in un ipotesi che coinvolgeva la forma del recesso ed il diritto alla difesa, la Cassazione a Sezioni Unite Sentenza 27.12.2017 n.3085 riteneva che Con legge 92/2012  (riforma Fornero), si assiste ad una modifica dell’art. 18, nel senso che accanto alla tutela reale, la quale rappresenta il massimo livello di protezione per sanzionare un illecito, viene prevista una tutela meramente indennitaria”. I regimi di cui si parla nel nuovo art. 18 sono i seguenti: a) quello della tutela reintegratoria piena (disciplinato dai primi tre commi dell’art. 18); b) quello della tutela reintegratoria attenuata (comma 4); c) quello della tutela indennitaria forte (comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) quello della tutela indennitaria limitata (comma 6), che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità applicabile nel caso di specie inquadrato come mera irregolarità formale del recesso.

Va inoltre attentamente considerato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che assicura ad ogni lavoratore l’effettività del diritto a non essere licenziato senza un valido motivo legato alla condotta ed alle attitudini personali o ad un valido motivo connesso al funzionamento dell’impresa. L’articolo 24 sancisce inoltre per chi è licenziato senza un valido motivo un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.

Di Seguito Cassazione n.30668 del 25.11.2019.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2435/2018 proposto da:

PRADA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 39, presso lo studio dell’Avvocato MARCO PASSALACQUA, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati ANNA GRAZIA SOMMARUGA, MARCELLO GIUSTINIANI, ARIANNA MARIA BEATRICE COLOMBO e GIAN LUCA PINTO in virtù di delega in atti.

– ricorrente principale – controricorrente in relazione al ricorso incidentale –

contro

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE FONTANA, che lo rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente, all’Avvocato FABIO RUSCONI giusta delega in atti.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1090/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/11/2017 R.G.N. 411/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2019 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato ANNA GRAZIA SOMMARUGA.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Arezzo, con la pronuncia n. 385 del 2012, ha respinto la domanda, proposta con il rito speciale di cui alla L. n. 92 del 2012, da T.G. nei confronti di Prada spa diretta ad ottenere, previo accertamento in via incidentale della natura subordinata del rapporto di lavoro in essere inter partes nel periodo compreso tra il 3.9.2007 ed il 3.2.2015 (che era stato formalizzato invece con successivi contratti di consulenza), che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento che la società gli aveva di fatto intimato recedendo dall’ultimo di tali contratti di lavoro formalmente autonomo, con le conseguenze reintegratorie e risarcitorie L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 4, ovvero, in subordine, risarcitorie previste dal comma 5 dello stesso articolo o, in via ulteriormente subordinata, solo quelle risarcitorie ai sensi dell’art. 18 citato, comma 6.

2. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 1090 del 2017, in riforma della pronuncia di prime cure e in parziale accoglimento del reclamo, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento impugnato L. n. 604 del 1966, ex art. 2; ha dichiarato, quindi, risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti alla data del recesso e ha condannato la società a corrispondere a T.G. l’indennità risarcitoria di cui della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, quantificata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

3. A fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che: a) non era fondata l’eccezione di decadenza, sollevata L. n. 183 del 2010, ex art. 32, perchè il testo della disposizione era inequivoco nel sottoporre a decadenza esclusivamente l’azione del lavoratore diretta ad impugnare il licenziamento, comunque qualificato, dell’affermato datore di lavoro e il recesso del committente nei rapporti di collaborazione per cui, in ipotesi come quella di cui è processo riguardante una serie di contratti qualificati di consulenza, stipulati tra le parti senza soluzione di continuità (dal 3.9.2007 al 3.2.2015), l’unico termine che era onere osservare per il T. era quello decorrente dalla comunicazione del recesso della società; b) ricorrevano pacificamente, quanto alla prestazione del lavoratore, le condizioni del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, comma 2, di talchè non poteva presumersi la natura di prestazione coordinata e continuativa dell’attività lavorativa svolta dalla originario ricorrente per quanto titolare di partita IVA; c) in ogni caso, dalla istruttoria svolta, vi era prova in atti della natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa svolta dal T.; d) tale natura rendeva qualificabile come licenziamento il recesso intimato dalla formale committente il 3.2.2015 che si manifestava, però, illegittimo per mancanza di motivazione; e) doveva, invece, ritenersi provato il giustificato motivo oggettivo di recesso e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage atteso che non esisteva, nell’organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del licenziamento e neanche introdotta successivamente, alcuna figura anche solo latamente comparabile con quella di T. che svolgeva mansioni altamente specialistiche ed adeguatamente remunerate; f) ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, l’indennità risarcitoria, a seguito della declaratoria di risoluzione del rapporto, andava quantificata in dodici mensilità.

4. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Prada spa affidata a cinque motivi.

5. Ha resistito con controricorso T.G. sulla base di un motivo cui ha, a sua volta, resistito con controricorso la società.

6. Il PG, prima della fissazione della causa per la trattazione in pubblica udienza, ha concluso, con requisitoria scritta, per il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale.

7. Le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo del ricorso principale la società denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 e artt. 2964 c.c. e segg., per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che il T., ai sensi di quanto previsto dal citato art. 32, aveva l’unico onere, pacificamente adempiuto, di impugnare l’atto che lo aveva estromesso materialmente dal rapporto e non anche ciascuno dei contratti di lavoro autonomo che, nel corso degli anni, si erano susseguiti senza soluzione di continuità a regolare formalmente il rapporto stesso.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 6169 e 69 bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale che il T. aveva stipulato con Prada spa contratti di collaborazione continuativa e coordinata privi di progetto, in luogo di genuini contratti di consulenza a partiva IVA, applicando gli artt. 61 e 69 D.Lgs. n. citato, non dirimenti per il caso di specie, ed omettendo del tutto l’applicazione dell’unica norma rilevante costituita dall’art. 69 bis stesso decreto che individua, invece, una deroga alla disciplina scaturente dal combinato disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69.

4. Con il terzo motivo la società lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte di appello ritenuto ravvisabili gli elementi che, a termine del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, integravano la nozione di “specifico progetto” nell’oggetto dei contratti di consulenza sottoscritti tra le parti.

5. Con il quarto motivo la società si duole della violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 116 c.p.c., per avere erroneamente la Corte di appello ritenuto attendibile il teste P..

6. Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente la Corte di appello ravvisato la natura subordinata della prestazione svolta dal T..

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale il T. denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 1, 2, 4, 6 e 7, in relazione al capo della sentenza che, dopo avere dichiarato il licenziamento intimatogli illegittimo in quanto totalmente carente di motivazione, ha concluso per l’applicazione della tutela di cui dell’art. 18 citato, comma 6, anzichè di quello di cui ai commi 2 o 4/7 della disposizione (art. 360 c.p.c., n. 3); si sostiene che in ipotesi di licenziamento inefficace per mancanza di motivazione L. n. 604 del 1966, ex art. 2, la tutela non avrebbe potuto essere solo quella risarcitoria pena la incostituzionalità della norma di cui alla L. n. 600 del 1970, art. 18, comma 6, per irragionevolezza della stessa.

8. Con il secondo motivo si eccepisce la nullità della sentenza (error in procedendo) per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione al capo della decisone che, dopo avere ritenuto dimostrata la ragione organizzativa che la società aveva allegato a giustificazione del proprio recesso, ha escluso che il licenziamento oggetto di causa fosse illegittimo, oltre che per la totale carenza di motivazione, anche per violazione da parte della società stessa del cd. “obbligo di repechage” sul presupposto che non esistesse nella organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del recesso e che non era stata introdotta dopo, alcuna figura professionale comparabile non solo latamente con quella del T.. Si deduce, da un lato, che la circostanza della inesistenza della posizione professionale di cui sopra non solo non era affatto pacifica tra le parti, ma non era stata neppure allegata: ciò, pertanto, in violazione degli art. 112 e 115 c.p.c.; inoltre, si evidenzia, sempre in relazione all’art. 115 c.p.c., che la Corte aveva mancato di rilevare che fosse sempre pacifico tra le parti la circostanza di poter ricollocare utilmente il T. nell’organizzazione aziendale in svariate mansioni, specificamente allegate e non contestate.

9. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato.

10. Il dato processuale da prendere in considerazione, per l’esame della censura, è rappresentato dal fatto che, nella fattispecie in esame, tra il T. e Prada spa erano intercorsi, senza soluzione di continuità, dal 3.9.2007 al 3.2.2015, quattro contratti di consulenza ritenuti illegittimi dai giudici di merito D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, con il conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato.

11. La società sostiene, come sopra riportato, che il lavoratore era decaduto dal diritto di impugnare i primi tre contratti per il decorso dei termini di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32.

12. L’assunto non è meritevole di accoglimento.

13. In tema di contratto a progetto, è stato affermato che il regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012), in casi di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, determina l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente sin dalla data di costituzione dello stesso (cfr. Cass. 17.8.2016 n. 17127).

14. Ne consegue, pertanto, che essendo unico il rapporto di lavoro che si è venuto a creare tra le parti dal 3.9.2007 (primo contratto a progetto ritenuto illegittimo), la stipulazione dei successivi contratti non può incidere sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, salva la prova di una novazione ovvero di una risoluzione tacita del rapporto (cfr. Cass. 9.3.2018 n. 5714 in tema di pluralità di contratti a termine il cui primo sia stato dichiarato nullo): ipotesi, queste, non ravvisabili ed anzi escluse sostanzialmente dalla Corte territoriale che ha rilevato l’effettività e la continuità del vincolo di subordinazione tra le parti nell’ambito di tutto il rapporto lavorativo.

15. Correttamente, pertanto, ai fini della eccezione di decadenza dell’azione giudiziaria L. n. 183 del 2010, ex art. 32, i giudici di seconde cure hanno ritenuto che l’unico termine di decadenza che il T. doveva impedire, come in realtà aveva fatto, era quello decorrente dal recesso della società dal rapporto in essere, in relazione all’ultimo contratto, qualificato come licenziamento.

16. Il secondo motivo del ricorso principale è parimenti infondato.

17. La norma del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, non può spiegare alcun effetto in relazione al rapporto dedotto in giudizio attesa la statuita riqualificazione del rapporto, originariamente instaurato in seguito alla stipulazione di contratti a progetto, in uno di natura subordinata fin dal primo contratto del 3.9.2007, in relazione al quale la disposizione invocata è successiva.

18. Il terzo, quarto e quinto motivo, da trattarsi congiuntamente per connessione, non sono meritevoli di accoglimento in quanto, al di là del formale richiamo, contenuto nella epigrafe dei motivi di impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o dei rapporti tra le parti ritenuti rilevanti.

19. Si tratta, quindi, di argomentazioni critiche dirette a censurare una tipica erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa e, pertanto, di tipiche censure dirette a denunciare un vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato: vizio comunque insussistente atteso che, nel caso in esame, devono ritenersi soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti (per tutte Cass. n. 8053/2014).

20. Infine, giova ribadire che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio di attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4.7.2017 n. 16647).

21. Ciò premesso deve ritenersi, in punto di diritto, che gli accertamenti svolti dalla Corte di merito siano rispettosi dei criteri generali in tema di distinzione tra rapporto di natura autonoma e subordinata, muovendosi nell’ambito dei principi elaborati da questa Corte che assegnano alla soggezione del lavoratore al potere direttivo della parte datoriale un ruolo fondamentale ai fini del discrimen tra le due categorie di rapporti e, nella specie, ritenuta sussistente per l’inserimento stabile del T. nell’organizzazione, per la soggezione ad ordini e direttive di provenienza dei preposti della società, tali da terminare tempi, modi e priorità della prestazione lavorativa); il resto è accertamento di merito sottratto, come si è detto, al sindacato di legittimità.

22. Il primo motivo del ricorso incidentale è anche esso infondato.

23. E’ opportuno rilevare che i giudici di seconde cure, oltre ad avere sottolineato che il provvedimento espulsivo era illegittimo in quanto non conteneva alcuna motivazione, hanno poi precisato che la società aveva dato prova del giustificato motivo oggettivo di recesso (eliminazione dalla compagine aziendale degli ispettori etici in esito alla modifica delle condizioni contrattuali con i fornitori, dal 2015 tenuti a garantire alla committente il rispetto, da parte loro e dei propri sub-fornitori, delle norme di sicurezza) e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage, per cui la tutela doveva essere quella risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6.

24. La sentenza è conforme all’orientamento di legittimità, cui si intende dare seguito, secondo cui nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione della L. n. 604 del 1966, ex art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge in virtù di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche la L. n. 300 del 1970, art. 18, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (Cass. 5.9.2016 n. 17589).

25. Il secondo motivo del ricorso incidentale è, invece, inammissibile.

26. Invero, la doglianza è stata formulata come “error in procedendo”, in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., ma, in realtà, è finalizzata a censurare la valutazione delle risultanze istruttorie da parte della Corte territoriale.

27. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera però interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte dei giudici di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme procedurali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione e, dunque, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. 12.10.2017 n. 23940; Cass. 30.11.2016 n. 24434).

28. Nè è ravvisabile, poi, la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell’omessa pronuncia, che riguarda l’omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda o su un’eccezione di parte o su un’istanza che richiede una statuizione di accoglimento o rigetto, tale da dare luogo all’inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto (Cass. 23.2.1995 n. 2085), salva l’ipotesi in cui ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie (Cass. 25.2.2005 n. 4079; Cass. 29.7.2004 n. 14486).

29. Nel caso in esame, invece, sul punto dell’obbligo di repechage la Corte di merito si è espressa ritenendo, con un accertamento di merito adeguato e motivato e, pertanto, insindacabile in questa sede, che non vi era stata violazione del predetto obbligo.

30. L’impostazione della censura, si ribadisce quale error in procedendo e non come violazione di legge, non consente a questo Collegio di valutare ulteriori profili di illegittimità della condotta dell’odierna controricorrente.

31. Alla stregua di quanto esposto sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati.

32. La soccombenza reciproca induce a compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

33. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2019

Pubblico impiego scuola precari anzianità di servizio.

Pubblico Impiego Scuola – Contratti a termine – precari – anzianità di servizio.

La Corte di Cassazione con una recentissima sentenza precisa i termini per il riconoscimento dell’anzianità di servizio per gli insegnanti assunti a seguito di ripetuti contratti a termine.

