LA CATEGORIA DEI QUADRI INTERMEDI: PROPOSTE PER UN
AGGIORNAMENTO DELLA DISCIPLINA LEGALE CON RIFERIMENTO ANCHE ALLA CATEGORIA DEI
RICERCATORI DELLE AZIENDE PRIVATE
UN CONTRATTO-TIPO PER I
QUADRI
Fabio Petracci e Alberto
Tarlao
Studio Legale Petracci Marin
– Trieste
Indice
Introduzione…………………………………………………………………………………………………………….1
La
categoria dei quadri: definizione legale…………………………………………………………………2
Principali
pronunce giurisprudenziali……………………………………………………………………….
6
La
questione del mancato riconoscimento dei quadri nel pubblico impiego…………………..16
La
proposta di un contratto-tipo per i quadri…………………………………………………………….25
Conclusioni…………………………………………………………………………………………………………..42
Ringraziamenti………………………………………………………………………………………………………43
Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………..44
Indice sentenze citate in ordine cronologico……………………………………………………………..45
Introduzione
Il
presente lavoro si prefigge come obiettivo quello di analizzare la categoria di
lavoratori subordinati individuabile nei quadri intermedi.
Punto
di partenza è costituito dall’esame della vigente disciplina normativa, ovvero
della legge 190/1985, che ha introdotto la categoria dei quadri intermedi
nell’ordinamento italiano modificando l’art. 2095 del c.c.
Segue
poi una breve analisi delle principali pronunce giurisprudenziali in tema, al
fine di meglio delineare le caratteristiche proprie della categoria.
Successivamente
interviene una breve disamina della questione relativa al pubblico impiego,
oltre ad una valutazione sull’esperimento riguardante l’esperienza della c.d.
vice-dirigenza e della disciplina delle posizioni organizzative.
Una volta fissati con maggior
precisione i termini della questione, vengono evidenziate le caratteristiche
tipiche dei quadri e viene proposto uno schema di contratto-tipo aziendale applicabile
a quadri, professionisti e ricercatori, composto di 15 articoli che coprono gli
elementi maggiormente rilevanti del rapporto di lavoro.
La categoria dei quadri: definizione legale
Come noto, l’art. 2095 del codice civile
stabilisce che: “I
prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati
e operai.
Le leggi speciali [e le norme corporative],
in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura
dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie”.
Tuttavia, la versione originale del predetto
articolo non contemplava, all’interno dei lavatori subordinati, la categoria
dei quadri. Ed in effetti solo con la legge n. 190 del 1985, “Riconoscimento
giuridico dei quadri intermedi” è stato modificato il testo dell’art. 2095
c.c., proprio al fine di inserire la categoria dei quadri intermedi, posta tra
quella degli impiegati e quella dei dirigenti. A questo scopo, l’art. 1 di tale
legge prevede espressamente che “Il
primo comma dell’articolo
2095 del codice civile è sostituito dal seguente:
«I prestatori di
lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai»”.
Ebbene, l’art. 2 della legge 190/1985, diviso in
tre commi, dispone che: “1. La categoria
dei quadri è costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non
appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere
continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione
degli obiettivi dell’impresa.
2. I requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono stabiliti
dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale in relazione a ciascun
ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa.
3. Salvo diversa espressa disposizione, ai lavoratori di cui al comma 1
si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati”.
Appare chiaro fin da subito che la definizione di
quadro contenga solo il principio generale per il quale sono classificati come
quadri quei lavoratori che, sebbene non appartenenti alla diversa categoria dei
dirigenti, svolgano continuativamente funzioni di notevole importanza con
riguardo agli obiettivi dell’impresa. Il secondo comma opera un rinvio alla
contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la fissazione dei requisiti
di appartenenza alla categoria dei quadri. Di capitale importanza risulta poi
il comma 3, che funge da norma di chiusura del sistema, stabilendo che ai
quadri intermedi, salvo diversa ma espressa disposizione, si applichino le
norme riguardanti la categoria degli impiegati.[1]
Proprio in considerazione di quanto appena considerato,
l’art. 3 dispone che: “In sede di prima
applicazione, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, le
imprese provvederanno a definire attraverso la contrattazione collettiva
l’attribuzione della qualifica di quadro, così come previsto e con le modalità
stabilite dall’articolo 2, comma 2, della presente legge”.
Il successivo art. 4, “Ferme restando le disposizioni di cui al libro V, titolo IX, del codice
civile e le leggi speciali vigenti in materia, i contratti collettivi possono
definire le modalità tecniche di valutazione e l’entità del corrispettivo
economico della utilizzazione, da parte dell’impresa, sia delle innovazioni di
rilevante importanza nei metodi o nei processi di fabbricazione ovvero
nell’organizzazione del lavoro, sia delle invenzioni fatte dai quadri, nei casi
in cui le predette innovazioni o invenzioni non costituiscano oggetto della
prestazione di lavoro dedotta in contratto”, è rivolto dunque a concedere
ancora maggior margine di operatività alla contrattazione collettiva, seppur
nei limiti previsti dal codice civile e delle leggi speciali.
Procedendo nell’esame della legge 190/1985, l’art.
5 della stessa prevede uno specifico adempimento a carico dei datori di lavoro
con riguardo alla categoria dei quadri: si tratta dell’obbligo di assicurazione
per la responsabilità civile verso terzi del lavoratore conseguente a colpa
nello svolgimento delle mansioni; questo il contenuto dell’art. 5: “Il datore di lavoro è tenuto ad assicurare
il quadro intermedio contro il rischio di responsabilità civile verso terzi
conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie mansioni contrattuali. La
stessa assicurazione deve essere stipulata dal datore di lavoro in favore di
tutti i propri dipendenti che, a causa del tipo di mansioni svolte, sono
particolarmente esposti al rischio di responsabilità civile verso terzi”.
L’ultimo articolo della legge 190/1985, l’art. 6, disponeva
che: “In deroga a quanto previsto dal
primo comma dell’art. 2103 del codice civile, come modificato dall’art. 13, L.
20 maggio 1970, n. 300, l’assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori
di cui all’articolo 2 della presente legge ovvero a mansioni dirigenziali, che
non sia avvenuta in sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla
conservazione del posto, diviene definitiva quando si sia protratta per il
periodo di tre mesi o per quello superiore fissato dai contratti collettivi”, maè stato abrogato dall’art. 3, comma 2,
D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, ai sensi di
quanto disposto dall’art. 57, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 81/2015.
L’art.
3 comma 1 del D.Lgs. 81/2015 è dedicato alla disciplina delle mansioni. Nello
specifico, sostituisce il previgente testo dell’art. 2103 del codice civile,
ora applicabile anche alla categoria dei quadri, con il seguente: “Il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a
quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente
acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria
legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali
che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni
appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella
medesima categoria legale.
Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario,
dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non
determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti
al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima
categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.
Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il
mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il
lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del
trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi
retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente
prestazione lavorativa.
Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o
avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali
di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di
inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla
conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità
o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere
da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce
mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il
lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e
l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la
medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in
servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo
sei mesi continuativi.
Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità
produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive.
Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al
quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è
nullo.”
In
questa sede, in considerazione della rilevanza e dell’ampiezza del tema
riguardante la disciplina dettata dal nuovo art. 2103 c.c. in tema di mansioni,[2] ci si
limiterà a ribadire come l’intervento del legislatore abroghi la disciplina
riguardante le mansioni specificamente prevista per i quadri dall’art. 6 della
legge 190/1985, rendendo di conseguenza applicabile alla predetta categoria la
disciplina prevista per operai ed impiegati e contenuta nel novellato art. 2103
del codice civile.
Principali pronunce giurisprudenziali
In
considerazione dell’ampio rinvio nel definire e determinare i requisiti di
appartenenza alla categoria dei quadri intermedi alla contrattazione collettiva
previsto dall’art. 2 della legge 190/1985, era prevedibile che dovesse
intervenire la giurisprudenza di legittimità per delineare meglio ambito e
contorni del predetto rinvio.
La
sentenza n. 8060/1998 della Corte di Cassazione risolve il problema dei
rapporti tra la contrattazione collettiva nazionale e quella aziendale,
stabilendo che l’art. 2 della legge 190/1985 non fissa alcun rapporto di
gerarchia tra i predetti livelli di contrattazione, per cui la contrattazione
collettiva aziendale può derogare alla contrattazione collettiva nazionale al
fine di determinare i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri
intermedi. Così la massima: “L’ art. 2 l. 13 maggio 1985 n. 190, istitutiva
della categoria dei quadri intermedi, nel demandare alla contrattazione
collettiva nazionale o aziendale la determinazione dei requisiti di
appartenenza alla suddetta categoria (che non presuppone necessariamente lo
svolgimento di funzioni direttive), non fissa alcun rapporto di gerarchia fra i
due livelli di contrattazione; ne consegue che la contrattazione collettiva
aziendale ben può derogare a quella nazionale nel determinare i suddetti
requisiti. (Principio affermato con riferimento all’art. 4 c.c.n.l. 19 marzo
1987 per i dipendenti delle casse di risparmio)”.[3]
La
successiva sentenza n. 275/1999, sempre della Suprema Corte Sezione Lavoro,
conferma che il tipo di funzioni assegnato in via astratta dalla legge 190/1985
ai quadri è destinato ad operare solo in assenza di norme contrattualistiche
collettive che dettino apposita disciplina al riguardo. Infatti, nel caso il
contratto collettivo regoli diversamente la materia, sarà esso a prevalere sui
criteri fissati in via generale dalla soprindicata norma legislativa. Questa la
massima: “Il principio enunciato dall’ art. 2, comma 2, della l. n. 190 del
1985 secondo cui i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono
previsti dalla contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) trova
applicazione anche quando la suddetta contrattazione sia intervenuta in ritardo
rispetto all’anno previsto dalla stessa legge. Infatti ritenere che in simile
ipotesi debba farsi riferimento alle indicazioni contenute nel comma 1 dello
stesso art. 2 (che ha solo carattere residuale applicandosi esclusivamente
nell’ipotesi, anomala e transitoria, in cui la contrattazione collettiva non
abbia affatto provveduto) per retrodatare il momento iniziale di appartenenza
alla categoria in oggetto implica la disapplicazione dell’art. 2, comma 2, cit.
il quale attribuisce carattere esclusivo all’indicato criterio. (Fattispecie
relativa ad un contratto aziendale intervenuto il 31 maggio 1989)”.[4]
Ulteriore
importante sentenza della Cassazione è la numero 21652/2006, la quale
stabilisce che il diritto al riconoscimento della qualifica di quadro
intermedio spetta anche qualora la contrattazione collettiva non abbia
provveduto né a livello nazionale né aziendale, a stabilire i requisiti di
appartenenza alla categoria; ancora, viene censurata l’interpretazione dei
giudici di merito che avevano desunto i predetti criteri interpretando
requisiti tipici della figura del dirigente, quali la gestione diretta dei
rapporti con terzi e la capacità di impegnare direttamente l’azienda, mentre ex
lege ai quadri devono essere applicate le norme riguardanti la categoria degli
impiegati. Così la massima: Il diritto al riconoscimento della qualifica di
“quadro”, istituita dalla legge 13 maggio 1985 n. 190, è
configurabile anche se, entro l’anno dall’entrata in vigore della legge, la
contrattazione non abbia provveduto, a norma degli artt. 2 e 3, a stabilire i
requisiti di appartenenza alla categoria, che, in tal caso, vanno desunti dalle
specifiche indicazioni poste dalla legge, considerando che la categoria dei
quadri non appartiene alla categoria dei dirigenti e che ai quadri, salvo
diversa disposizione, si applicano le norme riguardanti la categoria degli
impiegati (art.2, commi 1 e 3 legge n.190 del 1985). (Nella specie, la S.C. ha
cassato la sentenza con cui il giudice di merito, nel desumere i requisiti di
appartenenza alla categoria quadri, non aveva correttamente interpretato la
norma, aggiungendo, all’unico requisito richiesto “ex lege”,
requisiti tipici della figura del dirigente, quali la gestione diretta dei
rapporti con i terzi e la capacità di impegnare direttamente l’azienda).[5]
Frequenti
sono le cause nelle quali i prestatori di lavoro subordinato inquadrati nella
categoria degli impiegati ricorrono all’autorità giudiziaria per vedersi
accertato il riconoscimento di mansioni tali da rientrare nella categoria dei
quadri intermedi; sul tema verranno esaminate due recenti pronunce della
Suprema Corte. La sentenza 21431/2015 della Corte di Cassazione prevede che: “Nel
caso in esame, i giudici del merito, hanno operato il confronto tra le mansioni
accertate e quelle descritte come proprie dei quadri. La norma, di riferimento
è stata correttamente individuata nell’art. 66 del C.C.N.L. 1999 e anche
l’interpretazione offerta è rispettosa del dato letterale oltre che del
significato complessivo della clausola nel contesto delle altre.
Dalla lettura della disposizione, la Corte territoriale ha
desunto che il discrimine tra la qualifica impiegatizia – la cui
connotazione è data dallo svolgimento di attività caratterizzate da contributi
professionali operativi e o specialistici che richiedono applicazione
intellettuale eccedente la semplice diligenza di esecuzione, nonchè da una
delimitata autonomia funzionale nelle decisioni, di solito circoscritte da
direttive superiori o da prescrizioni normative, modalità o procedure definite
dall’azienda (art. 78 ccnl 1999) – e quella di quadro è dato dalla
“qualità professionale” della prestazione, la quale richiede per il
quadro (così il testo della norma) “mansioni che comportino elevate
responsabilità funzionali ed elevata preparazione professionale e/o particolari
specializzazioni e che abbiano maturato una significativa esperienza,
nell’ambito di strutture centrati e/o nella rete commerciale, ovvero elevate
responsabilità nella direzione, nel coordinamento e/o controllo di altri
lavoratori/lavoratrici appartenenti alla presente categoria e/o alla 3^ area
professionale, ivi comprese le responsabilità connesse di crescita
professionale e verifica dei risultati raggiunti dai predetti diretti
collaboratori”.
Nel caso in esame, l’espressione è chiara e coerente con
le altre disposizioni, nè tale chiarezza e coerenza appaiono scalfite dalle
tesi della ricorrente, giacché anche a voler sostenere che con l’uso di tale
verbo le parti abbiano voluto far riferimento alla “idoneità”, ovvero
alla “capacità” del quadro di esercitare poteri negoziali nei
confronti dei terzi, ciò non significa che tali poteri – che pur possono essere
attribuiti, come si desume dall’espressione “possono prevedere” –
siano imprescindibili per l’inquadramento del lavoratore nella qualifica in
esame. Inconferente è poi il richiamo alla L. n. 190 del 1985, art. 5 in
difetto di una necessaria consequenzialità logica tra il potere di firma e
l’obbligo del datore di lavoro di assicurare il quadro contro il rischio di
responsabilità civile verso terzi in caso di colpa nello svolgimento delle
proprie mansioni contrattuali, responsabilità che può evidentemente ipotizzarsi
anche con riferimento a mansioni che non implichino il potere di negoziare con
terzi (si pensi ad esempio, al parere espresso negligentemente nell’esercizio
dell’attività di consulenza, o nell’errato controllo di una parcella, ovvero
nella negligente escussione di una garanzia). Ne è conferma il fatto che la
norma citata prevede che “la stessa assicurazione deve essere stipulata
dal datore di lavoro in favore di tutti i propri dipendenti che, a causa del
tipo di mansioni svolte, sono particolarmente esposti al rischio di
responsabilità civile verso terzi”, e tanto è sufficiente ad escludere
l’inscindibile nesso prospettato dalla ricorrente tra poteri negoziali –
responsabilità civile – qualifica di quadro. Appare poi di scarsa chiarezza
l’ulteriore osservazione della ricorrente, secondo cui, a voler seguire la tesi
della Corte d’appello, non avrebbe avuto alcun senso escludere, sul piano
dell’attribuzione della qualifica di quadro, i poteri di firma di carattere
meramente certificativo o dichiarativo, come dispone l’ultimo inciso della
norma in esame. Anche qui, pur nella non limpida formulazione della norma
collettiva, il tenore letterale è chiaro e depone nel senso che – ferma la
facoltà della banca di riconoscere o meno al quadro il potere negoziale
verso terzi – esso non può comunque mai identificarsi nel potere di rilasciare
firme di carattere certificativo o dichiarativo, le quali pertanto non hanno
valore caratterizzante della qualifica”.[6]
La
recentissima sentenza 19770/2016, sempre in tema di riconoscimento di mansioni superiori
sollevato da un impiegato e quindi a contrario riguardante i requisiti per
rientrare nella categoria dei quadri intermedi, prevede che: “Secondo la
Corte torinese, previo esame delle declaratorie relative all’area 4^ per i
tecnici qualificati e alla ottava categoria per l’Area 5^ – quadri, doveva
escludersi che il G. esercitasse una qualche funzione di raccordo tra la
struttura dirigenziale ed il restante personale, funzione ritenuta
assolutamente tipica per la figura del quadro, avuto altresì riguardo alla L.