La Corte aderisce alla linea che ritiene prevalenti i criteri di non discriminazione nei confronti del lavoratori a termine e quindi mette in discussione il riconoscimento dell’anzianità come prevista dal DLGS 297/1994 (intera anzianità per i primi 4 anni 2/3 per quella eccedente ed i criteri limitativi di cui al CCNL 24.7.2003 articolo 142, ma precisa ad evitare discriminazioni a sfavore degli insegnanti che non hanno un rapporto di lavoro preceduto da contratti a termine che l’anzianità andrà calcolata sui soli periodi effettivamente lavorati.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 15/10/2019) 28-11-2019, n. 31149

IMPIEGO PUBBLICO
Passaggio ad altra amministrazione

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2220/017 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.D., domiciliata ex lege in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli Avvocati WALTER MICELI e NICOLA ZAMPIERI;

– controricorrente –

e contro

FEDERAZIONE GILDA – UNAMS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO n. 172 presso lo studio dell’Avvocato SERGIO GALLEANO, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati TOMMASO DE GRANDIS e VINCENZO DE MICHELE;

– resistente con mandato –

e contro

FEDERAZIONE CISL – SCUOLA UNIVERSITA’ RICERCA – FSUR (EX CISL SCUOLA), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI n. 20, presso lo studio dell’Avvocato MAURIZIO RIOMMI, che la rappresenta e difende;

– FLC CGIL – FEDERAZIONE LAVORATORI DELLA CONOSCENZA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA n. 2, presso lo studio dell’Avvocato ISETTA MAUCERI BARSANTI, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato FRANCESCO AMERICO;

UIL SCUOLA NAZIONALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, SALITA DI SAN NICOLA da TOLENTINO n. 1/b, presso lo studio dell’Avvocato DOMENICO NASO, che la rappresenta e difende;

– resistenti con mandato –

avverso la sentenza n. 246/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata l’08/07/2016 R.G.N. 98/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati PAOLA DE NUNTIS e GIOVANNI GRECO (per Avvocatura dello Stato);

uditi gli Avvocati WALTER MICELI, NICOLA ZAMPIERI;

uditi gli Avvocati SERGIO GALLEANO, TOMMASO DE GRANDIS;

udito l’Avvocato MAURIZIO RIOMMI anche per delega verbale degli Avvocati DOMENICO NASO, MAUCERI BARSANTI, FRANCESCO AMERICO.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Genova ha rigettato l’appello del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di C.D., docente di ruolo dal 1997 della scuola secondaria di secondo grado, e, dichiarato il diritto della stessa alla “progressione professionale retributiva in relazione al servizio prestato in ragione dei contratti di lavoro a termine di cui agli atti”, aveva condannato il Ministero al pagamento delle differenze retributive come da conteggio allegato al ricorso.

2. La Corte territoriale ha premesso che l’originaria ricorrente aveva domandato il riconoscimento di 10 anni di servizio di insegnamento preruolo prestato a far tempo dall’anno scolastico 1986/1987 e la domanda era stata solo parzialmente accolta dall’Ufficio scolastico, che con decreto del 16/1/2008 aveva riconosciuto 9 anni di servizio a fini giuridici ed economici, inquadrando la docente nella terza, anzichè nella quarta, posizione stipendiale del CCNL 1.8.1996.

3. Il giudice d’appello ha escluso che fosse giustificato da ragioni obiettive l’abbattimento previsto dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485 e conseguentemente ha disapplicato la disposizione, perchè in contrasto con la clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. Ha precisato al riguardo che quest’ultima può essere invocata anche dai lavoratori a tempo indeterminato che rivendicano il riconoscimento, ai fini dell’anzianità, del servizio prestato sulla base di contratti a termine ed ha ritenuto non rilevante che le annualità si riferissero ad anni antecedenti l’entrata in vigore della direttiva, atteso che nella specie si discuteva di ricostruzione di carriera richiesta nell’anno 2008.

4. Infine la Corte territoriale ha precisato che ai fini del calcolo dell’anzianità complessiva dovevano essere considerati anche i contratti a termine stipulati, L. n. 124 del 1999, ex art. 4, lett. c), per sostituire personale di ruolo assente. Ha rilevato al riguardo che, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, l’attività era stata pressochè continuativa ed aveva interessato gli interi anni scolastici, salve brevi e sporadiche interruzioni prevalentemente coincidenti con le festività scolastiche.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il MIUR sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c.. C.D. ha notificato tardivamente controricorso, chiedendo di essere informata della data di fissazione dell’udienza di discussione.

6. La causa, dapprima avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sezione Sesta, è stata rimessa a questa Sezione con ordinanza del 17 aprile 2018, in ragione della novità e dell’importanza delle questioni giuridiche coinvolte.

7. Successivamente hanno notificato e depositato memoria di intervento D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64, la FSUR – Federazione Cisl Scuola Università Ricerca -, la FLC CGIL – Federazione Lavoratori della Conoscenza, la UIL Scuola Nazionale, la Federazione GILDA UNAMS. 8. Hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., la controricorrente e le organizzazioni sindacali.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo di ricorso il Ministero denuncia “violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato ivi allegato, in particolare dell’art. 2 della Direttiva e della clausola 4 dell’allegato Accordo, del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 485 e 489, art. 11 disp. gen., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″. Rileva che nella specie la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere inapplicabile la direttiva, venendo in rilievo rapporti a termine instaurati fra le parti in data antecedente il 10 luglio 2001, termine assegnato agli Stati Membri per il recepimento della direttiva stessa. Aggiunge che anche l’immissione in ruolo era già avvenuta al momento della scadenza di detto termine e richiama i principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 22552/2016 in tema di utilizzo abusivo degli incarichi a termine. Assume che, in ogni caso, non poteva nella specie essere ravvisata una discriminazione, in quanto la disciplina dettata in tema di ricostruzione della carriera dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, è giustificata da ragioni oggettive, essendo evidente la diversità fra l’attività prestata dal docente a tempo indeterminato e quella richiesta all’insegnante incaricato della sostituzione per pochi giorni o pochi mesi. Rileva, inoltre, che la norma sopra citata va letta in combinato disposto con la L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, che equipara il servizio non di ruolo prestato per almeno 180 giorni oppure ininterrottamente dal 1 febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio a quello riguardante l’intero anno scolastico e, pertanto, il trattamento complessivo riservato agli assunti a tempo determinato non può essere ritenuto di minor favore rispetto a quello del quale godono i docenti di ruolo.

2. Devono essere dichiarati inammissibili gli atti di intervento notificati in date 30.11.2018 (quanto alla Federazione GILDA-UNAMS) e 27.3.2019 (quanto alla Federazione CISL – Scuola Università e Ricerca – FSUR, alla FLC CGIL – Federazione Lavoratori della Conoscenza – ed alla UIL Scuola Nazionale), non potendo trovare applicazione nella fattispecie il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, invocato dalle organizzazioni intervenienti.

La norma in parola disciplina la procedura di “accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi”, che negli intenti del legislatore avrebbe dovuto assicurare un contenimento del contenzioso, specie di quello a carattere seriale, attraverso la sollecitazione ad opera del giudice del potere di interpretazione autentica dei contratti collettivi nazionali del settore pubblico, riconosciuto all’ARAN ed alle organizzazioni firmatarie, e, in mancanza dell’esercizio di detto potere, per mezzo dell’anticipazione della funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione (Cass. S.U. n. 22427/2006).

La Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 199/2003) ha evidenziato che il procedimento, finalizzato alla rimozione erga omnes della situazione di incertezza interpretativa posta in evidenza dalla controversia, tiene conto delle peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego “funzionale all’interesse pubblico di cui all’art. 97 Cost.” e “inderogabile sia in pejus che in melius”, peculiarità che giustificano la prima fase, comportante un diretto coinvolgimento degli agenti negoziali, i quali possono pervenire ad una soluzione chiarificatrice o anche ad una modifica della disposizione contrattuale dubbia.

E’ in ragione del ruolo fondamentale assegnato alle parti collettive nel procedimento che si giustifica la previsione, contenuta nel comma 5 della norma in commento, di un potere di intervento nel processo dell’ARAN e delle organizzazioni sindacali, alle quali è anche consentito, seppure non intervenute, di “presentare memorie nel giudizio di merito ed in quello di cassazione”, con la finalità di fornire, di propria iniziativa, le informazioni che nel giudizio ordinario possono essere date dalle stesse associazioni su sollecitazione della parte e del giudice ex art. 425 c.p.c..

Si tratta, quindi, di un potere strettamente correlato alla peculiare natura e struttura del procedimento, sicchè è da escludere che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, comma 5, possa essere invocato dalle organizzazioni firmatarie del contratto a prescindere dall’attivazione del meccanismo processuale, pacificamente non avvenuta nella fattispecie.

Ne discende che l’intervento della cui ammissibilità qui si discute resta regolato dalle norme del codice di rito e, pertanto, trova applicazione l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte secondo cui “non è consentito nel giudizio di legittimità l’intervento volontario del terzo, mancando una espressa previsione normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l’art. 105 c.p.c., esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado, senza che, peraltro, possa configurarsi una questione di legittimità costituzionale della norma disciplinante l’intervento volontario, come sopra interpretata, con riferimento all’art. 24 Cost., giacchè la legittimità della norma limitativa di tale mezzo di tutela giurisdizionale discende dalla particolare natura strutturale e funzionale del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione” (Cass. n. 10813/2011 che richiama Cass. S.U. n. 1254/2004; cfr. anche Cass. S.U. n. 11387/2016).

3. Il Collegio è chiamato a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione della disciplina interna relativa alla ricostruzione della carriera del personale docente della scuola, nei casi in cui l’immissione in ruolo sia stata preceduta da rapporti a termine.

La questione si pone in quanto la disciplina dettata per gli assunti a tempo indeterminato, dapprima dal legislatore e poi dalla contrattazione collettiva, fa discendere effetti giuridici ed economici dall’anzianità di servizio, che condiziona sia la progressione stipendiale sia, in genere, lo svolgimento del rapporto. Nel settore scolastico, infatti, l’anzianità svolge un ruolo di particolare rilievo ogniqualvolta vengano in gioco valutazioni comparative dei docenti.

Ciò spiega perchè il legislatore sin da tempo risalente ha ritenuto necessario dettare una disciplina specifica dell’istituto del riconoscimento del servizio ai fini della carriera, che costituisce un unicum rispetto ad altri settore dell’impiego pubblico e che si giustifica in ragione della peculiarità del sistema scolastico, nel quale, pur nella diversità delle forme di reclutamento succedutesi nel tempo, l’immissione definitiva nei ruoli dell’amministrazione è sempre stata preceduta, per ragioni diverse, da periodi più o meno lunghi di rapporti a tempo determinato.

4. Tralasciando, perchè non rilevante ai fini di causa, la disciplina antecedente agli anni 70, va detto che già con il D.L. n. 370 del 1970, convertito con modificazioni dalla L. n. 576 del 1970, il legislatore aveva previsto, all’art. 3, che “AI personale insegnante il servizio di cui ai precedenti articoli viene riconosciuto agli effetti giuridici ed economici per intero e fino ad un massimo di quattro anni, purchè prestato con il possesso, ove richiesto, del titolo di studio prescritto o comunque riconosciuto valido per effetto di apposito provvedimento legislativo. Il servizio eccedente i quattro anni viene valutato in aggiunta a quello di cui al precedente comma agli stessi effetti nella misura di un terzo, e ai soli fini economici per i restanti due terzi. I diritti economici derivanti dagli ultimi due terzi di servizio previsti dal comma precedente, saranno conservati e valutati anche in tutte le classi successive di stipendio”.

L’art. 4 aggiungeva che “Ai fini del riconoscimento di cui ai precedenti articoli, il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero, se ha avuto la durata prevista, agli effetti della validità dell’anno, dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione. I periodi di congedo retribuiti e quelli per gravidanza e puerperio sono considerati utili ai fini del calcolo del periodo richiesto per il riconoscimento.”.

4.1. Con il D.Lgs. n. 297 del 1994, di “Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado” le richiamate disposizioni sono confluite, con modificazioni e integrazioni, nell’art. 485, secondo cui “1. Al personale docente delle scuole di istruzione secondaria ed artistica, il servizio prestato presso le predette scuole statali e pareggiate, comprese quelle all’estero, in qualità di docente non di ruolo, è riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonchè ai soli fini economici per il rimanente terzo. I diritti economici derivanti da detto riconoscimento sono conservati e valutati in tutte le classi di stipendio successive a quella attribuita al momento del riconoscimento medesimo. 2. Agli stessi fini e nella identica misura, di cui al comma 1, è riconosciuto, al personale ivi contemplato, il servizio prestato presso le scuole degli educandati femminili statali e quello prestato in qualità di docente elementare di ruolo e non di ruolo nelle scuole elementari statali, o parificate, comprese quelle dei predetti educandati e quelle all’estero, nonchè nelle scuole popolari, sussidiate o sussidiarie.

3. Al personale docente delle scuole elementari è riconosciuto, agli stessi fini e negli stessi limiti fissati dal comma 1, il servizio prestato in qualità di docente non di ruolo nelle scuole elementari statali o degli educandati femminili statali, o parificate, nelle scuole secondarie ed artistiche statali o pareggiate, nelle scuole popolari, sussidiate o sussidiarie, nonchè i servizi di ruolo e non di ruolo prestati nelle scuole materne statali o comunali.”.

A sua volta l’art. 489, ripete la formulazione del D.L. n. 370 del 1970, art. 4, stabilendo che “Ai fini del riconoscimento di cui ai precedenti articoli il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero se ha avuto la durata prevista agli effetti della validità dell’anno dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione. 2. I periodi di congedo e di aspettativa retribuiti e quelli per gravidanza e puerperio sono considerati utili ai fini del computo del periodo richiesto per il riconoscimento”.

La norma, peraltro, deve essere letta in combinato disposto con la L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, secondo cui “l’art. 489, comma 1 del Testo Unico è da intendere nel senso che il servizio di insegnamento non di ruolo prestato a decorrere dall’anno scolastico 1974-1975 è considerato come anno scolastico intero se ha avuto la durata di almeno 180 giorni oppure se il servizio sia stato prestato ininterrottamente dal 1 febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale”.

Il legislatore del Testo Unico, nel disciplinare gli effetti del D.Lgs. n. 297 del 1994, sulla normativa previgente, ha dettato, all’art. 676, una disposizione di carattere generale prevedendo che “Le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”.

Dalla chiara formulazione della norma, pertanto, si evince che, a partire dalla pubblicazione del D.Lgs., le norme antecedenti sono confluite nel testo unico e continuano ad applicarsi nei limiti sopra indicati.

4.2. In questo contesto si è inserita, a seguito della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, la contrattazione collettiva che nell’ambito scolastico, quanto ai rapporti con la legge, non sfugge all’applicazione dei principi dettati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 40, nelle diverse versioni succedutesi nel tempo, fatte salve le disposizioni speciali contenute nello stesso decreto.

Con il CCNL 4 agosto 1995 le parti stipulanti sono intervenute anche in tema di ricostruzione della carriera e hanno previsto, all’art. 66, comma 6, che “Restano confermate, al fine del riconoscimento dei servizi di ruolo e non di ruolo eventualmente prestati anteriormente alla nomina in ruolo e alla conseguente stipulazione del contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, le norme di cui al D.L. 19 giugno 1970, n. 370, convertito, con modificazioni dalla L. 26 luglio 1970, n. 576 e successive modificazioni e integrazioni, nonchè le relative disposizioni di applicazione, così come definite dal D.P.R. 23 agosto 1988, n. 399, art. 4“.

Il successivo CCNL 26.5.1999 ha stabilito, all’art. 18, che “Le norme legislative, amministrative o contrattuali non esplicitamente abrogate o disapplicate dal presente CCNL, restano in vigore in quanto compatibili”.

Di seguito il CCNL 24.7.2003, all’art. 142, comma 1, n. 8, ha espressamente previsto che dovesse continuare a trovare applicazione “l’art. 66, commi 6 e 7, del CCNL 4.08.95 (riconoscimento servizi non di ruolo e insegnanti di religione)” ed analoga disposizione è stata inserita nell’art. 146 (lett. g n. 8) del CCNL 29.11.2007.

Per effetto delle richiamate disposizioni contrattuali, quindi, si deve escludere che gli articoli del T.U. riguardanti la ricostruzione della carriera siano stati disapplicati dalla contrattazione, perchè, al contrario, gli stessi devono ritenersi espressamente richiamati, sia pure attraverso la tecnica del rinvio, anzichè direttamente al T.U., alla disciplina originaria nello stesso trasfusa.

L’art. 66 del CCNL 1995, infatti, va interpretato tenendo conto della disposizione dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 676 e, pertanto, il richiamo della normativa di cui al D.L. n. 370 del 1970 “e successive modificazioni e integrazioni”, ricomprende in sè il rinvio agli artt. 485 e segg. del T.U., che non a caso non figurano fra le norme del dD.Lgs. espressamente disapplicate dalla contrattazione.

Occorre ancora evidenziare che l’art. 66, nel rinviare alle disposizioni di applicazione del D.L. n. 370 del 1970, richiama espressamente anche del D.P.R. n. 399 del 1988, art. 4, che, per quel che rileva in questa sede, prevede che “Al compimento del sedicesimo anno per i docenti laureati della scuola secondaria superiore, del diciottesimo anno per i coordinatori amministrativi, per i docenti della scuola materna ed elementare, della scuola media e per i docenti diplomati della scuola secondaria superiore, del ventesimo anno per il personale ausiliario e collaboratore, del ventiquattresimo anno per i docenti dei conservatori di musica e delle accademie, l’anzianità utile ai soli fini economici è interamente valida ai fini dell’attribuzione delle successive posizioni stipendiali”.

5. Anticipando considerazioni che verranno riprese nel prosieguo della motivazione, osserva il Collegio che dal complesso delle disposizioni sopra richiamate si evince, dunque, che nel settore scolastico, in relazione al personale docente, la disciplina generale ed astratta del riconoscimento del servizio preruolo risulta dalla commistione di elementi che, nella comparazione con il trattamento riservato ai docenti sin dall’origine assunti con contratti a tempo indeterminato, possono essere ritenuti solo in parte di sfavore, perchè se, da un lato, la norma è chiara nel prevedere un abbattimento dell’anzianità sul periodo eccedente i primi quattro anni di servizio; dall’altro il legislatore ha ritenuto di dovere equiparare ad un intero anno di attività l’insegnamento svolto per almeno 180 giorni, o continuativamente dal 1 febbraio sino al termine delle operazioni di scrutinio, ed ha anche previsto il riconoscimento del servizio prestato presso scuole di un diverso grado, consentendo all’insegnante della scuola di istruzione secondaria di giovarsi dell’insegnamento nelle scuole elementari ed ai docenti di queste ultime di far valere il servizio preruolo prestato nelle scuole materne statali o comunali.

5.2. E’ poi utile sottolineare che l’abbattimento opera solo sulla quota eccedente i primi quattro anni di anzianità, oggetto di riconoscimento integrale con i benefici di cui sopra si è detto, e pertanto risulta evidente che il meccanismo finisce per penalizzare i precari di lunga data, non già quelli che ottengano l’immissione in ruolo entro il limite massimo per il quale opera il principio della totale valorizzazione del servizio.

La norma non poteva dirsi priva di ragionevolezza in relazione ad un sistema di reclutamento, che questa Corte ha analizzato con la sentenza n. 22552/2016 (alla quale hanno fatto seguito numerose pronunce dello stesso tenore), basato sulla regola del cosiddetto “doppio canale” che, oltre a prevedere l’immissione in ruolo periodica dei docenti attingendo per il 50% dalle graduatorie dei concorsi per titoli ed esami e per il restante 50% dalle graduatorie per soli titoli, prima, e poi dalle graduatorie permanenti, stabiliva anche, all’esito delle modifiche apportate alla L. n. 124 del 1999, art. 400, la cadenza triennale dei concorsi. In quel contesto, infatti, l’abbattimento oltre il primo quadriennio si giustificava in relazione al criterio meritocratico, perchè quel sistema, per come pensato dal legislatore, avrebbe dovuto consentire ai più meritevoli di ottenere la tempestiva immissione nei ruoli, attesa la prevista periodicità dei concorsi e dei provvedimenti di inquadramento definitivo nei ruoli dell’amministrazione scolastica.

E’ noto, però, e della circostanza si è dato atto nelle plurime pronunce della Corte di Giustizia, della Corte Costituzionale e di questa Corte che hanno riguardato la legittimità della reiterazione dei contratti a termine, che le immissioni in ruolo non sono avvenute in passato con la periodicità originariamente pensata dal legislatore e ciò ha determinato, quale conseguenza, che i docenti “stabilizzati”, per effetto sia della L. n. 107 del 2015, sia degli interventi normativi che in precedenza avevano previsto piani straordinari di reclutamento sia, ancora, nel rispetto delle norme dettate dal T.U., la cui efficacia non è mai stata del tutto sospesa, si sono trovati per la maggior parte a vantare, al momento dell’immissione in ruolo, un’anzianità di servizio di gran lunga superiore a quella per la quale il riconoscimento opera in misura integrale, anzianità che è stata oggetto dell’abbattimento della cui conformità al diritto dell’Unione qui si discute.

6. Occorre dire subito che l’applicabilità alla fattispecie della clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE non può essere esclusa per il fatto che il rapporto dedotto in giudizio abbia ormai acquisito stabilità attraverso la definitiva immissione in ruolo, perchè la Corte di Giustizia ha da tempo chiarito che la disposizione non cessa di spiegare effetti una volta che il lavoratore abbia acquistato lo status di dipendente a tempo indeterminato. Della clausola 4, infatti, non può essere fornita un’interpretazione restrittiva poichè l’esigenza di vietare discriminazioni dei lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato viene in rilievo anche qualora il rapporto a termine, seppure non più in essere, venga fatto valere ai fini dell’anzianità di servizio (cfr. Corte di Giustizia 8.11.2011 in causa C- 177/10 Rosado Santana punto 43; Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza ed altri, punto 36).

Ciò premesso va evidenziato che, come ha rimarcato la stessa Corte di Giustizia nelle pronunce più recenti (Corte di Giustizia 20.6.2019, causa C- 72/18 Ustariz Arostegui; 11.4.2019, causa C- 29/18, Cobra Servizios Auxiliares; 21.11.2018, causa C- 619/17, De Diego Porras; 5.6.2018, causa C – 677/16, Montero Mateos), la clausola 4 dell’Accordo Quadro è stata più volte oggetto di interpretazione da parte del giudice Eurounitario, che anche in dette pronunce ha ribadito i principi già in precedenza affermati, sulla base dei quali questa Corte ha poi risolto la questione, simile ma non coincidente con quella oggetto di causa, del riconoscimento dell’anzianità di servizio ai fini della progressione stipendiale in pendenza di rapporti a termine (cfr. Cass. 22558 e 23868 del 2016 e le successive sentenze conformi fra le quali si segnalano, fra le più recenti, Cass. nn. 28635, 26356, 26353, 6323 del 2018 e Cass. n. 20918/2019 quest’ultima relativa al personale ATA) nonchè agli effetti della ricostruzione della carriera dei ricercatori stabilizzati dagli enti di ricerca (Cass. n. 27950/2017, Cass. n. 7112/2018, Cass. nn. 3473 e 6146 del 2019).

6.1. Nei precedenti citati si è evidenziato che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C-268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana);

b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi art. 153, n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C-177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55; negli stessi termini Corte di Giustizia 5.6.2018, in causa C-677/16, Montero Mateos, punto 57 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C-393/11, Bertazzi);

e) la clausola 4 “osta ad una normativa nazionale,… la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da ragioni oggettive…. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere” (Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C-302/11 a C305/11, Valenza e negli stessi termini Corte di Giustizia 4.9.2014 in causa C-152/14 Bertazzi).

7. I richiamati principi non sono stati smentiti dalla sentenza 20.9.2018, in causa C466/17, Motter, con la quale, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Trento, la Corte di Giustizia ha statuito che la clausola 4 dell’Accordo Quadro, in linea di principio, non osta ad una normativa, quale quella dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che “ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi”.

E’ significativo osservare che a detta conclusione la Corte è pervenuta dopo avere dichiarato espressamente di volersi porre in linea di continuità con la propria giurisprudenza, richiamata ai punti 26, 33, 37, 38, quanto alla rilevanza dell’anzianità, alla nozione di ragione oggettiva, alla non decisività delle diverse forme di reclutamento e della natura temporanea del rapporto, e la statuizione è stata resa valorizzando le circostanze allegate dal Governo Italiano, che aveva fatto leva sul criterio di favore previsto dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 489, come integrato dalla L. n. 124 del 1999, nonchè sulla necessità di raggiungere “un equilibrio tra i legittimi interessi dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato, nel rispetto dei valori di meritocrazia e delle considerazioni di imparzialità e di efficacia dell’amministrazione su cui si basano le assunzioni mediante concorso” (punto 51).

Particolare rilievo assumono, dunque, per comprendere la ratio della decisione, i punti 47 e 48 nei quali si afferma che possono configurare una ragione oggettiva “gli obiettivi invocati dal governo italiano, consistenti, da un lato, nel rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione e dall’altro nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale”, obiettivi che possono essere legittimamente considerati rispondenti a una reale necessità “fatte salve le verifiche rientranti nella competenza esclusiva del giudice del rinvio”.

Poichè, ad avviso del Collegio, la lettura della pronuncia deve essere complessiva, non possono essere svalutate, come ha fatto il Ministero ricorrente nel corso della discussione orale, le affermazioni contenute ai punti 33-34 e 37-38, quanto alla non decisività della diversa forma di reclutamento ed alla necessità che la disparità di trattamento sia giustificata da “elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi”, sicchè la verifica che il giudice nazionale, nell’ambito della cooperazione istituita dall’art. 267 TFUE, è chiamato ad effettuare riguarda tutti gli aspetti che assumono rilievo ai sensi della clausola 4 dell’Accordo Quadro, ivi compresa l’effettiva sussistenza nel caso concreto delle ragioni fatte valere dinanzi alla Corte di Lussemburgo dallo Stato Italiano per giustificare la disparità di trattamento.

8. Quanto alla comparabilità degli assunti a tempo determinato con i docenti di ruolo valgono le considerazioni già espresse da questa Corte con le sentenze richiamate al punto 6 e con l’ordinanza n. 20015/2018 che, valorizzando il principio di non discriminazione e le disposizioni contrattuali che si riferiscono alla funzione docente, ha ritenuto di dovere riconoscere il diritto dei supplenti temporanei a percepire, in proporzione all’attività prestata, la retribuzione professionale docenti.

In quelle pronunce si è evidenziato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la disparità di trattamento non può essere giustificata dalla natura non di ruolo del rapporto di impiego, dalla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, dalle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e dalle esigenze che il sistema mira ad assicurare.

Nè la comparabilità può essere esclusa per i supplenti assunti ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 3, facendo leva sulla temporaneità dell’assunzione, perchè la pretesa differenza qualitativa e quantitativa della prestazione, oltre a non trovare riscontro nella disciplina dettata dai CCNL succedutisi nel tempo, che non operano distinzioni quanto al contenuto della funzione docente, non appare conciliabile, come la stessa Corte di Giustizia ha rimarcato, “con la scelta del legislatore nazionale di riconoscere integralmente l’anzianità maturata nei primi quattro anni di esercizio dell’attività professionale dei docenti a tempo determinato” (punto 34 della citata sentenza Motter), ossia nel periodo in cui, per le peculiarità del sistema di reclutamento dei supplenti, che acquisiscono punteggi in ragione del servizio prestato, solitamente si collocano più le supplenze temporanee, che quelle annuali o sino al termine delle attività didattiche.

E’, pertanto, da escludere che la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, possa dirsi giustificata dalla non piena comparabilità delle situazioni a confronto e, comunque, dalla sussistenza di ragioni oggettive, intese nei termini indicati nei punti che precedono.

9. Più complessa è l’ulteriore verifica che la Corte di Giustizia ha demandato al giudice nazionale in relazione all’obiettivo di evitare il prodursi di discriminazioni “alla rovescia” in danno dei docenti assunti ab origine con contratti a tempo indeterminato, discriminazioni che, ad avviso del Ministero ricorrente, si produrrebbero qualora in sede di ricostruzione della carriera si prescindesse dall’abbattimento, perchè in tal caso il lavoratore a termine, potendo giovarsi del criterio di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 489, potrebbe ottenere un’anzianità pari a quella dell’assunto a tempo indeterminato, pur avendo reso rispetto a quest’ultimo una prestazione di durata temporalmente inferiore.

L’argomento non è privo di pregio, ma non può essere ritenuto decisivo per affermare tout court la conformità alla direttiva della norma di diritto interno, innanzitutto perchè la verifica non può essere condotta in astratto, bensì deve tener conto della specificità del caso concreto, nel quale, in ipotesi, potrebbe anche non venire in rilievo l’applicazione della disposizione sopra indicata, sulla quale la Corte di Giustizia ha fatto leva nell’affermare che l’abbattimento potrebbe essere ritenuto applicazione del principio del pro rata temporis.

Si è già detto, infatti, che la clausola 4 dell’Accordo Quadro attribuisce un diritto incondizionato che può essere fatto valere dal singolo lavoratore dinanzi al giudice nazionale e non può essere paralizzato da una norma generale ed astratta. Corollario del principio è che la denunciata discriminazione deve essere verificata in relazione alla fattispecie concreta dedotta in giudizio e pertanto, ove la norma che legittima la diversità di trattamento si leghi, nell’intento del legislatore, a presupposti giustificativi non necessariamente sussistenti in relazione ai singoli rapporti, non si può escludere che la medesima norma possa essere ritenuta discriminatoria in un caso e non nell’altro, dipendendo la sua giustificazione dalla ricorrenza di condizioni che vanno verificate non in astratto bensì con riferimento al singolo rapporto.

9.1. L’applicazione diretta della clausola 4 chiama il giudice nazionale a seguire un procedimento logico secondo il quale occorre: a) determinare il trattamento spettante al preteso “discriminato”; b) individuare il trattamento riservato al lavoratore comparabile; c) accertare se l’eventuale disparità sia giustificata da una ragione obiettiva.

Nel rispetto di queste fasi perchè il docente si possa dire discriminato dall’applicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che, si è già detto al punto 5, è la risultante di elementi di sfavore e di favore, deve emergere che l’anzianità calcolata ai sensi della norma speciale sia inferiore a quella che nello stesso arco temporale avrebbe maturato l’insegnante comparabile, assunto con contratto a tempo indeterminato per svolgere la medesima funzione docente. Ciò implica che il trattamento riservato all’assunto a tempo determinato non possa essere ritenuto discriminatorio per il solo fatto che dopo il quadriennio si operi un abbattimento, occorrendo invece verificare anche l’incidenza dello strumento di compensazione favorevole, che pertanto, in sede di giudizio di comparazione, va eliminato dal computo complessivo dell’anzianità, da effettuarsi sull’intero periodo, atteso che, altrimenti, si verificherebbe la paventata discriminazione alla rovescia rispetto al docente comparabile.

In altri termini un problema di trattamento discriminatorio può fondatamente porsi nelle sole ipotesi in cui l’anzianità effettiva di servizio, non quella virtuale D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 489, prestata con rapporti a tempo determinato, risulti superiore a quella riconoscibile D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 485, perchè solo in tal caso l’attività svolta sulla base del rapporto a termine viene ad essere apprezzata in misura inferiore rispetto alla valutazione riservata all’assunto a tempo indeterminato.