n. 190 del 1985, che aveva riconosciuto i quadri intermedi. Non
risultava, in particolare, che il ricorrente rivestisse nell’ambito aziendale
una posizione (organizzativa o funzionale), tale da porsi come
sostanziale intermediario tra i dirigenti di RTI ed il personale non quadro, e
da trovarsi, quindi, rispetto a questo, in posizione di sostanziale
sovraordinazione gerarchica. Tanto non emergeva né dalla prodotta ed
acquisita documentazione, né dall’istruttoria testimoniale. Correlativamente,
non risultava provato che nello svolgimento della sua attività il G.
coordinasse, vigilasse o gestisse risorse, contrariamente invece a quanto previsto
dalla declaratoria relativa al quadro di ottava categoria.
Quanto, poi, alla “facoltà di
rappresentanza”, non poteva accogliersi una nozione lata di tale
concetto, laddove diversamente opinando detta facoltà poteva essere
riconosciuta ad un qualunque dipendente della società che si trovasse, nello
svolgimento dei suoi compiti, a relazionarsi con terzi, mentre proprio la
declaratoria dl quadro di 8^ ctg. prevedeva la suddetta facoltà unicamente per
i quadri; inoltre, tale declaratoria specificava che lo svolgimento di tutte le
relative attività avveniva in un ambito di autonomia decisionale, sebbene nei
limiti delle direttive generali; ne derivava la possibilità di assumere
autonomamente decisioni idonee ad impegnare giuridicamente parte datoriale.
Quindi, se anche l’attività di rappresentanza dell’ente doveva svolgersi nel
suddetto ambito, ciò comportava che intanto poteva riconoscersi al G. il
superiore inquadramento in quanto fosse stato dimostrato che egli, nello
svolgimento della sua attività, avesse potuto assumere autonomamente decisioni
idonee ad impegnare la società. Ciò che non risultava in atti sufficientemente
provato, per le ragioni dettagliatamente Indicate dai giudici di appello, anche
con specifico riferimento ai documenti prodotti, il cui esame non consentiva di
riscontrare l’esercizio, quanto meno frequente da parte del G., di poteri
decisionali di un qualche apprezzabile rilievo, attestanti, in realtà, più che
un’autonomia decisionale, l’esercizio da parte dell’attore di autonomia e di controllo
operativo, elementi questi però espressamente previsti dalla declaratoria
relativamente al tecnico qualificato di area 4^.
Pertanto, evidenziando che i lavori seguiti dal G.
riguardavano principalmente la realizzazione di cabine di trasformazione, che
pur con le necessarie differenziazioni, obbedivano ad una certa
standardizzazione, la Corte di Appello non riteneva provato che l’attività
ordinariamente disimpegnata dal ricorrente possedesse i requisiti richiesti
dalla contrattazione collettiva per l’Area 5^ quadri, in ordine alla quale
occorreva anche una responsabilità diretta sui risultati dell’attività svolta.
D’altro canto, contrariamente alle affermazioni di parte
ricorrente, dopo aver riportato le declaratorie di riferimento, previste dal
c.c.n.l. 1990/92 (pg. 7 e 8), la sentenza impugnata aggiungeva che, come pure
osservato dal Tribunale, non era dissimile la descrizione dell’area 5^ quadri
dell’accordo di ridefinizione dei profili professionali del 26-7-1991 (v. doc.
5 G. e doc. 7 RFI) e del livello 8-quadri del successivo c.c.n.l. 16-04-2003
per il personale ferroviario (v. doc. 8 RFI). Pertanto, correttamente il
Tribunale aveva dunque individuato, partendo dalla definizione del quadro ex L.
n. 190 del 1985 , quali fossero i requisiti qualificanti di tale ruolo:
funzione di raccordo tra la struttura dirigenziale ed il restante personale,
facoltà di rappresentanza dell’azienda, sovrintendenza, coordinamento e
gestione elle risorse, elevato contenuto specialistico dell’attività, ambito di
autonomia decisionale per concorrere agli obiettivi fissati dalla società,
diretta responsabilità dei risultati.
In proposito, la sentenza de qua ha tra l’altro
evidenziato che era comunque il direttore dei lavori a firmare gli ordini di
servizio, essendo costui responsabile nei confronti dei terzi, mentre il
ricorrente, in caso di errori o di negligenze avrebbe dovuto risponderne al
direttore dei lavori. Sottolineavano, altresì, i giudici dell’appello che i
lavori seguiti dal G. (perito elettrotecnico) riguardavano principalmente la
realizzazione di cabine di trasformazione, che, come confermato dai testi, pur
con le necessarie differenziazioni, obbedivano ad una certa standardizzazione.
Pertanto, la Corte non riteneva provato che l’attività ordinariamente prestata
dall’appellante possedesse i requisiti richiesti dall’Area 5-quadri e che
esulasse, pertanto, da quella propria del tecnico di area 4^ e del profilo di
segretario tecnico superiore.[7]
Quelle citate sono solo alcune, tra le più
recenti, delle molteplici occasioni nelle quali la Suprema Corte è dovuta
intervenire in materia di riconoscimento di mansioni superiori che
comportassero il passaggio dalla categoria degli impiegati a quella dei quadri.
Parimenti, la labilità della
definizione di quadro introdotta dalla legge 190/1985 ha portato ad un fiorente
contenzioso instaurato da lavoratori appartenenti alla categoria dei quadri per
vedersi riconosciuto l’inquadramento nella superiore categoria dei dirigenti.
Anche con riguardo a tale prospettiva analizzeremo due sentenze, una di merito
ed una di legittimità, tra le più recenti.
La prima è una sentenza della Corte
d’Appello di Potenza, decisa in data 05.11.2015, che traccia una netta e chiara
distinzione tra quadro intermedio e dirigente, nei seguenti termini: “Il D.,
pacificamente inquadrato al massimo livello della categoria dei quadri
(Quadro Direttivo IV livello), ha chiesto il riconoscimento della qualifica
di dirigente a partire dal marzo del 1995, sostanzialmente per due
ragioni: a) per aver svolto l’incarico di segretario degli organismi collegiali
della banca (Consiglio di Amministrazione, Comitato Esecutivo ed Assemblea
dei soci), avendo la responsabilità dell’apposito ufficio di segreteria; b)
per essersi visto così assegnato un ruolo normalmente ricoperto, anche in altre
aziende di credito, dal Direttore generale o dall’Amministratore delegato.