9.2. Nel calcolo dell’anzianità occorre, quindi, tener conto del solo servizio effettivo prestato, maggiorato, eventualmente, degli ulteriori periodi nei quali l’assenza è giustificata da una ragione che non comporta decurtazione di anzianità anche per l’assunto a tempo indeterminato (congedo ed aspettativa retribuiti, maternità e istituti assimilati), con la conseguenza che non possono essere considerati nè gli intervalli fra la cessazione di un incarico di supplenza ed il conferimento di quello successivo, nè, per le supplenze diverse da quelle annuali, i mesi estivi, in relazione ai quali questa Corte da tempo ha escluso la spettanza del diritto alla retribuzione (Cass. n. 21435/2011, Cass. n. 3062/2012, Cass. n. 17892/2015), sul presupposto che il rapporto cessa al momento del completamento delle attività di scrutinio.

Si dovrà, invece, tener conto del servizio prestato in un ruolo diverso da quello rispetto al quale si domanda la ricostruzione della carriera, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 485, perchè il medesimo beneficio è riconosciuto anche al docente a tempo indeterminato che transiti dall’uno all’altro ruolo, con la conseguenza che il meccanismo non determina alcuna discriminazione alla rovescia.

9.3. Qualora, all’esito del calcolo effettuato nei termini sopra indicati, il risultato complessivo dovesse risultare superiore a quello ottenuto con l’applicazione dei criteri di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, la norma di diritto interno deve essere disapplicata ed al docente va riconosciuto il medesimo trattamento che, nelle stesse condizioni qualitative e quantitative, sarebbe stato attribuito all’insegnante assunto a tempo indeterminato, perchè l’abbattimento, in quanto non giustificato da ragione oggettiva, non appare conforme al diritto dell’Unione.

Come già ricordato nel punto 6.1 lett. a), la clausola 4 dell’accordo quadro ha effetto diretto ed i giudici nazionali, tenuti ad assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale che deriva dalle norme del diritto dell’Unione ed a garantirne la piena efficacia, debbono disapplicare, ove risulti preclusa l’interpretazione conforme, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte di Giustizia 8.11.2011, Rosado Santana punti da 49 a 56).

Non è consentito, invece, all’assunto a tempo determinato, successivamente immesso nei ruoli, pretendere, sulla base della clausola 4, una commistione di regimi, ossia, da un lato, il criterio più favorevole dettato dal T.U. e, dall’altro, l’eliminazione del solo abbattimento, perchè la disapplicazione non può essere parziale nè può comportare l’applicazione di una disciplina diversa da quella della quale può giovarsi l’assunto a tempo indeterminato comparabile.

10. Nella fattispecie non osta all’applicazione dei richiamati principi la circostanza che l’originaria ricorrente abbia domandato il riconoscimento ai fini della ricostruzione della carriera di rapporti a termine che si collocano temporalmente in data antecedente all’entrata in vigore della direttiva 1999/70/CE. Non può essere invocato il principio di diritto affermato da questa Corte con la sentenza n. 22552/2016 perchè in quel caso si discuteva della legittimità della reiterazione dei contratti a termine, il cui carattere abusivo non poteva essere affermato sulla base della normativa Europea sopravvenuta, mentre nella specie viene in rilievo la correttezza del decreto di ricostruzione della carriera adottato dall’Ufficio Scolastico nel gennaio 2008, nella vigenza della direttiva.

11. La sentenza impugnata non è conforme ai principi di diritto sopra enunciati perchè, pur avendo la Corte territoriale correttamente richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia formatasi in relazione all’interpretazione della clausola 4, non risulta che nella quantificazione dell’anzianità riconoscibile alla C. abbia tenuto conto dei periodi di interruzioni dei rapporti a termine, che, seppure “brevi e sporadici”, non potevano concorrere a determinare l’anzianità complessiva della docente.

Il ricorso va pertanto accolto in detti limiti e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto che, sulla base di quanto osservato nei punti che precedono, di seguito si enunciano:

a) il D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, che anche in forza del rinvio operato dalle parti collettive disciplina il riconoscimento dell’anzianità di servizio dei docenti a tempo determinato poi definitivamente immessi nei ruoli dell’amministrazione scolastica, viola la clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e deve essere disapplicato, nei casi in cui l’anzianità risultante dall’applicazione dei criteri dallo stesso indicati, unitamente a quello fissato dall’art. 489 dello stesso decreto, come integrato dalla L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, risulti essere inferiore a quella riconoscibile al docente comparabile assunto ab origine a tempo indeterminato;

b) il giudice del merito per accertare la sussistenza della denunciata discriminazione dovrà comparare il trattamento riservato all’assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, con quello del docente ab origine a tempo indeterminato e ciò implica che non potranno essere valorizzate le interruzioni fra un rapporto e l’altro, nè potrà essere applicata la regola dell’equivalenza fissata dal richiamato art. 489;

c) l’anzianità da riconoscere ad ogni effetto al docente assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, in caso di disapplicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485, deve essere computata sulla base dei medesimi criteri che valgono per l’assunto a tempo indeterminato.

12. Alla Corte territoriale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità, ad eccezione di quelle relative al rapporto processuale con gli intervenienti, in relazione alle quali va disposta l’integrale compensazione in ragione della novità e della complessità della questione controversa.

Non sussistono le condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti indicati in motivazione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, quanto al rapporto processuale fra le parti principali, alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione.

Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità relative agli intervenienti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

Pubblico Impiego Cambio Amministrazione – Aspettativa per svolgere il periodo di prova – Il parere dell’ARAN

Pubblico Impiego – Aspettativa per svolgere il periodo di prova – Parere ARAN

Aspettativa per svolgere il periodo di prova presso altra pubblica amministrazione.

Diversi contratti del pubblico impiego prevedono la concessione di una aspettativa non retribuita per svolgere il periodo di prova presso altra amministrazione.

Ciò naturalmente al fine di evitare che chi sceglie un nuovo datore di lavoro provenendo da altra amministrazione non resti esposto all’incertezza de patto di prova e non possa in caso di esito negativo tornare presso l’originario datore di lavoro.

L’ARAN fornisce in merito un’interpretazione restrittiva per cui la clausola vale solo nel passaggio tra amministrazioni pubbliche disciplinate dalla contrattazione collettiva di cui all’articolo 2 DLGS 165/2001 e non per il passaggio a rapporti non contrattualizzati come quello di consigliere di prefettura.

Un dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato di un ente, vincitore di concorso per consigliere di prefettura, che, già nominato, deve iniziare il corso di formazione di cui all’art.5 del D.Lgs.n.139/2000, con la previsione di un periodo di prova  di un anno, può avvalersi della particolare disciplina dell’art.20, comma 10, del CCNL  delle Funzioni Locali del 21.5.2018?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:

a) l’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.5.2018 delle Funzioni Locali prevede,  come è noto, la conservazione del posto senza retribuzione presso l’ente di provenienza al dipendente,  a tempo indeterminato,  che sia vincitore di concorso presso un altro ente o amministrazione, per un arco temporale corrispondente pari alla durata del periodo di prova stabilita dal CCNL applicato presso l’ente o amministrazione di destinazione;

b)  il comma 12 del medesimo articolo precisa, inoltre, che il suddetto diritto alla conservazione del posto si applica anche al dipendente in prova proveniente da un ente di diverso comparto il cui CCNL preveda analoga disciplina;

c) come nella vigenza del precedente art.14-bis, comma 9, del CCNL del 6.7.1995, i cui contenuti sono stati sostanzialmente riprodotti nell’art.20, comma 10, del CCNL del 21.5.2018, questa ultima previsione deve ritenersi applicabile solo nei confronti di dipendenti di amministrazioni pubbliche, di cui all’art.1, comma 2, del D.Lgs.n.165/2001, appartenenti comunque ad uno specifico comparto di contrattazione rientrante nella competenza dell’ARAN, che abbia previsto, nella propria disciplina negoziale, un’analoga regolamentazione;

d) pertanto, la disciplina di cui si tratta non può trovare applicazione:

1) nel caso di coinvolgimento di personale dipendente al quale non si applicano i CCNL sottoscritti in sede ARAN;

2) anche in caso di provenienza da altro comparto di contrattazione collettiva, ove manchi quella condizione di reciprocità di cui si è detto, nel senso che non esista, nell’ambito della contrattazione collettiva di questo diverso comparto, una clausola di contenuto analogo che riconosca ai dipendenti vincitori di concorso in altro comparto di contrattazione, il diritto alla conservazione del posto nell’ente di provenienza, per la durata del periodo di prova.

Alla luce delle suesposte considerazioni si esclude che, nel caso prospettato, possa trovare applicazione la disciplina del citato art.20, comma 10, del CCNL del 21 maggio 2018, dato che il personale della carriera prefettizia, ai sensi dell’art. 3 del D. Lgs. n. 165/2001, rientra tra i dipendenti delle amministrazioni ancora assoggettate a regime pubblicistico per gli aspetti concernenti il trattamento giuridico ed economico del proprio personale.

Un progetto di legge contro il mobbing

Un progetto di legge per affrontare il mobbing.

Una fattispecie difficile da inquadrare e soprattutto da provare.

Il progetto di legge favorisce la prova.

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1741

PROPOSTA DI LEGGE

D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI

DE LORENZO, VIZZINI, PALLINI, SIRAGUSA, GIANNONE, SEGNERI, COSTANZO, CIPRINI, BILOTTI, CUBEDDU, TRIPIEDI, TUCCI, INVIDIA, DAVIDE AIELLO, PERCONTI, AMITRANO

delle molestie morali e delle violenze psicologiche in ambito lavorativo

Presentata il 4 aprile 2019

  ONOREVOLI COLLEGHI! – Il fenomeno del cosiddetto «mobbing» o della persecuzione psicologica, cioè le molestie morali e le violenze psicologiche, è sempre esistito nel mondo del lavoro, ma ora tale fenomeno sta assumendo contorni sempre più ampi.

  Con la presente proposta di legge intendiamo fornire per la prima volta ai lavoratori adeguati e idonei strumenti di tutela per difendere se stessi e la propria dignità dalle continue vessazioni che sono costretti a subire in ambito lavorativo. Vista la crescita esponenziale che caratterizza i casi di mobbing è necessario un intervento ad hoc del legislatore diretto a disciplinare in maniera chiara e precisa tale fenomeno e ad assicurare una vera e propria tutela giuridica ai lavoratori vessati, consentendo loro di far valere la lesione di un proprio diritto, agendo dinanzi al giudice del lavoro nei confronti del datore di lavoro (nel caso di mobbing verticale) o nei confronti di un proprio collega o di un gruppo di colleghi (nel caso di mobbing orizzontale) che si siano resi autori di atti vessatori in ambito lavorativo.

  Va peraltro ricordato che la nozione dell’Unione europea di discriminazione comprende le molestie e l’ordine di discriminazione (a prescindere dalla sua esecuzione) a causa dei motivi tipizzati: «le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».

  Sotto il profilo pratico, l’equiparazione della molestia alla discriminazione consente l’applicazione del regime probatorio agevolato e dell’apparato sanzionatorio particolarmente incisivo previsto dalla disciplina antidiscriminatoria.

  Si deve a Leymann l’introduzione del mobbing nel settore lavorativo, a partire dagli anni ’80 (Leymann Gustavsson, 1984; Leymann, 1990, 1993, 1996, 1997). Secondo tale autore «il mobbing, o terrore psicologico sul posto di lavoro, consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in modo sistematico da uno o più individui solitamente verso un singolo individuo, il quale a causa di ciò, si trova in una posizione indifesa e impossibilitato a ricevere aiuto, essendo costretto in quella posizione da continue azioni mobbizzanti (…). Tali azioni si verificano con un’alta frequenza di base (definizione statistica: almeno una volta a settimana) e perdurano a lungo nel tempo (definizione statistica: almeno sei mesi). L’alta frequenza e la durata dei comportamenti ostili è causa di gravi problemi psicologici, psicosomatici e sociali» (Leymann, 1996, pagina 168).

  La presente proposta di legge si compone di nove articoli.

  L’articolo 1 individua l’ambito di applicazione della legge, il cui fine è quello di tutelare i lavoratori nei rapporti di lavoro, nei settori pubblico e privato, indipendentemente dalla natura degli stessi.

  L’articolo 2 definisce il concetto di mobbing, ovvero le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate con intento vessatorio, iterativo e sistematico, che determinano eventi lesivi dell’integrità psico-fisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima, nonché le modalità attraverso le quali tali azioni sono poste in essere.

  L’articolo 3 prevede l’obbligo tempestivo del datore di lavoro di accertare i comportamenti denunciati e di prendere provvedimenti per il loro superamento, segnalandoli anche alla procura della Repubblica, qualora le azioni di mobbing comportino una riduzione della capacità lavorativa per disturbi psico-fisici di qualsiasi entità, quali depressione, disturbi psico-somatici conseguenti a stress lavorativo come l’ipertensione, l’ulcera e l’artrite, disturbi allergici, disturbi della sfera sessuale, nonché tumori. Il datore di lavoro che, per dolo o negligenza, non ottemperi ai suoi doveri accertativi e denuncianti, è soggetto all’interdizione dai pubblici uffici o al licenziamento, in ottemperanza all’articolo 28 del codice penale e, in via subordinata, alle misure previste per i diversi livelli di responsabilità agli articoli 55, commi 1 e 3, 56, 58, e 302, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, ovvero all’arresto da tre a sei mesi e alle relative ammende.

  L’articolo 4 prevede l’azione di tutela giudiziaria, ovvero un percorso attraverso il giudizio immediato del tribunale del lavoro in caso di mobbing, nei confronti del dipendente, configurabile in azioni quali: a) rimozione da incarichi; b) esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendali; c) svalutazione sistematica dei risultati, attraverso il sabotaggio del lavoro, svuotato dei contenuti o privato degli strumenti necessari al suo svolgimento; d) sovraccarico di lavoro o attribuzione di compiti impropri o inattuabili in concreto, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione; e) attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute; f) squalificazione dell’immagine personale e professionale.

  L’articolo 5 disciplina la pubblicità del provvedimento di condanna emesso dal giudice.

  L’articolo 6 prevede che gli atti posti in essere dal datore di lavoro, nonché i provvedimenti assunti, riconducibili alle azioni di cui all’articolo 2, accertate dal giudice del lavoro ai sensi dell’articolo 4, vengano annullati. L’annullabilità degli atti è applicata anche nel caso in cui la violenza o la persecuzione psicologica abbia comportato le dimissioni del lavoratore che, conseguentemente, ha diritto al reintegro nel posto di lavoro.

  L’articolo 7 introduce una tutela penale specifica alla luce degli interessi coinvolti e della necessità di una protezione forte, che garantisca un effettivo contrasto del fenomeno. I traumi originati dal mobbing turbano in maniera profonda l’equilibrio psico-fisico dei lavoratori e ne distruggono le relazioni, portando spesso a esiti irreversibili. È proprio un attacco così profondo all’interesse tutelato che giustifica l’adozione di misure penali.