Ritiene la Corte di formulare le seguenti specificazioni:
I) il livello di quadro riconosciuto al D. (dunque,
di appartenente al personale impiegatizio della fascia più elevata, formata da
lavoratori che, “pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti,
svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini
dello sviluppo e dell’attuazione degli obbiettivi di impresa”, secondo la
definizione della categoria di quadro data dall’ art. 2 co. 1 della L. n. 190
del 1985) appare del tutto congruo alle mansioni di segretario degli organi
collegiali bancari dall’appellante rivestito per circa un decennio. Tale ruolo,
se pur connotato da compiti di rilevante responsabilità -tra i quali la
tenuta dei rapporti con altre aziende di credito, enti istituzionali vari ed
autorità di vigilanza bancaria; la verbalizzazione delle sedute del C.d.A., del
Comitato Esecutivo e dell’Assemblea dei soci; la cura dell’esecuzione dei loro
deliberati; la custodia degli atti ufficiali degli organismi medesimi, et
similia-, appare sfornito di un vero e proprio potere gestorio, afferendo ad
una figura non preposta all’intera azienda o anche solo ad un ramo o ad un
servizio di particolare rilevanza in posizione di sostanziale autonomia
decisionale, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività
aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi, che, per
consolidata giurisprudenza di legittimità, costituisce l’ubi consistam del
dirigente, altrimenti definito anche alter ego dell’imprenditore cfr., da
ultimo, Cass. Sez. L., sent. n. 18165 del 16/9/2015: “La qualifica di
dirigente spetta soltanto al prestatore di lavoro che, come “alter
ego” dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera
organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e sia
investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di
iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure
nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di
imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda,
assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello (cd. dirigente
apicale); da questa figura si differenzia quella dell’impiegato con funzioni
direttive, che è preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e
che svolge la sua attività sotto il controllo dell’imprenditore o di un
dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente
limitazione di responsabilità (cd. pseudo-dirigente).
II) nessun rilievo può avere la circostanza che
normalmente, in altre aziende di credito, le medesime funzioni segretariali
fossero svolte da dirigenti apicali quali il Direttore generale o
l’Amministratore delegato, trattandosi, con ogni evidenza, soltanto di
incarichi aggiuntivi e secondari rispetto a quello principale gestori, come
s’è visto tipico e qualificante della figura del dirigente;
III) anche a voler seguire la tesi dell’appellante
circa la superiorità delle mansioni così svolte, il numero delle riunioni di
organi collegiali della propria banca da lui curate annualmente, quale indicato
negli scritti difensivi in una misura media pari ad una dozzina all’anno, non
consente affatto di ritenere provata la prevalenza quantitativa delle mansioni
medesime rispetto a quelle di semplice direzione di un servizio od un ufficio
(nel caso di specie, la segreteria della banca), tipiche del quadro”.[8]
La seconda, Cass. 7120/2016, dispone
che: “Il giudice di merito si era limitato ad affermare che le mansioni
di avvocato interno di Poste erano tecniche, anche se delicate complesse svolte
in autonomia con riguardo alle strategie difensive conciliativa delle cause e
con riguardo alla consulenza resa alle strutture aziendali. Di conseguenza, le
mansioni di avvocato interno rientravano appieno in quelle funzioni
caratterizzanti la categoria dei quadri.
Pertanto la D.M., riportato stralcio del proprio ricorso, laddove
tra l’altro era stata richiamata la procura generale alle liti, conferita con
atto del 28 aprile 1998, quindi rinnovata in data 13 aprile 99 e 13 febbraio
2001), assumeva che, in base a tutti gli elementi caratterizzanti la
qualifica dirigenziale contenuti nella declaratoria di contratto dirigenti
Poste, ex articolo uno 11 agosto 1994, erano intrinseci ed esplicitati
nell’attività di avvocato svolte da essa ricorrente: elevato grado di
professionalità, autonomia, potere decisionale, potere di rappresentanza,
potere di direzione. Un’attenta lettura sia degli atti di causa, che dei
contratti collettivi interessati avrebbe dovuto portare i giudici di merito a
ritenere che l’attività prestata non rientrava nel contratto collettivo
nazionale dipendenti (articolo 45), bensì nel C.C.N.L. dirigenti (art. 1),
avendo svolto ella mansioni e ruolo di alter ego dell’imprenditore
Si sarebbe trattato infatti di mansioni tecniche, anche
se delicate complesse svolte in autonomia con riguardo alle strategie difensive
conciliative delle cause dalla ricorrente trattate e con riguardo alla
consulenza resa alle strutture aziendali, mansioni che rientravano appieno, e
quindi ben sconvolgenti (ribadendo che lo sconvolgimento della natura della
categoria costituiva l’elemento rilevante), come sarebbe stato ad esempio se
ella avesse dettato le strategie di tutto il contenzioso dell’azienda, magari
anche per alcune materie soltanto in quelle funzioni di rilevante importanza ai
fini dello sviluppo dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa, che secondo l’articolo
due comma uno già caratterizzavano la categoria dei quadri, i requisiti di
appartenenza alla quale erano determinati in forza del secondo comma dello
stesso articolo della contrattazione collettiva nazionale e aziendale;
contrattazione che ripercorreva il disposto legislativo.
In proposito, la Corte territoriale altresì osservava
che nessun valore aveva quanto previsto dall’autonomia collettiva in altri
settori pubblici, posto che l’autonomia collettiva era tale anche nei
differenti modi di esercizio della medesima, i quali ovviamente scontavano
proprie valutazioni legate ai tempi di tale esercizio ai rapporti di forza tra
le parti alla specificità delle varie situazioni e così via. Del resto, non
a caso il già richiamato art. 2095, comma 2, laddove stabiliva che erano la
legge e le norme collettive a determinare i requisiti di appartenenza alle
categorie specifiche, aggiungeva anche che ciò doveva avvenire in relazione a
ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa.
Non rilevava solo e non tanto, infatti, che la
ricorrente dovesse riferire ai superiori, come pure riconosciuto dello
stesso atto di appello a pagina 12, quanto che la presenza di costoro, cui
appunto la ricorrente riferiva, ridimensionava la sua responsabilità pur nelle
operazioni compiute autonomamente. Ciò non significava dare valore
all’assetto astratto, in luogo della sua effettività, ma piuttosto sottolineava
il valore fondamentale della responsabilità nel qualificare una funzione. E
questo quando la categoria di quadro già comprendeva i dipendenti svolgenti
funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli
obiettivi dell’impresa, e quando all’attrice era stato riconosciuto il
primo livello dl tale categoria.
Parimenti (non
può essere accolta) può dirsi in relazione all’accennata disparità di
trattamento circa il diverso inquadramento riservato agli avvocati operanti
all’interno di aziende come Poste Italiane, rispetto a quelli dipendenti da
enti pubblici, attesa, appunto, la diversità delle rispettive contrattazioni
collettive di riferimento. Opportunamente, quindi, sul punto la sentenza ha
evidenziato che l’autonomia collettiva era tale anche nei differenti modi di
esercizio della medesima”.[9]
Nel
caso di specie dunque un quadro-avvocato chiedeva di essere inquadrato come
dirigente, in considerazione del rilievo che gli avvocati interni dell’ente operavano
in un contesto di alta responsabilità professionale, in maniera indipendente da
settori previsti in organico dall’ente medesimo, con esclusione di ogni
attività di gestione. Tuttavia, ad avviso dei giudici di merito, le mansioni
dell’avvocato interno all’ente erano considerabili “tecniche”, pertanto
riconducibili alle mansioni svolte dai quadri.
La
sentenza risulta interessante soprattutto perché la Cassazione, nel confermare
la decisione di merito, pone a fondamento del giudizio il rilievo per il quale
essendo chiara l’attività – patrocinio e consulenza legale – ed essendo la
stessa inquadrata dalla contrattazione collettiva nella categoria di quadri di
primo livello, ad un lavoratore risulta precluso il potere di agire
giudizialmente per ottenere il riconoscimento di un maggiore inquadramento, dal
momento che i requisiti di appartenenza ad una categoria o qualifica risultano
già esplicitati dal contratto collettivo applicabile. Se v’è dubbio sulla
categoria di appartenenza, allora ben venga l’azione giudiziale di
accertamento, se, invece, la categoria e le mansioni svolte sono già chiare o
comunque sono pacifiche, allora l’inquadramento non è contestabile e non è
tantomeno contestabile la congruità dei requisiti indicati dalla contrattazione
collettiva per accedere ad una determinata categoria.[10]
La
questione del mancato riconoscimento dei quadri nel pubblico impiego
Nel 2001, con il D.Lgs. n. 165, è
intervenuta la privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni.
Il personale impiegato alle
dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni viene diviso in due grandi
categorie: dirigenti e personale non dirigente. Alla dirigenza viene dedicato
l’intero Capo II del Titolo II, mentre al personale il Capo III del medesimo
Titolo II. Non viene dunque operato alcun riferimento concreto alla categoria
dei quadri.
Il problema dell’immediata e diretta riconoscibilità giudiziale della
categoria dei quadri si è posto, anche concretamente, solo in seguito al
richiamo alla disciplina sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa
operato dall’art. 2, comma 2,
del D.Lgs.
165/2001. Tale riconoscimento deve passare attraverso un giudizio
di compatibilità con l’ordinamento speciale disposto per le pubbliche
amministrazioni, a cominciare dalle stesse previsioni del D.Lgs. 165/2001.
Sul punto, a chiarimento, è
intervenuta la sentenza 14193/2005 della Corte di Cassazione, la cui massima
prevede che “Al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni dopo la cosiddetta privatizzazione non è applicabile la
disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore
privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 cod. civ. e legge
n. 190 del 1985), stante la specialità del regime giuridico previsto per il
primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti cosicché la
contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite
dell’inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato,
quale emerge dal complesso normativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, testo che ora
costituisce lo “statuto” di tale rapporto di lavoro, il quale –
dettando regole peculiari solo per i dirigenti e per i vicedirigenti –
attribuisce per il resto delega piena alla contrattazione collettiva, senza che
possa desumersi un obbligo di prevedere la categoria dei quadri dall’art. 40,
del suddetto testo, che rinvia ad eventuali distinte discipline dei contratti
collettivi per peculiari posizioni lavorative”.[11]
La Suprema Corte, al punto 6.2. della
sentenza, richiama l’art. 40 comma 2 del D.Lgs. 165/2001, che all’epoca dei
fatti di causa così disponeva: “Mediante appositi accordi tra l’ARAN e le
confederazioni rappresentative ai sensi dell’articolo 43, comma 4, sono
stabiliti i comparti della contrattazione collettiva nazionale riguardanti
settori omogenei o affini. I dirigenti costituiscono un’area contrattuale
autonoma relativamente a uno o più comparti. I professionisti degli enti
pubblici, già appartenenti alla X qualifica funzionale, ((…)) costituiscono,
senza alcun onere aggiuntivo di spesa a carico delle amministrazioni
interessate, unitamente alla dirigenza, in separata sezione, un’area
contrattuale autonoma, nel rispetto della distinzione di ruolo e funzioni.
Resta fermo per l’area contrattuale della dirigenza del ruolo sanitario quanto
previsto dall’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e
successive modifiche ed integrazioni. Agli accordi che definiscono i comparti o
le aree contrattuali si applicano le procedure di cui all’articolo 41, comma 6.
Per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono
compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi e per gli archeologi e
gli storici dell’arte aventi il requisito di cui all’articolo 1, comma 3, della
legge 7 luglio 1988, n. 254, nonché’ per gli archivisti di Stato, i
bibliotecari e gli esperti di cui all’articolo 2, comma 1, della medesima
legge, che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti tecnico
scientifici e di ricerca, sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei
contratti collettivi di comparto”.
Tale
disposizione, da un lato, equipara le figure professionali “che in
posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” a
quelle che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano
iscrizione ad albi oppure tecnico-scientifici e di ricerca” e dall’altro
impone per entrambe la regolamentazione nell’ambito della contrattazione
ordinaria di comparto, pur con discipline distinte. Il legislatore, soprattutto
attraverso il riferimento ai “compiti di direzione”, pare rivolgersi
proprio a coloro che compiono attività tecniche comportanti un elevato grado di
collaborazione con il datore di lavoro, senza effettiva partecipazione allo
svolgimento di funzioni dirigenziali propriamente intese.
L’
art. 40, comma 2, del D.Lgs. 165 del 2001, privo di efficacia descrittiva o
qualificatoria, intende riservare alla contrattazione collettiva la previsione
di un trattamento diversificato per alcune figure professionali. Incentrandosi
sul “trattamento”, cioè sull’elemento che definisce le stesse
categorie, la norma di fatto integra l’art. 2095 c.c., senza derogarlo.
Secondo
la Corte, la norma costituirebbe una “diversa disposizione contenuta nel
presente decreto” in funzione della quale per le amministrazioni pubbliche
sarebbe derogata la legge n. 190 del 1985.
Secondo
autorevole dottrina, l’art. 40 era tuttavia espressamente destinato alla
regolamentazione del sistema di contrattazione collettiva e pertanto non pare
idoneo alla individuazione o alla negazione di una categoria contrattuale.
Dunque la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 40, sarebbe una norma che
rafforza, anziché svilire, la necessità di definire negozialmente la categoria
dei quadri. Se ogni categoria, per definizione, è finalizzata al riconoscimento
di un trattamento economico e normativo diverso per i suoi appartenenti, l’art.
40 obbliga le parti a prevedere nei testi contrattuali una disciplina specifica
per le figure professionali dotate di particolare responsabilità che svolgono
compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure attività
tecnico scientifica o di ricerca. Figure, queste, che paiono coincidere
largamente con quella dei “prestatori di lavoro subordinato che, pur non
appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere
continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione
degli obiettivi dell’impresa” di cui all’ art. 2 della legge n. 190 del
1985. L’inclusione di tale disciplina specifica nell’ambito del contratto
collettivo per il personale non dirigenziale, d’altra parte, è cosa comune
anche ai quadri del settore privato.[12]
Nonostante
le critiche ricevute, la Cassazione ha ribadito l’orientamento espresso,
richiamando interamente il principio di diritto enunciato dalla sentenza
14193/2005 riguardo alla mancata riconoscibilità della legge 190/1985 nell’area
del pubblico impiego privatizzato nella successiva sentenza 6063/2008, che si
esprime nei seguenti termini: “Nonostante che un indirizzo dottrinario abbia
individuato nel disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, una
norma volta ad attestare la necessità dell’individuazione della categoria dei
quadri obbligando le parti negoziali a porre all’interno dei testi contrattuali
una disciplina specifica per le figure professionali coincidenti con quelle
individuate dalla L. n. 190 del 1985, art. 2 la chiara lettera di tale legge
e numerose ragioni di ordine logico-sistematico inducono ad escludere in
relazione al pubblico impiego privatizzato una diretta e completa trasposizione
– per effetto del già segnalato richiamo operato dalla D.Lgs. n. 165 del 2001,
art. 2, comma 2 – dell’art. 2095 c.c. e della disciplina normativa della
categoria (legale) dei quadri di cui alla L. n. 190 del 1985.
Ed invero, sul
versante sistematico è stato messo in luce come il rapporto di lavoro pubblico
sino all’anno 1993 ha perseguito proprie logiche basate su una normativa la cui
specialità era sotto molti versanti imposta dal perseguimento di interessi
della collettività, idonei a giustificare l’esonero dall’integrale osservanza
della normativa codicistica.
A tale considerazione va aggiunto il rilievo che una
lettura della L. n. 190 del 1985 ed una applicazione dei canoni ermeneutici ex
art. 12 preleggi attestano in maniera chiara – in ragione anche del linguaggio
adoperato (cfr., a titolo puramente esemplificativo, l’art. 2, comma 2 ed
in esso le parole “… contrattazione collettiva nazionale o
aziendale”) e del tempo e del contesto socio-economico in cui la normativa
è entrata in vigore – la volontà del legislatore di pervenire, attraverso
l’introduzione di una nuova categoria (quella, appunto, dei quadri) ad un
assetto delle relazioni industriali ed ad una contrattazione collettiva volta a
riconoscere un adeguato riscontro ed una equa valorizzazione delle mansioni di
lavoratori, capaci di incidere per la loro rilevanza sullo sviluppo e
l’attuazione dei fini delle imprese.
Sul versante giuridico ad ulteriore conforto della
soluzione patrocinata è stato anche sostenuto che la norma del D.Lgs., art.