  Gli elementi costitutivi del fenomeno sono il contesto lavorativo, l’obiettivo vessatorio e il suo protrarsi sistematico. Esso si concretizza in una serie di comportamenti, quali: abuso del potere disciplinare, attraverso l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, come reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, tutte finalizzate alla estromissione del soggetto dal posto di lavoro; atti persecutori e di grave maltrattamento di fronte a terzi; molestie sessuali; offese alla dignità personale, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro. La nuova fattispecie deve colpire le condotte caratterizzate da sistematicità, durata e intensità, con intento persecutorio, in modo tale da escludere dall’ambito di rilevanza penale gli episodi irrilevanti e isolati. Per dare rilievo penale al mobbing nella sua interezza, è necessario ricorrere a un reato abituale, che abbia quindi come sua caratteristica intrinseca la ripetitività nel tempo della condotta. Si tratta, invero, di un reato di relazione, nell’ambito del quale non assume valore la rilevanza penale dei singoli episodi, bensì la loro reiterazione, che cagiona la compromissione della relazione.

  L’elemento oggettivo del reato consiste, dunque, in più atti o comportamenti protratti nel tempo, compiuti da chi presti lavoro in un dato ambito, pubblico o privato, in pregiudizio di altri, appartenente allo stesso ufficio o alla stessa azienda, e che può essere un subordinato ma anche un pari grado dell’agente. Deve, poi, trattarsi di un reato doloso.

  In relazione all’interesse di maggior rilievo che la disposizione penale intende essenzialmente tutelare, rappresentato dalla libertà e dalla dignità del lavoratore nel luogo e nell’ambiente di lavoro in cui opera, la norma va inserita nel libro secondo («Dei delitti in particolare»), titolo XII (Dei delitti contro la persona), capo III («Dei delitti contro la libertà individuale»), sezione III («Dei delitti contro la libertà morale»), del codice penale. Ciò in quanto i comportamenti di mobbing incidono, in primo luogo, sulla capacità del soggetto preso di mira di autodeterminarsi spontaneamente, costringendolo in una situazione di soggezione a condizioni di lavoro insopportabili, in termini di umiliazione e di sofferenza, e lesive dei suoi diritti o interessi.

  In particolare, la norma viene inserita immediatamente dopo l’articolo 612-bis del codice penale che, introdotto dall’articolo 7 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, contempla il reato di atti persecutori, comunemente chiamato stalking. Ciò in quanto le due fattispecie presentano molte affinità, tanto che parte della dottrina ha ventilato la possibilità di ricorrere all’articolo 612-bis per sanzionare penalmente le vessazioni sul lavoro. In entrambi i casi, infatti, si tratta di fenomeni basati sulla reiterazione delle condotte, che consistono in vessazioni sgradite alla vittima e sono causa di eventi negativi. Sono accomunati, poi, dalla finalità che è quella di indurre il soggetto passivo in uno stato di soggezione e di sofferenza psico-fisica. Alla pluralità e alla costanza delle condotte deve essere sottesa la consapevolezza dell’agente sia della molteplicità degli episodi sia dell’invasione che per mezzo di essi si determina nella sfera della vita della vittima. Esiste, inoltre, nella realtà una fattispecie di confine: il cosiddetto «stalking occupazionale», una tipologia di persecuzione che trova le sue motivazioni nell’ambiente lavorativo, per poi fuoriuscirne, turbando in maniera invasiva la tranquillità della vita privata della vittima.

  L’articolo 8 reca misure di prevenzione e di vigilanza nei luoghi di lavoro. In particolare, si prevede che le amministrazioni dello Stato e i datori di lavoro pubblici e privati, d’intesa con le rappresentanze sindacali e con i consigli centrali, intermedi e di base dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, adottano tutte le seguenti misure volte a prevenire e a contrastare le azioni di mobbing: a) iniziative periodiche di informazione dei dipendenti; b) organizzazione periodica di corsi specifici di gestione delle relazioni interpersonali o del mobbing affidati a consulenti, anche esterni, muniti dell’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo e di un’ampia e comprovata esperienza specifica nel settore della psicologia del lavoro; c) accertamento di azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori; d) corsi di prevenzione e di informazione sulle azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori, obbligatori e a carico del datore di lavoro per i dirigenti, per i medici competenti e per i responsabili della sicurezza aziendale, nonché per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; e) risoluzione delle controversie tramite la stipulazione di appositi accordi transattivi o conciliativi; f) denuncia alle autorità competenti.

  Al comma 2 del medesimo articolo 8 si prevede l’istituzione, presso ciascuna azienda sanitaria locale, di un centro di riferimento per il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro, costituito da specialisti di salute mentale, anche interni alla medesima azienda sanitaria locale.

  Al comma 3 si prevede che i citati specialisti provvedano:

   a) all’accertamento dello stato di disagio psico-sociale o di malattia del lavoratore e all’eventuale indicazione del percorso terapeutico di sostegno, cura e riabilitazione;

   b) all’individuazione delle eventuali misure di tutela da adottare da parte dei datori di lavoro nelle ipotesi di casi rilevati di disagio lavorativo.

  Il centro di riferimento è tenuto ad organizzare una conferenza annuale per valutare i risultati del lavoro svolto e per individuare le opportune iniziative per la riduzione o l’eliminazione delle azioni di mobbing (comma 3).

  L’articolo 9 prevede l’invarianza finanziaria.

Ecco il testo:

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

(Ambito di applicazione)

  1. La presente legge, in attuazione dei princìpi stabiliti dagli articoli 2, 32, 35 e 41 della Costituzione, reca disposizioni atte a prevenire e a contrastare il mobbing posto in essere nei confronti dei lavoratori da parte del datore di lavoro o di un suo preposto, nonché da altri dipendenti.

  2. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano a qualsiasi rapporto di lavoro e in tutti i settori di attività privati e pubblici, indipendentemente dalla mansione svolta o dalla qualifica ricoperta.

Art. 2.

(Definizioni)

  1. Ai fini di cui all’articolo 1, comma 1, si intendono per mobbing nel posto di lavoro le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate esplicitamente o implicitamente, nonché direttamente o indirettamente, con intento vessatorio, iterativo e sistematico, che determinano eventi lesivi dell’integrità psico-fisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima, configurabili nel modo seguente:

   a) rimozione da incarichi;

   b) esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendali;

   c) svalutazione sistematica dei risultati, attraverso il sabotaggio del lavoro, svuotato dei contenuti o privato degli strumenti necessari al suo svolgimento;

   d) sovraccarico di lavoro o attribuzione di compiti impropri o inattuabili in concreto, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione;

   e) attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute;

   f) abuso del potere disciplinare, attraverso l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, quali reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, finalizzate all’estromissione del soggetto dal posto di lavoro;

   g) atti persecutori e di grave maltrattamento di fronte a terzi;

   h) molestie sessuali;

   i) squalificazione dell’immagine personale e professionale;

   l) offese alla dignità personale, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro.

Art. 3.

(Accertamento delle responsabilità e applicazione di sanzioni disciplinari)

  1. Il datore di lavoro, pubblico o privato, qualora siano denunciate azioni di cui all’articolo 2 da singoli lavoratori o da gruppi di lavoratori, ovvero su segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali o del rappresentante per la sicurezza, nonché del medico competente, ha l’obbligo di accertare tempestivamente le azioni denunciate.

  2. Agli effetti degli accertamenti delle responsabilità, l’istigazione e l’omissione consapevole dei soggetti denunciati sono considerate equivalenti alla realizzazione del fatto.

  3. Il datore di lavoro pubblico o privato che, per dolo o per negligenza, non adempie ai commi 1 e 2 del presente articolo è soggetto all’interdizione dai pubblici uffici o al licenziamento, in ottemperanza all’articolo 28 del codice penale e, in via subordinata, alle misure previste per i diversi livelli di responsabilità dagli articoli 55, commi 1 e 3, 56, 58 e 302, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

  4. Il danno all’integrità psico-fisica provocato dalle azioni di cui all’articolo 2 è comunicato dall’autorità gerarchica competente, previo onere della prova inversa, alla competente procura della Repubblica quando comporta una riduzione della capacità lavorativa per disturbi psico-fisici di qualsiasi entità, quali depressione, disturbi psico-somatici conseguenti a stress lavorativo come l’ipertensione, l’ulcera e l’artrite, disturbi allergici, disturbi della sfera sessuale, nonché tumori.

Art. 4.

(Azioni di tutela giudiziaria)

  1. Qualora siano denunciate, su ricorso del lavoratore o per sua delega dalle organizzazioni sindacali, azioni di mobbing, di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b), d), e) e i), il tribunale territorialmente competente, in funzione di giudice del lavoro, nei cinque giorni successivi alla data della denuncia, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione oggetto del ricorso ordina al responsabile del comportamento denunciato, con provvedimento motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo, ne dispone la rimozione degli effetti, stabilisce le modalità di esecuzione della decisione e determina in via equitativa la riparazione pecuniaria dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Contro la decisione di cui al primo periodo è ammessa, entro quindici giorni dalla data di comunicazione alle parti, opposizione davanti al tribunale, che decide in composizione collegiale, con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile.

  2. Nei casi di cui al comma 1, primo periodo, è posto a carico di colui che è accusato di perpetrare una condotta di mobbing l’onere della prova, ossia la dimostrazione dell’inesistenza della predetta condotta o delle vessazioni lamentate, la legittimità dei comportamenti adottati e, nel caso del datore di lavoro, l’adeguatezza delle misure di prevenzione o di repressione impiegate, quando il lavoratore ha presentato indizi sufficienti per lasciare presumere l’esistenza di una forma di violenza o di persecuzione psicologica ai suoi danni.

Art. 5.

(Pubblicità del provvedimento del giudice)

  1. Su istanza della parte interessata, il giudice può disporre che della sentenza di accoglimento, ovvero di rigetto, di cui all’articolo 4, sia data informazione, a cura del datore di lavoro, pubblico o privato, mediante lettera ai lavoratori interessati dell’unità produttiva o amministrativa nella quale è stato denunciato l’atto o il comportamento di mobbing oggetto dell’intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subìto tale atto o comportamento.

  2. Se l’atto o il comportamento oggetto del provvedimento di condanna è commesso dal datore di lavoro, pubblico o privato, o si evince una sua complicità, il giudice dispone la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani a tiratura nazionale, omettendo il nome della persona oggetto di mobbing. Le eventuali spese sono a carico del condannato.

Art. 6.

(Nullità degli atti o dei comportamenti di mobbing)

  1. Gli atti o i comportamenti di mobbing accertati ai sensi delle procedure di cui all’articolo 4 sono nulli.

  2. Sono, altresì, nulle le dimissioni presentate dal lavoratore vittima di atti o di comportamenti di mobbing.

Art. 7.

(Sanzioni penali)

  1. In caso di azioni di mobbing di cui all’articolo 2, comma 1, lettere c), f), g) e h), e in tutti i casi in cui si determinano danni ai sensi dell’articolo 3, comma 4, che devono essere accertati dal giudice, si applicano le sanzioni previste dalle disposizioni di cui al comma 2 del presente articolo.

  2. Dopo l’articolo 612-bis del codice penale è inserito il seguente:

   «Art. 612-ter. – (Atti vessatori in ambito lavorativo) – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni il datore di lavoro, il dirigente o il lavoratore che nel luogo o nell’ambito di lavoro, con condotte reiterate, compie atti, omissioni o comportamenti di vessazione o di persecuzione psicologica tali da compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore.

   La pena è aumentata se dal fatto deriva una malattia nel corpo o nella mente.

   La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

   Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede, tuttavia, di ufficio nelle ipotesi di cui ai commi secondo e terzo».

Art. 8.

(Misure di prevenzione e di vigilanza nei luoghi di lavoro)

  1. Le amministrazioni dello Stato e i datori di lavoro pubblici e privati, d’intesa con le rappresentanze sindacali o con i consigli centrali, intermedi e di base dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, adottano le seguenti misure volte a prevenire e a contrastare le azioni di mobbing:

   a) iniziative periodiche di informazione dei dipendenti anche al fine di individuare immediatamente eventuali sintomi o condizioni di discriminazioni ai sensi dell’articolo 2;

   b) organizzazione, ogni sei mesi, di corsi specifici di gestione delle relazioni interpersonali o del mobbing affidati a soggetti, anche esterni, in qualità di consulenti, muniti dell’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo e di un’ampia e comprovata esperienza specifica nel settore della psicologia del lavoro;

   c) accertamento di azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori, avvalendosi dei consulenti di cui alla lettera b);

   d) corsi di prevenzione e di informazione sulle azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori obbligatori e a carico del datore di lavoro per i dirigenti, per i medici competenti, per i responsabili della sicurezza aziendale, nonché per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;

   e) risoluzione delle controversie tramite la stipulazione di appositi accordi transattivi o conciliativi;

   f) denuncia alle autorità competenti.

  2. Ciascuna azienda sanitaria locale del comune capoluogo di provincia istituisce, nell’ambito della propria organizzazione amministrativa, un centro di riferimento per il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro, costituito da specialisti di salute mentale, anche interni alla medesima azienda sanitaria locale, quali:

   a) un medico specialista in medicina del lavoro, con funzioni di coordinamento;

   b) un esperto in test psicodiagnostici;

   c) un esperto in psicologia del lavoro e delle organizzazioni;

   d) un medico specialista in psichiatria;

   e) uno psicoterapeuta.

  3. Gli specialisti di cui al comma 2 provvedono:

   a) all’accertamento dello stato di disagio psico-sociale o di malattia del lavoratore e all’eventuale indicazione del percorso terapeutico di sostegno, cura e riabilitazione;

   b) all’individuazione delle eventuali misure di tutela da adottare da parte dei datori di lavoro nelle ipotesi di rilevati casi di disagio lavorativo.

  4. Il centro di cui al comma 2 organizza una conferenza annuale per valutare i risultati del lavoro svolto e per individuare le opportune iniziative per la riduzione o l’eliminazione delle azioni di mobbing.

Jobs Act – tutele crescenti e reintegra – l’insussistenza del fatto contestato

Licenziamento – articolo 18 legge 300/1970 come modificato dall’articolo 1, comma 42 della legge n.92 del 2012.

Insussistenza del fatto contestato – comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità – in tal caso si applica la sanzione della reintegrazione.