40, comma 2, non può essere vista come una disposizione volta a costituire una
peculiare ed autonoma area di quadri, quale quella prevista per il settore
privata dalla citata L. n. 190, essendosi individuato in essa una
disposizione tendente a riservare alla contrattazione collettiva soltanto una
diversità di trattamento di alcune figure professionali, ed essendosi, in una
distinta prospettiva, messo pure in evidenza come il richiamo alle disposizioni
del capo 1^, titolo 2^, del libro 5^ del codice civile (e con esso al
disposto dell’art. 2095 c.c. ed alla categoria dei quadri), effettuato
dall’incipit del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2 sia reso inoperante
sia in ragione dell’espressione finale di detto incipit (“fatte salve le
disposizioni contenute nel presente decreto”) sia della strutturale
incompatibilità riscontrabile tra l’ordinamento speciale, disposto per le
pubbliche amministrazione, ed una applicazione della normativa di cui alla L.
n. 190 del 1985 in termini di inderogabilità tali da imporre alla
contrattazione collettiva pubblica di introdurre, sempre ed in ogni comparto,
una specifica disciplina per figure professionali coincidenti con quelle
individuate dalla stessa legge e che consenta – pur nell’assenza di un
esplicita indicazione della categoria dei quadri e di una sua specifica
disciplina contrattuale – di riconoscere al pubblico impiegato la
collocazione in detta categoria.
Le ragioni sinora esposte portano a condividere sia il
dictum di questa Corte, secondo cui nei rapporti di lavoro alle dipendenze di
amministrazioni pubbliche il diritto al riconoscimento della categoria di
quadro postula la previsione del contratto collettivo applicabile, sia l’ulteriore
statuizione secondo cui al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, dopo la cosiddetta privatizzazione, non è applicabile la
disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore
privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 cod. civ. e
L. n. 190 del 1985), stante la specialità del regime giuridico previsto per
il primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti cosicchè la
contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite
dell’inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato,
quale emerge dal complesso normativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, testo che ora
costituisce lo “statuto” di tale rapporto di lavoro, il quale –
dettando regole peculiari solo per i dirigenti e per i vice-dirigenti –
attribuisce per il resto delega piena alla contrattazione collettiva, senza che
possa desumersi un obbligo di prevedere la categoria dei quadri dall’art. 40,
del suddetto testo, che rinvia ad eventuali distinte discipline dei contratti
collettivi per peculiari posizioni lavorative (cfr. in tali sensi: Cass. 5
luglio 2005 n. 14193).[13]
In seguito la Cassazione è
nuovamente tornata sul tema, con la sentenza 5651/2009, la quale conferma nuovamente
il sopraesposto orientamento, rigettando la domanda del riconoscimento della
categoria dei quadri nel pubblico impiego privatizzato in applicazione del
seguente ragionamento: “La pretesa azionata è intesa al riconoscimento della
detta categoria, nell’assunto della corrispondenza delle mansioni a quelle
descritte della legge, legge che sarebbe direttamente applicabile al rapporto
controverso, ancorché non attuata dal contratto nazionale di lavoro del
comparto regioni-autonomie locali. In altri termini, all’inquadramento
previsto dal contratto, dovrebbe sostituirsi, in applicazione di previsione
inderogabile di legge, l’inserimento nella categoria dei quadri. La pretesa,
dunque, non ha ad oggetto un superiore inquadramento sulla base dello
svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica posseduta, sfuggendo
alla preclusione stabilita dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1,
secondo periodo.
E’, tuttavia, priva di fondamento perché l’art. 2095
c.c., non è applicabile al rapporto di lavoro pubblico contrattuale, come
disciplinato dal corpus normativo delle disposizioni raccolte nel menzionato
D.Lgs.
Rimane, perciò, assorbita la questione della portata –
precettiva o descrittiva – della sola definizione della categoria contenuta
nella L. n. 190 del 1985, art. 2, comma 1, in mancanza dell’intervento
attuativo della competente contrattazione collettiva…
Sono le norme ora raccolte nel D.Lgs. n. 165 del 2001,
a costituire lo “statuto” del lavoro contrattuale alle dipendenze
delle pubbliche amministrazione, nel quale si rinviene il corpus di regole
imperative non derogabili dal contratto collettivo, siccome si tratta proprio
della fonte di legittimazione dei poteri di autonomia. Sulla materia della
classificazione del personale, la legge detta regole del tutto peculiari
soltanto per la categoria dei dirigenti. Per il restante personale, la delega
alla contrattazione collettiva appare piena, come si desume dall’art. 52
(Disciplina delle mansioni), laddove, diversamente dall’art. 2103 c.c., compare
il riferimento esclusivo alla “classificazione professionale prevista dai
contratti collettivi”. 12. I connotati di autonomia del sistema emergono
ancora più evidenti in base ad altre disposizioni legislative.
Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, ultima
parte, dispone che “per le figure professionali che, in posizione di
elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano
iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca, sono stabilite
discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi comparto”. Sembra
evidente l’inconsistenza della tesi che legge la norma non come speciale
rispetto a quanto previsto per i rapporti privatistici dalla L. n. 190 del
1985, art. 2, comma 1, ma come “rafforzamento” dell’indicazione
contenuta nel comma 2 dello stesso art. 2, siccome nessun dato autorizza a
ritenere che alla contrattazione collettiva sia stato imposto l’obbligo di
contemplare una “categoria” distinta dal personale delle aree e dai
dirigenti.
Di fatto, la contrattazione collettiva ha dato, allo
stato, attuazione alla norma con la previsione delle c.d. “posizioni
organizzative”, rispondenti certo all’esigenza di creare ad un livello
inferiore a quello della dirigenza incarichi a termine e specificamente
retribuiti, per lo svolgimento di mansioni inerenti a posizioni di particolare
valore e contenuto gerarchico, ovvero professionale, ma sicuramente, stante il
carattere transitorio e revocabile di questi incarichi, esulanti dalla nozione
di “categoria di inquadramento”.
Una conferma definitiva dell’autonomia dei sistemi di
classificazione del settore pubblico è, infine, costituito dall’intervento
legislativo attuato con la L. 15 luglio 2002, n. 145, – “Disposizioni per
il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e
l’interazione tra pubblico e privato” – che ha introdotto nel D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 17 bis (art. 7, n. 3), con la previsione della figura
professionale del “vicedirigente”, demandando alla contrattazione
collettiva del comparto Ministeri l’istituzione di un’apposita area della
vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato con una
determinata anzianità e, in fase di prima applicazione, anche il personale non
laureato in possesso di determinati requisiti.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato perché il
sistema di classificazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, come
attuato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non contempla la
categoria dei quadri”.[14]
Sul punto la giurisprudenza è ormai
consolidata e non risultano essere intervenuti ulteriori tentativi di
riconoscimento della categoria dei quadri all’interno del pubblico impiego, i
quali come riportato dalla sentenza 5651/2009, paiono sostituiti dalla
previsione delle c.d. “posizioni organizzative”. Sul punto, neppure la Legge
Madia (124/2015) di Riforma della P.A. sembra intervenire;[15]
infatti, nel novero dei decreti attuativi vi è un decreto, attualmente
approvato in via definitiva ed in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, riguardante la disciplina della dirigenza della Repubblica, mentre non
è previsto alcun riconoscimento o riferimento alla categoria dei quadri.
Le
posizioni organizzative, pur coincidendo per numerosi aspetti con la figura del
quadro, si differenziano da tale categoria in virtù del carattere transitorio e
revocabile degli incarichi, mentre la qualifica di quadro, una volta ottenuta,
non è temporanea né può essere revocata. Peraltro, l’introduzione delle
posizioni organizzative (P.O.) ha comportato in seno alle pubbliche
amministrazioni più problemi che benefici, dal momento che l’attribuzione della
P.O. risulta appartenere più alla disciplina della retribuzione che a quella
dell’inquadramento, in quanto sono quasi sempre previste specifiche indennità
di funzione comportanti una retribuzione aggiuntiva, rimanendo al contempo
invariata la posizione classificatoria occupata dal dipendente a cui viene
attribuita la P.O.
Altro
possibile elemento di sostituzione della categoria dei quadri all’interno del
pubblico impiego risulta essere la vicedirigenza, istituita dalla legge
145/2002, che ha aggiunto l’art. 17-bis al D.Lgs. 165/2001, il quale nella sua
versione originaria così prevedeva: “1. La contrattazione collettiva del
comparto Ministeri disciplina l’istituzione di un’apposita area della
vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato appartenente alle
posizioni C2 e C3, che abbia maturato complessivamente cinque anni di anzianità
in dette posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente
ordinamento. In sede di prima applicazione la disposizione di cui al presente
comma si estende al personale non laureato che, in possesso degli altri
requisiti richiesti, sia risultato vincitore di procedure concorsuali per
l’accesso alla ex carriera direttiva anche speciale. I dirigenti possono
delegare ai vice dirigenti parte delle competenze di cui all’articolo 17.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica, ove
compatibile, al personale dipendente dalle altre amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, appartenente a posizioni equivalenti alle posizioni C2
e C3 del comparto Ministeri; l’equivalenza delle posizioni è definita con
decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze. Restano salve le competenze delle regioni e
degli enti locali secondo quanto stabilito dall’articolo 27”.
L’articolo, modificato una prima
volta dal D.L. 115/2005 convertito dalla legge 168/2005 e successivamente dalla
legge 15/2009, è stato infine abrogato nel 2012 dal D.L. 95/2012, convertito
dalla legge 135/2012. Inizialmente considerata come figura professionale assimilabile
a quella dei quadri nel lavoro privato[16]
nonostante il nome stesso indicasse una volontà del legislatore di non
assecondare una omologazione alla categoria dei quadri, tale istituto in realtà
non è mai stato attivato, poiché il movimento confederale si è rifiutato di
dargli cittadinanza nella contrattazione di comparto, nonostante la chiara
lettera della legge. Infatti, l’art. 17bis del D.Lgs. 165/2001 affidava alla contrattazione
collettiva del comparto Ministeri di disciplinare l’istituzione di un’apposita
area della vicedirigenza, ma nonostante i vari rinnovi del CCNL, la disciplina
afferente alla vicedirigenza non è mai stata approntata.
Ad apporre la parola fine alla
questione della vicedirigenza ci ha pensato la Corte Costituzionale, che con la
sentenza 214/2016 “dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’ art. 5, comma 13, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95
(Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1,
della L. 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97,
101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117,
primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo
addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi
ratificati e resi esecutivi con la L. 4 agosto 1955, n. 848 – dal Consiglio di
Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe”.[17]
In
conclusione, ad oggi, la vicedirigenza non è dunque più prevista
nell’organizzazione del lavoro pubblico.
La proposta di un contratto-tipo per i
quadri
La
categoria dei quadri presenta una serie di potenzialità ed opportunità non
ancora sfruttate.
Uno
dei principali ostacoli alla valorizzazione della categoria è sicuramente
costituito dalla difficoltà, pur in presenza della Legge 190/1985, di individuare
con chiarezza ed immediatezza le attribuzioni relative ai quadri.
Una
soluzione che possa dare nuovo slancio al dibattito in materia, per la verità
al momento non considerato come una priorità né dal legislatore né dalla
dottrina, potrebbe essere quella di valorizzare definitivamente la
contrattazione collettiva, in applicazione peraltro di quanto previsto dall’art.
2 comma 2 della legge 190/1985.
L’idea
di riflettere e di pervenire ad un contratto-tipo o perlomeno di riferimento
con riguardo alla categoria dei quadri permetterebbe inoltre di conciliare le
diverse posizioni sul tema della rilevanza e del rapporto tra contrattazione
collettiva aziendale e nazionale: il contratto-tipo fisserebbe i principi
fondamentali e basilari, mentre la contrattazione di secondo livello ben
potrebbe inserire clausole di maggior favore o prevedere specifici ed ulteriori
benefici per i lavoratori.
Peraltro
non bisogna dimenticare che in Italia la stragrande maggioranza dei datori di
lavoro è costituita da piccole e medie imprese, al cui interno il sindacato non
è nemmeno presente; anche in questo caso, la possibilità di avere come
riferimento un contratto-tipo chiaro e fruibile potrebbe incentivare la scelta
del datore di lavoro di affidarsi e farsi affiancare in alcuni aspetti della
gestione dell’impresa da parte di un quadro dotato delle necessarie competenze
professionali.
Ancora,
se adeguatamente incentivate, potrebbero rientrare nella categoria di quadro
anche figure quali il professionista o il ricercatore aziendale.
Ricapitolando,
la previsione di un contratto-tipo, di semplice ed immediata applicazione,
rilancerebbe la figura e la professionalità del quadro, individuandone con
precisione i contorni e valorizzando le enormi possibilità previste da una
definizione ampia quale quella prevista dall’art. 2 comma 1 della legge
190/1985.
Peraltro
la categoria dei quadri viene sempre più frequentemente utilizzata con il
corrispettivo termine inglese, “middle management”. Il predetto termine indica
uno degli aspetti più importanti per i quadri, ovvero stare nel mezzo e mediare
tra dirigenti e impiegati/operai, ovvero tra dimensione strategica e dimensione
operativa, apportando la propria prestazione in tale “terra di mezzo” con
competenze sia tecniche che manageriali. Devono dunque raccogliere esigenze e
richieste derivanti sia dai dirigenti che da impiegati/operai, pertanto sono
sempre maggiormente richieste grandi doti di relazione, comunicazione e spesso
devono essere anche bravi motivatori.
Una
interessante analisi sul middle management è stata svolta nel 2013 da Wyser,
che ha messo a confronto aspettative ed attese dei middle manager italiani con
quelle dei colleghi di Cina, India, Brasile, Serbia e Bulgaria.[18] In
particolare, dalla ricerca emerge che i middle manager italiani ed indiani si
considerano dei comunicatori, quelli brasiliani e serbi dei responsabili,
quello bulgaro si definisce un gestore delle diversità e quello cinese un
esecutore della visione strategica del “top manager”.
Inoltre,
dovrebbe essere dedicato apposito spazio al tema dei ricercatori all’interno
delle aziende private. Secondo Eurostat, i ricercatori sono “soprattutto
professionisti della creazione di nuova conoscenza, prodotti, processi, metodi
e sistemi, capaci di gestire a pieno i progetti in cui sono coinvolti come dei
veri e propri manager”. L’Italia è uno dei paesi con il minor numero di
ricercatori in area OCSE , quale
diretta conseguenza del fatto che la spesa delle imprese nei settori di ricerca
e sviluppo è ancora ben al di sotto (1,38% del PIL nel 2014) del target
dell’1,75% del PIL fissato dalla Commissione Europea per il 2020.[19] Del
tema se ne sta occupando anche l’associazione Adapt.[20]
Verranno
a questo punto esaminati i principali temi che dovrebbero essere inclusi nella disciplina.
All’ipotetico
art. 1, andrebbe indicata la definizione di quadro, il quale, oltre
all’esplicito e diretto riferimento all’art. 2 comma 1 della legge 190/1985,
potrebbe essere individuato come il lavoratore non dirigente collocato
nella categoria apicale e posto alle dirette dipendenze di un dirigente o
dell’imprenditore al quale siano ad ogni modo attribuiti compiti di rilevante
professionalità e responsabilità direttamente finalizzati al raggiungimento
degli obiettivi aziendali.
Andrebbero successivamente previste almeno
quattro categorie di quadro sulla base dell’esperienza e delle capacità
acquisite. Si potrebbero dunque individuare:
- un
quadro “junior”, ricomprendendo in tale figura i lavoratori neo-assunti o
comunque con meno di 10 anni di anzianità di ruolo;
- un
quadro “senior”, con almeno 10 anni di esperienza e quindi con un bagaglio di
conoscenze costruito nel tempo;
- un
quadro “super”, figura dotata di particolari nozioni di organizzazione e
gestione aziendali che soprattutto con riguardo alle medie-piccole imprese,
potrebbe sostituire la figura del dirigente, definizione che ricordiamo essere
esclusivamente contrattuale e giurisprudenziale. Va notato infatti che con
l’entrata in vigore del Jobs Act le tutele in caso di licenziamento per coloro
che siano stati assunti dal marzo 2015, si sono notevolmente abbassate, con la
conseguenza che il contratto a tutele crescenti applicabile ai quadri appare in
tal caso meno garantista della normativa posta a tutela dei dirigenti in caso
di risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò dovrebbe favorire l’interesse delle
aziende per creare figure di quadri apicali con compiti che ben potrebbero
sostituire quelli affidati ad un dirigente;
- un
quadro “professionista”, in cui rientrerebbero i professionisti per i quali è
richiesta l’iscrizione ad un albo;
- un
quadro “ricercatore”, per i ricercatori impegnati in particolari e rilevanti
progetti di ricerca e sviluppo all’interno dell’azienda.