Lo afferma una recente sentenza della Corte di Cassazione che di seguito viene trascritta e che ha confermato analoga pronuncia concernente rapporto di lavoro disciplinato dal Jobs Act.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-11-2019, n. 28926

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4540-2018 proposto da:

OBI ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;

– ricorrente –

contro

F.O.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 522/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 27/11/2017 R.G.N. 387/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LORENZO BOMBACCI.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 522/2017, pubblicata il 27 novembre 2017, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato, in data 24 febbraio 2016, a F.O. da OBI Italia S.r.l. in relazione a plurimi addebiti allo stesso contestati con lettere del 13 gennaio e del 15 febbraio 2016, con la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria determinata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. La Corte di appello ha ritenuto a sostegno della propria decisione: – quanto al fatto che il lavoratore, all’epoca gerente del punto vendita di (OMISSIS), avesse consigliato di ripianare un ammanco di cassa mediante versamenti personali dei dipendenti e omesso di informare la direzione aziendale dell’accaduto, che la relativa contestazione era stata tardivamente formulata, posto che l’ammanco si era verificato nell'(OMISSIS); – quanto al fatto di aver consentito che alcuni dipendenti fossero segnalati ai clienti come installatori accreditati dal punto vendita, che tale condotta, comunque limitata a pochi ed eccezionali casi di urgenza, fosse tollerata in virtù di una prassi aziendale consolidata e risalente nel tempo; – quanto alla vendita a prezzo ridotto di taluni quantitativi di pellet, che non era emerso dall’istruttoria che la merce fosse integra e senza difetti, risultando, in ogni caso, tra le facoltà del gestore del punto vendita, anche quella di operare sconti in caso di deterioramento; – quanto al fatto, oggetto di una precedente contestazione disciplinare, di essersi espresso in modo inurbano durante un colloquio telefonico con un rappresentante sindacale, che il relativo procedimento era stato archiviato, con conseguente operatività del divieto di bis in idem; – quanto al fatto di avere impedito di effettuare rimborsi ai clienti e di avere obbligato i dipendenti a convincere gli stessi ad aderire a cambi merci, che non si trattava di costrizione ma di persuasione, come emerso in sede istruttoria, integrando la condotta così addebitata, pur parzialmente inosservante delle direttive aziendali, una mancanza soggetta a sanzione disciplinare conservativa e non espulsiva, come anche il dimostrato uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, anch’esso oggetto di contestazione; – che infine fosse insufficiente la prova del fatto di avere spinto una lavoratrice madre a dimettersi o a chiedere la riduzione di orario e, quanto al fatto di avere rivolto un’accusa di tossicodipendenza ad una dipendente, che tale addebito, alla stregua delle risultanze istruttorie, dovesse essere ridimensionato.

3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società, affidandosi a cinque motivi, assistiti da memoria.

4. Il lavoratore è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e agli artt. 1175 e 1375 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, senza considerare che la valutazione del principio di immediatezza deve essere condotta in base al criterio di relatività, e cioè avendo riguardo alle circostanze di natura oggettiva (come la complessità e l’articolazione dell’impresa sul territorio) che possono ritardare la percezione o l’accertamento dei fatti, ed inoltre senza considerare che ciò che rileva, ai fini dell’indagine circa la tempestività della contestazione, non è il momento dell’astratta conoscibilità dell’infrazione commessa ma quello in cui il datore di lavoro ne acquisisca una reale e piena conoscenza.

2. Con il secondo viene dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, per avere la Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, ritenuto che dovesse applicarsi la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro, sebbene in caso di tardività della contestazione, come nell’ipotesi di fatto sussistente ma privo di illiceità, la tutela da riconoscersi a favore del lavoratore potesse essere soltanto quella risarcitoria.

3. Con il terzo e con il quarto viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, fatto consistito (3) nella difficoltà incontrata dalla società nell’accertamento dei fatti a causa della condotta degli altri dipendenti del punto vendita, fra cui in particolare il comportamento connivente dell’area manager; (4) in una delle condotte contestate, avente ad oggetto il ripetuto impiego di modi ineducati nei confronti di taluni dipendenti.

4. Con il quinto viene dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c. e degli artt. 220 e 229 c.c.n.l. Commercio per avere la Corte di appello, con l’affermazione che l’unico fatto di rilievo disciplinare dimostrato in giudizio era costituito dall’uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, offerto una valutazione assolutamente riduttiva dei fatti di causa e del tutto contraria alle risultanze istruttorie.

5. Il primo motivo è infondato.

6. Il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile (Cass. n. 13167/2009, fra altre numerose conformi).

7. Come pure è stato ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, il criterio dell’immediatezza deve essere inteso in senso relativo, poichè si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per il compimento delle indagini dirette ad accertare i fatti e la complessità dell’organizzazione aziendale: la valutazione in proposito compiuta dal giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 281/2016).

8. Nella specie, la Corte di appello, con una congrua e corretta motivazione, comunque non oggetto di (ammissibile) censura, ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, in relazione agli addebiti concernenti il ripianamento dell’ammanco di cassa e la svendita di pellet, osservando come, essendo stato informato di entrambi i fatti l’area manager, e cioè la figura apicale dell’azienda nel punto vendita, secondo quanto l’istruttoria aveva consentito di accertare, era da ritenere che la datrice di lavoro ne avesse avuto piena e immediata conoscenza e ciò anche sul rilievo – conforme a consolidato principio di diritto (Cass. n. 15467/2004; n. 9894/1993) – che il ritardo nella contestazione dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in essere dal dipendente.

9. Il secondo motivo è parimenti infondato.

10. La Corte territoriale ha invero accertato, in relazione a taluni addebiti, la materiale insussistenza del fatto, così come contestato (con riferimento all’uso di un linguaggio scurrile e irrispettoso delle prerogative sindacali, l’intervenuta consumazione del potere disciplinare per lo stesso fatto storico e violazione del principio di ne bis in idem, essendo stato archiviato un precedente procedimento disciplinare); ha poi accertato, in relazione ad altri addebiti, elementi idonei ad escludere la illiceità della condotta: come l’esistenza di una prassi consolidata e risalente nel tempo, tollerata dall’azienda, per l’addebito avente ad oggetto il consenso prestato all’attività di installazione da parte di dipendenti del punto vendita, la cui prova, peraltro, ha osservato la Corte non essere stata neppure raggiunta con certezza; e come il fatto che nelle facoltà del gestore del punto vendita fosse compresa anche quella di praticare sconti, specie in caso di merce deteriorata, per l’addebito relativo alla contestata “svendita” di bancali di pellet.

11. Ne consegue che la Corte ha correttamente richiamato e applicato il principio, per il quale l’insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (Cass. n. 20540/2015; conformi, fra le molte: Cass. n. 18418/2016; n. 11322/2018).

12. Il terzo e il quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, risultano inammissibili per effetto della preclusione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., (c.d. “doppia conforme), a fronte di giudizio di secondo grado introdotto con reclamo depositato il 25 agosto 2017 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della norma.

13. Nè la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).

14. Egualmente inammissibile risulta il quinto motivo di ricorso.

15. Al riguardo si deve innanzitutto ribadire che “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5): Cass. n. 13395/2018.

16. In realtà la ricorrente, sotto il velo della denuncia del vizio di cui all’art. 360, n. 3, lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo dell’affermazione o della negazione dell’esistenza della norma in contestazione, ovvero dal dedurre una falsa applicazione determinata da un errore di sussunzione, ha inteso rimettere in discussione l’accertamento di fatto posto in essere dal giudice del merito con riferimento alla gravità dei fatti contestati e alla loro idoneità a integrare la fattispecie della giusta causa, anche tenuto conto delle previsioni della contrattazione collettiva in materia di licenziamento in tronco.

17. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

18. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese del giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019.

Nota.

Nel caso di specie, si procedeva al licenziamento di un dipendenti per fatti non solo contestati tardivamente ma la cui materialità non lasciava trasparire alcuna valenza disciplinare. Il rapporto di lavoro risulterebbe sorto anteriormente al regime delle tutele crescenti introdotto con il Jobs Act DLGS 23/2015.

Prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e quindi limitatamente ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la reintegra nel caso di licenziamento privo di giusta causa avveniva allorquando fosse stata accertata l’insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.

Successivamente all’entrata in vigore delle cosiddette “Tutele Crescenti”la reintegra opera esclusivamente come testualmente stabilito dalla legge di fronte all’insussistenza materiale del fatto contestato al lavoratore.

Già in precedenza ed in tema di interpretazione del concetto di “fatto materiale” di cui al DLGS 23/2015 , la Cassazione – Sezione Lavoro n.12174/2019 . La Suprema Corte ha voluto così assolutamente identificare l’insussistenza del fatto materiale di cui al DLGS 23/2015 all’insussistenza del fatto contestato di cui all’articolo 18, comma 4 della legge 300/70, con un ragionamento che viene di seguito testualmente riprodotto:

“Il medesimo criterio razionale che ha già portato questa Corte a ritenere che “quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione” (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2.”

Giova ricordare che il DLGS 23/2015 è già stato in parte dichiarato incostituzionale con la pronuncia della Consulta n.194/2018 in merito alla predeterminazione delle forme di risarcimento.

Sono inoltre state emesse n.2 ordinanze; una del Tribunale di Milano in data 5.8.2019 che rinvia alla Corte di Giustizia le differenze di trattamento tra lavoratori soggetti alla legge 223/91 ed il cennato DLGS 23/2015, nonché la coeva ordinanza del Tribunale di Bari del 18.4.2019 che rinvia alla Corte Costituzionale le previsioni di legge che stabiliscono un minore risarcimento nel caso di licenziamento affetto da vizio di forma.

Buoni pasto e riposi per maternità

Riposi per maternità e buoni pasto.

Alcune lavoratrici fruivano delle 2 ore di riposo qualificati dall’articolo 39 del DLGS 151/2001 come riposi giornalieri della lavoratrice madre da fruire durante il primo anno di vita del bambino.

Avutane risposta negativa, agivano in giudizio per vedersi riconosciuto il diritto in questione oltre all’indennità obiettivi di cui all’articolo 4 del CCNL delle Funzioni Centrali (già  Ministeri) del 2005 per il periodo di assenza, ed ulteriori istituti determinati dalla presenza in servizio.

Nel primi due gradi di giudizio, le lavoratrici ottenevano ragione ed alla fine il Ministero datore di lavoro ricorreva alla Corte di Cassazione.

Quest’ultima confermava i punti concernenti le indennità premiali equiparando l’assenza per maternità alla presenza in servizio, nel mentre riteneva non dovuti i buoni pasto,  ritenendo  che l’equiparazione del periodo di assenza per maternità di cui al già citato articolo 39, comma 1 vale esclusivamente ai fini della durata del rapporto di lavoro in ordine alla retribuzione, ma non per le modalità concrete con le quali viene svolta la prestazione lavorativa, In altri termini, specifica la Corte di Cassazione,  l’art. 39 è diretto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre o del padre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire i figli, entro il primo anno di età, senza specificare la collocazione temporale dei riposi, ma limitandosi a stabilire che, qualora essi siano due, possano anche essere cumulati, ma senza equiparazione alcuna ai periodi effettivamente lavorati.

Di seguito il testo integrale della sentenza:

Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 28-11-2019, n. 31137

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27021-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, C.F. (OMISSIS), successore dell’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA DEI MONOPOLI DI STATO – AAMS, DIREZIONE REGIONALE PER LA LOMBARDIA, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 54, presso lo studio dell’avvocato TERESA SANTULLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONELLA GALLO;

– controricorrente –

e contro

BU.GI., S.M.G., SA.MA.MA.RO., V.C.;

– intimati – avverso la sentenza n. 726/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/08/2014 R.G.N. 391/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FABIO D’ADDARIO per delega Avvocato ANTONELLA GALLO.

Svolgimento del processo

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 5 agosto 2014) respinge l’appello dell’Agenzia delle Dogane avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 6025/2011, di accoglimento integrale del ricorso proposto da B.B. e dai litisconsorti indicati in epigrafe, onde ottenere – a seguito della nascita dei propri figli negli anni dal (OMISSIS) – dalla loro datrice di lavoro, Agenzia delle Dogane, “il riconoscimento dell’incidenza” dei rispettivi permessi di allattamento, dei periodi di astensione obbligatoria per maternità e/o dei congedi parentali ai fini dell’attribuzione del diritto ai buoni pasto, all’indennità di produttività d’ufficio, all’indennità di obiettivo istituzionale, al cumulo dei periodi di riposo per allattamento con i permessi retribuiti e con i periodi di utilizzo della c.d. banca ore.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) deve essere respinto il primo motivo di gravame che riguarda l’indennità di produttività (di cui all’art. 4 del CCNL 15 gennaio 2005) in relazione ai periodi di congedo suddetti, in quanto l’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali sottoscritto il 28 maggio 2004 stabilisce che, in caso di congedo parentale e di interdizione anticipata dal lavoro, al dipendente spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa;

b) deve anche essere precisato che il CCNI dell’Agenzia delle Dogane del 29 luglio 2008 (quadriennio 2002-2005) prevede la liquidazione ai dipendenti dell’indennità di professionalità (ora indennità di obiettivo istituzionale) e dell’indennità di produttività ufficio (artt. 14 e 15);

c) quanto stabilito dall’art. 55 cit. trova anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità;

d) di conseguenza, tale equiparazione vale per la ripartizione delle componenti variabili della retribuzione, regolate dalla contrattazione integrativa, come quelle in esame;

e) le suindicate disposizioni normative e contrattuali consentono di superare l’art. 4 del CCNI 15 dicembre 2005 e l’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, secondo cui gli incentivi in questione sono da parametrare alle “ore ordinarie di servizio effettivamente prestato”;

f) invero, il suddetto criterio vale come regola generale, ma tale regola generale non trova applicazione per le ipotesi di assenza per cui è causa, come si è detto;

g) è da condividere l’equiparazione – contestata dall’Agenzia – delle ore di permesso per allattamento alle ore di effettiva presenza in ufficio effettuata dal primo Giudice a tutti i fini oggetto della presente causa;

h) ciò vale, in particolare, anche per l’erogazione dei buoni pasto, indipendentemente dal rientro in azienda e anche in assenza di pausa;

i) la suddetta equiparazione è, infatti, espressamente stabilita dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 secondo cui i permessi in questione “sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro” ed anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in tal senso;

I) non rileva, in contrario, l’eventuale mancanza di pausa, perchè la pausa costituisce un diritto del lavoratore la cui presenza in ufficio si protragga oltre le sei ore, non un onere al quale possa essere subordinata l’attribuzione dei buoni pasto, come di desume dall’art. 40 del CCNL cit.;

m) in tal senso depongono sia il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c) – che prevede l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia lo stesso art. 39 cit., secondo cui il permesso per l’allattamento implica il “diritto ad uscire dall’azienda”, diritto che non può precludere il riconoscimento del buono pasto pure in assenza di una pausa;

n) del resto, sia il Comitato Nazionale di Parità (9 marzo 1999), sia l’ARAN (nota del 15 gennaio 1999), sia il Ministero delle Attività Produttive (provv. del 2 febbraio 2006) hanno espressamente previsto la spettanza dei buoni pasto in caso di fruizione dei permessi per l’allattamento;

o) infine, il carattere generale dell’equiparazione di cui all’art. 39 cit. impone di considerare le ore di permesso per l’allattamento quali ore di effettivo servizio sia per l’attribuzione degli incentivi di cui alla contrattazione collettiva, sia per il cumulo con i periodi di fruizione delle ore accantonate nella “banca ore”, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto;

p) tale conclusione trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006;

o) per tutte le anzidette ragioni la sentenza appellata va integralmente confermata.

2. Il ricorso dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Direzione regionale per la Lombardia), rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resistono, con un unico controricorso, B.B. e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe.

3. Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente va respinta l’eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, per essere la sentenza impugnata conforme alla giurisprudenza di legittimità e non offrendosi nel ricorso argomenti validi per modificare il suddetto indirizzo.

Deve essere, infatti, precisato che tale eccezione è basata sull’erroneo presupposto dell’esistenza, con riguardo alle questioni qui dibattute, di una giurisprudenza di questa Corte “consolidata” che sarebbe stata seguita dalla Corte d’appello, mentre le questioni controverse sono da considerare per la maggior parte sostanzialmente nuove per la giurisprudenza di legittimità.

1.1. Peraltro, per costante orientamento di questa Corte, le situazioni di inammissibilità indicate nell’art. 360-bis c.p.c., comma 1, non integrano dei nuovi motivi di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto sono state configurate dal legislatore come strumenti utili alla specifica funzione di “filtro”, dei ricorsi per cassazione di agevole soluzione, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (vedi, per tutte: Cass. 29 ottobre 2012, n. 18551; Cass. 8 aprile 2016, n. 6905).

In particolare, quanto all’ipotesi di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 1 – che viene qui in considerazione – è stato precisato che la funzione di filtro dell’ipotesi di inammissibilità prevista dalla disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti” (Cass. SU 21 marzo 2017, n. 7155).

1.2. Il presente ricorso non risponde a tale schema proprio perchè le censure con esso proposte non contestano alcun orientamento “consolidato” di questa Corte cui si sarebbe uniformata la Corte territoriale ed è quindi necessario esaminarle nel merito.

2. – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5 e art. 45; del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22, comma 5, e dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2 della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008 e degli artt. 1362 c.c. e ss., con riguardo al riconoscimento dell’indennità di produttività, avvenuto in base all’art. 55 del CCNL Comparto Agenzie Fiscali del 28 maggio 2004 e al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 71 convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.

Ad avviso della Agenzia ricorrente l’interpretazione sul punto della Corte d’appello – fondata sulla equiparazione delle ore di congedo per maternità/paternità alla presenza in ufficio del dipendente, ai fini della corresponsione dell’indicata indennità – sarebbe erronea perchè, ponendosi in contrasto con la normativa invocata e in particolare con l’art. 4 del CCNI (volto a premiare la presenza dei dipendenti in ufficio, in coerenza con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5), si è tradotta nella equiparazione tra ore di assenza ed ore di lavoro effettivo, in caso di congedo parentale, per tutta la durata dei periodi cui si riferiscono le domande dei dipendenti (i cui figli sono nati negli anni dal (OMISSIS)).

Di conseguenza la Corte territoriale ha disposto la liquidazione dell’indennità di produttività – secondo il criterio adottato e contestato – anche per gli anni dal 2002 al 2006, in cui la disciplina era dettata dal citato art. 4 del CCNI, così facendo retroagire illegittimamente gli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, di cui l’Agenzia aveva dato applicazione già a partire dall’anno 2007.

Il suddetto art. 71, comma 5, ha previsto, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro nonchè al congedo di paternità.

Tuttavia tale norma non solo era priva di efficacia retroattiva, ma è stata abrogata dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, sicchè essa può essere applicata soltanto alle assenze effettuate nel periodo compreso tra la vigenza del D.L. n. 112 del 2008 e quella del D.L. n. 78 del 2009.

Di tutto questo la Corte d’appello non ha tenuto conto.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 e dell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004, in riferimento al riconoscimento dei buoni pasto.

Si rileva che tale statuizione è fondata sulla ritenuta applicabilità dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio ai fini dell’attribuzione dei buoni pasto e a prescindere dalla pausa per consumazione del pasto, mentre di tratta di un diritto riconosciuto al lavoratore a condizione che la sua presenza sul lavoro si protragga oltre le sei ore.

Si sostiene che una simile interpretazione si pone in contrasto con le norme sopra richiamate nonchè con la natura giuridica dei buoni pasto quale stabilita dalla giurisprudenza di legittimità ed indicata anche dall’ARAN (nota n. 9186 del 26 ottobre 2006).

Nè il Giudice d’appello ha correttamente valutato la posizione lavorativa dei ricorrenti – che, in ogni giornata lavorativa, hanno svolto 5,12 ore di lavoro effettivo e si sono giovati di 2 ore di riposo per allattamento – secondo le indicazioni della contrattazione collettiva.

Infatti, anche se i permessi per l’allattamento non comportano restrizioni sul fronte del trattamento retributivo, tuttavia non è ragionevole attribuire ai lavoratori che ne usufruiscono anche quegli speciali trattamenti assistenziali (quali sono i buoni pasto) previsti in favore dei lavoratori che non si allontanano dal luogo di lavoro.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 2, in riferimento al disposto riconoscimento in favore dei dipendenti di tutti gli ulteriori emolumenti richiesti, sempre sulla base dell’erronea premessa dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio.

Con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina.

Pertanto l’unica disposizione cui fare riferimento è il citato art. 39, comma 2, ove si riconosce “il diritto della donna ad uscire dall’ufficio” per fruire di brevi periodi di riposo, che concorrono nella durata dell’orario di lavoro, pur non configurandosi come attività lavorativa.

Tuttavia, dalla lettura del testo della disposizione si desume che il riconoscimento del suddetto diritto implica che l’interessata abbia fatto ingresso in ufficio o abbia effettivamente svolto la prestazione lavorativa.

Pertanto, sarebbe palesemente illegittima l’interpretazione – adottata dalla Corte d’appello – secondo cui, sulla base di tale norma, si arriva a riconoscere a dipendenti anche del tutto assenti dal servizio, per qualsiasi motivo, degli emolumenti accessori, a carattere speciale e tassativo, previsti esclusivamente per i dipendenti effettivamente presenti in ufficio.

3. – Esame delle censure.

3. L’esame delle censure porta al rigetto del primo e del terzo motivo di ricorso e all’accoglimento del secondo motivo, per le ragioni di seguito esposte.

4. Il primo motivo – con il quale si contesta il riconoscimento dell’indennità di produttività – è inammissibile per la parte in cui viene denunciata la violazione dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, in primo luogo, perchè tali censure sono proposte senza osservare il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente, qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali, è tenuto a trascriverne nel ricorso il contenuto essenziale e nel contempo a provvedere al relativo deposito insieme con il ricorso per cassazione stesso oppure a fornire alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali (di recente: Cass. SU 23 settembre 2019, n. 23552 e n. 23553).

Il suddetto principio di applica anche ai contratti collettivi integrativi perchè come chiarito da questa Corte, con un consolidato e condiviso indirizzo, l’esenzione dall’onere di depositare, unitamente con il ricorso per cassazione, il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle Amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al Comparto, pure nell’ipotesi in cui siano parametrati al territorio nazionale in ragione dell’Amministrazione interessata e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, (vedi, per tutte: Cass. 11 aprile 2011, n. 8231; Cass. 12 ottobre 2016, n. 20554; Cass. 9 giugno 2017, n. 14449).

A maggior ragione il principio suddetto trova applicazione con riguardo agli altri atti della contrattazione collettiva diversi dai contratti collettivi nazionali di lavoro, quale è nella specie la suddetta Preintesa.

4.1. La mancata estensione per i contratti integrativi dell’esenzione dal duplice onere di depositare il contratto e di riportare nel ricorso il contenuto della normativa collettiva integrativa di cui censuri l’illogica o contraddittoria interpretazione comporta anche che la denuncia di tale ultimo vizio non possa essere formulata facendo esclusivo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ma debba essere prospettata come violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss..

Ciò significa che il ricorrente non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma deve, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il Giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa da quella adottata nella sentenza impugnata (tra le tante: Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294).

4.3. Nel presente motivo la Agenzia ricorrente si è limitata ad includere, nella rubrica, gli artt. 1362 c.c. e ss. tra le norme asseritamente violate, senza alcuna successiva specificazione al riguardo, nei sensi dianzi detti, nell’ambito delle argomentazioni delle censure.

4.4. Per il resto il primo motivo non è fondato.

4.4.1. In primo luogo va precisato che nella presente controversia non viene in considerazione l’astensione facoltativa per maternità (cui fa riferimento la Agenzia ricorrente in memoria), ma quella obbligatoria oltre ai congedi di maternità, di paternità e parentali, come chiaramente indicato nella sentenza impugnata.

4.4.2. Deve anche essere osservato che l’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali del 28 maggio 2004 invocato dalla Corte d’appello ha avuto applicazione a partire dall’1 gennaio 2002, come risulta dallo stesso contratto, art. 2, comma 1 ove si precisa che: “il presente contratto concerne il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2005 per la parte normativa ed il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2003 per la parte economica”.

Pertanto, diversamente da quel che sostiene l’Agenzia ricorrente, la suindicata disposizione era applicabile anche per gli anni dal 2002 al 2006, come ritenuto dalla Corte territoriale, senza che nella sentenza impugnata sia stata effettuata alcuna illegittima retroazione degli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (di cui l’Agenzia aveva dato applicazione a partire dall’anno 2007).

4.4.3. Detto questo, dalla piana lettura dell’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali cit. risulta che, con esso, si è fra l’altro stabilito che, oltre a quanto previsto dalle disposizioni in materia di tutela della maternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, “ai fini del trattamento economico le parti concordano quanto segue: a) nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., art. 28 spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”.

Questo regime ha trovato anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità.

4.4.4. Tale comma 5 è stato abrogato dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, che ha stabilito che gli effetti di tale abrogazione dovessero concernere le assenze effettuate successivamente alla data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009 (1 luglio 2009).

Tuttavia, ai fini che qui interessano, la suddetta abrogazione non ha rilievo in quanto il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali.

Anzi nell’art. 44 del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – si riprende, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) stabilendosi che:

“1. Al personale dipendente si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, come modificato e integrato dalle successive disposizioni di legge, con le specificazioni di cui al presente articolo.

2. Nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 1617 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”.

4.4.5. Poichè, com’è noto, la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali è da escludere che tale contrattazione possa contenere norme che non rispettino i suddetti vincoli e limiti, tanto che le clausole che siano in contrasto con essi sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

A maggior ragione, la contrattazione integrativa (al pari di quella nazionale) deve rispettare le norme di legge riguardanti le materie di propria competenza.

Ne deriva che la contrattazione collettiva integrativa, nell’assicurare livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance individuale dei dipendenti ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 e destinando al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato, grazie allo stanziamento di apposite risorse aggiuntive per la contrattazione integrativa, è tenuta all’effettivo rispetto dei principi in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance e in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche Amministrazioni (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

4.4.6. Pertanto, essa non può non rispettare la norma, introdotta dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009), secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, ivi collegata al successivo art. 19 del medesimo D.Lgs. – per questa parte non modificato dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 74, art. 13 – nell’ambito delle risorse destinate al trattamento economico accessorio, collegato alla performance, il contratto collettivo nazionale dovesse, fra l’altro, stabilire la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale.

In base al D.Lgs. n. 1 agosto 2011, n. 141 (art. 6, comma 1) è stato, fra l’altro, stabilito che la differenziazione retributiva in fasce prevista dall’art. 19 cit. e dall’art. 31, comma 2, (riguardante i dipendenti delle Regioni, degli Enti territoriali e del Servizio sanitario nazionale) dello stesso D.Lgs. n. 150 del 2009 dovesse applicarsi a partire dalla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009 (che interessa per il presente giudizio) e che, “nelle more dei relativi rinnovi contrattuali, potessero essere utilizzate le eventuali economie aggiuntive destinate all’erogazione dei premi dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 5, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111“.

Successivamente – sempre nelle more dei predetti rinnovi contrattuali e in attesa dell’applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2009 cit., art. 19 (che ha collegato l’attribuzione del trattamento accessorio alla performance individuale sulla base di criteri di selettività e riconoscimento del merito) – con il D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 5, commi da 11 a 11-sexies (entrato in vigore il 7 luglio 2012 e convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 135) è stata disposta una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

Nell’ambito di tale disciplina è stata ribadita, al suddetto art. 5, comma 11-ter l’importante e significativa norma secondo cui “nella valutazione della performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”.

Il D.Lgs. n. 25 maggio 2017, n. 14 (Modifiche al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, in attuazione dalla L. 7 agosto 2015, n. 124, art. 17, comma 1, lett. r) nel modificare il D.Lgs. n. 150 cit., art. 9 ha mantenuto fermo il suindicato comma 3, riguardante l’irrilevanza dei periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale ai fini della nella valutazione della performance individuale, irrilevanza che – in base alla ratio legis – comporta che le Pubbliche Amministrazioni, nel procedere all’anzidetta valutazione, non possono considerare negativamente le assenze dal servizio per i suddetti motivi.

4.4.7. In base a tale norma, in altre parole, se normalmente – essendo da combattere l’assenteismo – ai fini del punteggio derivante dalla valutazione degli obiettivi comuni e comportamenti organizzativi che concorre a comporre il punteggio complessivo della performance del personale non dirigente, si attribuisce rilievo anche alla regolare presenza in servizio nel tempo di lavoro (in termini cognitivi, relazionali e fisici), quando ricorrono le suddette particolari ipotesi di assenza dal servizio, l’apporto individuale della/del dipendente deve essere valutato in relazione all’attività di servizio svolta ed ai risultati conseguiti e verificati, nonchè sulla base della qualità e quantità della sua effettiva partecipazione ai progetti e programmi di produttività, prescindendo dai periodi di congedo goduti dagli interessati per le indicate finalità, cioè considerando utili (quindi come effettiva presenza) i periodi di congedo di maternità, di paternità, e parentale.

Si tratta, quindi, di un regime derogatorio (applicabile anche ai dirigenti, mutatis mutandis) che può considerarsi il frutto del bilanciamento fra più interessi di rilevanza costituzionale: da un lato il buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e il dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “di adempierle con disciplina ed onore”, di cui all’art. 54 Cost., comma 2 e dall’altro la tutela della maternità e della genitorialità in senso ampio garantita, in particolare, dagli artt. 31 e 37 Cost., oltre che dall’art. 3 Cost.

4.4.8. A tale ultimo riguardo va ricordato che la Corte costituzionale ha più volte affermato che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e facoltativa, ora denominati congedi, quello dei congedi parentali e i riposi giornalieri non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore, ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro situazione (Corte Cost. sentenza n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati, nonchè sentenze n. 105 e n. 158 del 2018 e nello stesso senso: Cass. 25 febbraio 2010, n. 4623).

4.4.9. In sintesi, dal quadro normativo e contrattuale fin qui delineato nei suoi tratti essenziali si traggono, per quanto qui interessa, le seguenti conclusioni:

a) a decorrere dall’1 gennaio 2002, in base all’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali cit. – cui correttamente ha fatto riferimento la Corte d’appello per il riconoscimento agli attuali controricorrenti dell’indennità di produttività per il suddetto Comparto è stato stabilito che, ai fini del trattamento economico, nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 compresa quindi l’interdizione anticipata dal lavoro, alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., n. 28 (Congedo di paternità), spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”;

b) ai fini della presente controversia è irrilevante la sopravvenuta abrogazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (che per la distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, di regola collegata alla presenza in ufficio, aveva sancito in via eccezionale l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità) da parte del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (abrogazione i cui effetti si sono prodotti con riguardo alle assenze effettuate successivamente luglio 2009, data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009);

c) infatti, quel che conta è che il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali, succedutasi nel tempo;

d) anzi nell’art. 44, comma 2″ del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali-Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – riprendendosi, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) si stabilisce che: “nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 1617 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”;

e) del resto, dal punto di vista sistematico, si può ricordare che identica disposizione è anche contenuta nell’art. 43, comma 2 CCNL 21 maggio 2018 del diverso Comparto, sempre di nuova definizione, Funzioni locali (Periodo 2016-2018);

f) alla stessa ottica, per quanto riguarda la disciplina generale del lavoro pubblico contrattualizzato, risponde la norma secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009) e non modificata dal D.Lgs. n. 14 del 2017, art. 7 e da collegare al successivo D.Lgs. n. 150 cit., art. 19.

4.4.10. Di qui la spettanza dell’indennità di produttività (comunque denominata nonchè degli emolumenti analoghi) ai dipendenti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli indicati in epigrafe, visto che, in base alla suddetta normativa, ai lavoratori che fruiscono di periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa, il che (fra l’altro) esclude che ai fini della determinazione e della corresponsione dell’indennità di produttività (ma lo stesso varrebbe per l’indennità di risultato da attribuire ai dirigenti) possano essere valutati negativamente i suddetti periodi di congedo.

Tutto questo porta al complessivo rigetto del primo motivo di ricorso.

5. Per analoghe ragioni va dichiarato infondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si contesta la disposta attribuzione dei richiesti incentivi di cui alla contrattazione collettiva e il riconoscimento del possibile cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto.

5.1. Poichè, come rileva la stessa ricorrente, con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina è quindi necessario fare riferimento, prioritariamente, all’anzidetto principio generale secondo cui i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale non possono avere incidenza retributiva negativa (salvo che per particolari emolumenti), visto che anche i riposi giornalieri in parola hanno la medesima funzione dei suddetti periodi di congedo (Corte Cost. sentenze n. 179 del 1993 e n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati).

Alla luce del suddetto principio – e, si sottolinea, in assenza di norme della contrattazione collettiva sul punto – si deve leggere l’unica disposizione cui è possibile fare riferimento, che è il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, commi 1 e 2, secondo cui:

“1. Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.

2. I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall’azienda”.

5.2. Premesso che i suddetti riposi sono usufruibili anche dal padre (Corte Cost. sentenza n. 179 del 1993 nonchè Cass. 2 ottobre 1997, n. 9618), l’unica interpretazione della norma conforme al suindicato quadro normativo e contrattuale appare essere quella adottata dalla Corte d’appello, nel senso del carattere generale della equiparazione dei periodi di riposo di cui all’art. 39 cit., commi 1 e 2, alle ore lavorative “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”.

Tale equiparazione porta alla spettanza dei diritti riconosciuti al riguardo nella sentenza impugnata, mentre la lettura suggerita dall’Agenzia ricorrente in base alla quale il riconoscimento del diritto in contestazione implicherebbe che l’interessata (o l’interessato) abbiano fatto ingresso in ufficio o abbiano effettivamente svolto la prestazione lavorativa – appare porsi in contrasto con i suindicati principi che governano la materia, tanto più che l’eventuale attribuzione degli emolumenti accessori in oggetto nella peculiare ipotesi in cui la presenza in servizio venga a mancare del tutto si può verificare solo laddove il cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione copra l’intera giornata lavorativa.

5.3. Peraltro, come si sottolinea nella sentenza impugnata, la soluzione adottata dalla Corte d’appello trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006, che, come tutte le circolari della P.A. non è fonte del diritto ma può essere utile come presupposto chiarificatore della posizione espressa dall’Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889).

Ebbene, nell’anzidetta circolare, a proposito alla possibilità di cumulare le “ore di recupero” – ossia le ore espletate oltre il previsto orario giornaliero di lavoro ed accumulate con il sistema della “banca ore” – con i periodi di riposo per allattamento di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 39 e ss. si è precisato che, ai fini della fruizione di tali riposi, è possibile considerare le suddette “ore di recupero” come “ore di lavoro effettivo” in altra giornata rispetto a quella di effettuazione delle ore stesse.

Infatti, ai fini del diritto ai riposi giornalieri in argomento e al relativo trattamento economico, deve essere preso a riferimento l’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – e non l’orario effettivamente osservato in concreto nelle singole giornate. Ne consegue pertanto che i riposi in questione sono riconoscibili anche laddove la somma delle ore di recupero e delle ore di allattamento esauriscano l’intero orario giornaliero di lavoro comportando di fatto la totale astensione dall’attività lavorativa.

5.4. Va altresì ricordato che il suindicato criterio secondo cui ai fini dell’attribuzione dei suddetti riposi si deve fare riferimento all’orario giornaliero normale e non al numero di ore di lavoro in concreto effettuate nelle singole giornate, trova ampi riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 19 gennaio 1990, n. 292 e Cass. 20 dicembre 1986, n. 7800).

6. Va, infine, esaminato il secondo motivo – con il quale l’Agenzia ricorrente contesta il riconoscimento dei buoni pasto – che è da accogliere.

6.1. Per fermo indirizzo di questa Corte il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione “normale” concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 14 luglio 2016, n. 14388; Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168; Cass. 17 luglio 2003, n. 11212; Cass. 1 luglio 2005, n. 14047; Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 6 luglio 2015, n. 13841;).

Deve essere, al riguardo, precisato che il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 1) nonchè Cass. 14 luglio 2016, n. 14388 cit. nonchè Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168 cit.).

6.2. Si tratta, quindi, di un istituto che trova riscontro nella disciplina UE dell’organizzazione dell’orario di lavoro che – anche sulla base dei Trattati – è sempre stata collegata alla promozione del miglioramento dell’ambiente di lavoro, nel senso di garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (vedi, per tutti: direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. n. 8 aprile 2003, n. 66; Carta dei diritti fondamentali UE, art. 31).

Ma deve essere sottolineato che, proprio per la suindicata natura, il buono pasto non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, in quanto la sua corresponsione – quale agevolazione di carattere assistenziale – piuttosto che porsi in collegamento causale con il lavoro prestato dipende dalla sussistenza di un nesso meramente occasionale con il rapporto di lavoro, secondo la relativa configurazione della contrattazione collettiva cioè con riguardo all’orario di lavoro (settimanale e giornaliero) ivi stabilito per la fruizione dei buoni pasto, nella cornice indicata dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 8 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

In base al comma 1 di tale ultimo articolo: “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”.

6.3. Tale norma trova riscontro nel CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali cit. ove si stabilisce che l’orario ordinario di lavoro è di 36 ore settimanali è articolato su cinque giorni (art. 33, comma 1) e che se la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore continuative, il personale, purchè non turnista, imbarcato o discontinuo, ha diritto a beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto (artt. 33, comma 5, e art. 40).

Da ciò si evince che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e che tale effettuazione, a sua volta, come regola generale, presuppone che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni.

6.4. Non va del resto dimenticato che, come risulta dall’Accordo sindacale per la concessione dei buoni pasto nel Comparto Ministeri, sottoscritto in data 30 aprile 1996 – integrato dall’accordo sindacale del 12 dicembre 1996 – nell’originaria previsione della corresponsione dei buoni pasto ai dipendenti (con l’attribuzione dello stanziamento previsto dalla L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, secondo la direttiva della Presidenza del consiglio in data 7 febbraio 1996, in via preliminare rispetto alla definizione del nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro di Comparto per il biennio economico 1996-1997) è stato precisato che essa era finalizzata a “favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni dello Stato, per incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni”.

Pertanto, fin dalle prime applicazioni è stato chiaro che si trattava di un beneficio legato non alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma alle modalità concrete del suo svolgimento orario e quindi alla relativa organizzazione, essendo diretto a consentire il recupero delle energie psico-fisiche – con una pausa a ciò finalizzata e da utilizzare per l’eventuale consumazione del pasto, laddove non sia organizzato un servizio mensa – dei lavoratori destinatari di un’estensione dell’orario di lavoro, estensione diretta a incrementare la qualità e la quantità dei servizi offerti dalle pubbliche Amministrazioni, secondo gli standard esistenti in ambito Europeo.

6.5. Ne deriva che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative non può valere per l’attribuzione dei buoni pasto alle persone che si trovino delle condizioni degli attuali controricorrenti.

Del resto, come si legge nello stesso art. 39, comma 2 la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, non per le modalità concrete con le quali viene svolta la prestazione lavorativa giornaliera, dal punto di vista dell’orario effettivamente osservato dal dipendente.

In altri termini, l’art. 39 è diretto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre o del padre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire i figli, entro il primo anno di età, senza specificare la collocazione temporale dei riposi, ma limitandosi a stabilire che, qualora essi siano due, possano anche essere cumulati.

6.6. La disposizione stessa stabilisce poi la suindicata equiparazione, ma solo con riguardo alla retribuzione e alla durata del lavoro.

Dal punto di vista del trattamento retributivo, come si è detto sopra, l’indicata equiparazione, in linea generale, non consente diversità di trattamento in danno dei dipendenti che si trovino nelle condizioni degli attuali controricorrenti, salve restando situazioni particolari (come, ad esempio: i compensi per lavoro straordinario e le indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti).

Per quanto si riferisce alla “durata del lavoro” la suindicata disposizione deve essere messa in correlazione con le norme legislative e contrattuali che per tutelare gli interessi fondamentali che presiedono alla maternità/paternità – consentono agli interessati, che ne facciano richiesta, di essere favoriti nell’utilizzo dell’orario flessibile (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 3, nonchè art. 36, comma 2, CCNL Comparto Agenzie fiscali 28 maggio 2004 cit.).

6.7. E’, quindi, certamente fuori dall’ambito applicativo dell’art. 39 cit. l’attribuzione dei buoni pasto, la quale non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro e che certamente non può dirsi finalizzata a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare dei dipendenti.

Infatti, la concessione dei buoni pasto nasce dalle scelte organizzative dell’Amministrazione di appartenenza in materia di orario di lavoro dei dipendenti dirette a conciliare l’estensione dell’orario di lavoro (secondo gli standard Europei) con l’esigenza di offrire, nello stesso tempo, ai lavoratori che effettuano un orario prolungato la possibilità recuperare le loro energie psicofisiche con una pausa da utilizzare per l’eventuale consumazione di un pasto, laddove non esista un servizio mensa, sulla base della normativa UE in materia di orario di lavoro (direttive 93/104/CE e 2000/34/CE) e, in particolare, del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 di attuazione di tale normativa.

6.8. Tutto questo, con riguardo alla presente fattispecie, trova conferma nell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004 Comparto Agenzie fiscali cit. che fissa le condizioni di attribuzione dei buoni pasto, stabilendo fra l’altro che:

“1. Hanno titolo all’attribuzione del buono pasto i dipendenti del comparto delle Agenzie fiscali, aventi un orario di lavoro settimanale articolato su cinque giorni o su turnazioni di almeno otto ore continuative, a condizione che non possano fruire a titolo gratuito di servizio mensa od altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro.

2. Il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 33, comma 5 (orario di lavoro), all’interno della quale va consumato il pasto”.

Mentre il successivo art. 99, comma 4, precisa che: “l’attribuzione del buono pasto non può in alcun modo ed a nessun titolo essere sostituita dalla corresponsione dell’equivalente in denaro”.

6.9. Nè può valere in contrario il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c), – prevedente l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia perchè il suddetto decreto è stato abrogato dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 358, comma 1, lett. i) a decorrere dall’8 giugno 2011 (secondo quanto disposto dallo stesso D.P.R. n. 207 cit., art. 359, comma 1) sia perchè comunque, anche per il passato, nella gerarchia delle fonti, rispetto alla suindicata normativa è da considerare prevalente la disciplina, di origine UE, derivante dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e dalla conforme contrattazione collettiva.

6.10. Va precisato che non vi è un’incompatibilità assoluta tra la spettanza dei buoni pasto e la fruizione dei permessi per l’allattamento, ma tale spettanza dipende dalla ricorrenza in concreto dei relativi presupposti, a partire dall’osservanza di un orario effettivo praticato dall’interessata/o superiore a quello previsto per fruire della pausa.

In altre parole, non essendo il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, un elemento della retribuzione “normale”, per la relativa attribuzione si deve fare riferimento all’orario in concreto osservato nelle singole giornate lavorative e non all’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – al contrario di quanto accade ai fini del diritto ai riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39 (vedi sopra 5.3 e 5.4).

6.11. Nella presente controversia è pacifico che tutti gli attuali controricorrenti per le giornate lavorative per le quali rivendicano i buoni pasto hanno osservato, in concreto, un orario pari a 5 ore e 12 minuti, fruendo dei riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39. Pertanto sono stati effettivamente presenti nell’Azienda per un numero di ore inferiore alle sei giornaliere previste anche dal CCNL, conseguentemente non hanno maturato il diritto alla pausa ai sensi del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e del CCNL da applicare e quindi è da escludere il loro diritto all’attribuzione dei buoni pasto.

6.12. Tale conclusione, del resto, trova conferma:

a) nella recente risposta del 16 aprile 2019, n. 2 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all’Interpello promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale con riguardo al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione dei buoni pasto o alla fruibilità del servizio mensa per le lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri “per allattamento” di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39;

b) nella nota 10 ottobre 2012 n. 40527 del Dipartimento della Funzione Pubblica, ove è stato precisato che: “il diritto al buono pasto sorge per il dipendente solo nell’ipotesi di attività lavorativa effettiva dopo la pausa stessa”;

c) nelle Istruzione in data 21 gennaio 2013 fornite dall’Agenzia delle Entrate, nella quali ai fini della concessione del buono pasto ai propri dipendenti, sono considerati “presupposti imprescindibili l’effettuazione della pausa e la prosecuzione dell’attività lavorativa”.

6.13. Di qui l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, con conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata.

IV – Conclusioni.

7. In sintesi, il primo e il terzo motivo di ricorso vanno respinti, mentre il secondo motivo deve essere accolto.

8. La sentenza impugnata va quindi cassata, in relazione al motivo accolto, concernente il riconoscimento del diritto dei ricorrenti ai buoni pasto.

9. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto della domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

10. Per quanto riguarda le spese dell’intero processo, in considerazione della complessità delle questioni trattate e dell’esito complessivo della controversia, si ritiene conforme a giustizia: 1) per i gradi di merito del giudizio: confermare la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i tre quarti del totale, con compensazione del restante quarto e distrazione, ove prevista; 2) per il presente giudizio di cassazione: condannare l’Agenzia ricorrente al pagamento dei tre quarti del totale delle spese processuali come liquidate in dispositivo, con compensazione fra le parti del restante quarto e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

11. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare i seguenti principi di diritto:

a) nel lavoro pubblico contrattualizzato per il personale dipendente cui si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 i periodi di congedo per maternità, paternità e parentale nonchè riposi giornalieri di cui all’art. 39 suddetto D.Lgs. – i quali, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione – in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati, con esclusione di particolari e specifici compensi (quali, ad esempio i compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti);

b) nel pubblico impiego contrattualizzato l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e tale effettuazione, a sua volta presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva), sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni (D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8). Del resto, l’istituto dei buoni pasto è stato introdotto nel nostro ordinamento per favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni pubbliche nazionali, onde incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni. Ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che nella qualità di destinatari delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 osservano in concreto un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore. Infatti, con riguardo ai buoni pasto, non può valere l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative, come si desume agevolmente dallo stesso art. 39, comma 2 ove si precisa che la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”. L’attribuzione dei buoni pasto, non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro essendo finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla P.A. (per le suindicate finalità) con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire agli interessati il recupero delle proprie energie psico-fisiche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

Per le spese processuali così dispone:

1) per i gradi di merito del giudizio: conferma la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i 3/4 del totale, con compensazione del restante 1/4 e distrazione, ove prevista;

2) per il presente giudizio di cassazione: condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per esborsi e quantifica le spese processuali nella complessiva somma di Euro 8000,00 (ottomila/00), ponendo a carico della ricorrente i 3/4 del totale, con compensazione fra le parti del restante 1/4 e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019