Nell’ipotetico articolo 2, si
potrebbero definire i requisiti necessari per l’attribuzione della qualifica di
quadro, individuabili in:
- positivo
superamento di un periodo di prova, non inferiore a 6 mesi;
- ininterrotto
svolgimento delle mansioni di quadro per almeno 6 mesi ininterrotti, eccettuato
il caso di sostituzione di altro lavoratore in servizio.
All’art.
3 andrebbe preso in considerazione il trattamento retributivo previsto per
i quadri. Oltre alla parte fissa, dovrebbe essere fornito specifico rilievo ed
importanza alla parte variabile della retribuzione, mediante un sistema di
indennità e di premi di risultato, soprattutto con riguardo ai professionisti
ed ai ricercatori, con uno schema riassumibile nei seguenti termini:
- Retribuzione
base, ovvero un corrispettivo mensile ispirato ai minimi tabellari di ciascun
settore produttivo. Peraltro, andrebbero individuate almeno 3 fasce retributive
per ogni qualifica di quelle da indicare nell’ipotetico art. 1 del contratto,
all’interno delle quali individuare delle progressioni economiche orizzontali,
creando così dei sistemi retributivi basati sulla professionalità, istituendo a
fronte di ciò, un processo valutativo, trasparente e soggetto a periodica
verifica, mediante l’individuazione degli obiettivi cui dare un peso e
contestualmente creando dei parametri per valutare condotta e prestazione;
- Indennità
di vario tipo e titolo, articolate a seconda delle specificità del settore
lavorativo e del CCNL di categoria. Potrebbe essere ad ogni modo prevista una
generale indennità di funzione per remunerare le particolari caratteristiche
tecniche e professionali possedute dal lavoratore;
- Premi,
previsti al raggiungimento di determinati obiettivi, articolati sia come
obiettivi di produttività aziendale che come obiettivi prefissi annualmente per
il lavoratore. Per i ricercatori andrebbero indicati nello specifico dei premi
di risultato individuali, divisi in tre fasce in ordine crescente a seconda dei
risultati ottenuti anche non su base annuale ma con riguardo alla durata
indicata o necessitata dal progetto. Per coinvolgere e responsabilizzare il
ricercatore, lo stesso prima di intraprendere l’attività potrebbe compilare un
documento contenente quanto si aspetta di conseguire col progetto di ricerca ed
anche sulla base di quanto indicato andrebbe poi parametrato il risultato che
l’azienda si aspetta che il lavoro raggiunga;
- Fringe
benefits, accordati in ragione di determinate modalità di svolgimento della
prestazione, ad esempio vettura aziendale per trasferte, telefono cellulare e
personal computer aziendale peraltro utilizzabili quali strumenti di lavoro;
- Partecipazioni
azionarie, per collegare maggiormente i quadri con l’andamento ed i risultati
dell’azienda, permettendo loro inoltre una partecipazione attiva alla
governance dell’impresa. Nello specifico, le modalità potrebbero essere due,
secondo modelli già utilizzati da alcune grandi realtà europee: il primo
modello prevede il semplice conferimento gratuito di un determinato numero di
azioni scelto dall’azienda al quadro, il secondo invece prevede la possibilità
per il quadro di scegliere un numero di azioni da comprare e il corrispettivo
obbligo per l’azienda di conferire altrettante azioni al quadro;
- Retribuzione
“formativa”, ovvero destinare parte del budget aziendale a finanziare attività
di formazione e ricerca dei lavoratori: sostenere ad esempio spese di viaggio,
partecipazione a convegni o incontri formativi, contributi a pubblicazioni a
nome dei lavoratori. Tale retribuzione andrebbe personalizzata per andare
maggiormente incontro alle esigenze soprattutto di professionisti e
ricercatori.
Il successivo art. 4 sarebbe
dedicato alla formazione dei quadri. La formazione dev’essere considerata non
solo quale strumento di crescita nel rapporto contrattuale ma anche al fine di
garantire un costante aggiornamento ed una maggiore capacità di pronta reazione
alle sfide della globalizzazione e per fronteggiare al meglio i periodi di
crisi aziendale o di settore. Dunque, con riferimento anche al precedente art.
3, potrebbero essere previsti dei corsi di aggiornamento e formazione a cadenza
semestrale o annuale per i quadri, il cui costo verrebbe interamente coperto
dall’azienda nel caso di interesse diretto ed attuale della stessa, oppure solo
parzialmente quando il corso di formazione al quale il lavoratore andrebbe a
partecipare risulti maggiormente legato a temi di interesse professionale e
personale del lavoratore. Tre dunque
sarebbero gli aspetti da considerare:
- Percorsi
di formazione personali utili ed inerenti o collegati alla posizione lavorativa
attuale o da ricoprire al termine del percorso formativo per il quadro, da
svolgersi a scelta del lavoratore in orario extra lavorativo oppure nell’ambito
dell’orario di lavoro mediante un apposito sistema di permessi, contemplando
altresì l’opportunità di una sospensione sabbatica del rapporto. Questa
formazione sarebbe coperta solo in una determinata percentuale dal datore di
lavoro, comunque mai inferiore al 50%;
- Percorsi
di formazione aziendale, intesa come formazione utile e necessaria al percorso
lavorativa, voluta dall’azienda, da svolgersi in orario di lavoro e interamente
svolta a spese del datore di lavoro;
- Percorsi
formativi di tutela, da attivarsi nei momenti di rischio per l’occupazione o in
casi di comprovata obsolescenza della professionalità, al termine dei quali il
quadro potrebbe mutare parzialmente le proprie mansioni per reinventarsi e
trovare impiego all’interno di un altro settore aziendale.
Di conseguenza, si potrebbero studiare e
costituire appositi enti o società di formazione, a cui verrebbe inoltre
affidato il compito di certificare le competenze raggiunte ed ottenute.
Addirittura potrebbe essere previsto un sistema nazionale, con un funzionamento
simile a quello di una banca dati, all’interno del quale verrebbero inseriti i
nominativi dei singoli quadri, con allegato il relativo Curriculum Vitae certificato
dall’ente. In tal modo si costituirebbe, all’interno della piattaforma, uno
spazio in cui domanda ed offerta di lavoro si potrebbero incontrare con estrema
rapidità, dal momento che basterebbe inserire una aggiornata sezione dedicata a
ricerca/offerta di lavoro.
In tema di formazione dei quadri potrebbe
essere utilizzato come spunto quanto previsto dal CCNL Commercio in tema:
“Al fine di valorizzare l’apporto dei Quadri
e il loro sviluppo professionale e per mantenere nel tempo la loro partecipazione
ai processi produttivi e gestionali, le parti convengono sull’opportunità di
favorire la realizzazione di adeguati investimenti formativi, anche attraverso
l’attivazione di progetti collegati ai programmi europei con particolare
riferimento al dialogo sociale.
Analogo
impegno viene assunto per quanto concerne i sistemi di comunicazione, al fine
di trasferire a tali figure professionali tutte le conoscenze relative
all’impresa.
Quanto
sopra indicato verrà realizzato in coerenza con gli impegni assunti nel
presente contratto e favorendo la parità di sviluppo professionale del
personale femminile nell’impresa.
A
tal fine le parti individuano in QUADRIFOR, Istituto per lo sviluppo della
formazione dei quadri del terziario, l’ente cui le imprese faranno riferimento
per offrire ai Quadri opportunità di formazione nell’ambito delle finalità di
cui al primo comma.
Il
contributo obbligatorio annuo a favore di QUADRIFOR è pari a euro 75,00
(settantacinque/00), di cui euro 50,00 (cinquanta/00) a carico azienda e euro
25,00 (venticinque/00) a carico del lavoratore appartenente alla categoria dei
Quadri”.
L’art. 5 avrebbe come contenuto la
disciplina dell’apprendistato. In effetti, la mutata disciplina dell’istituto a
seguito del D.Lgs. 81/2015 permetterebbe di prevedere l’ingresso nella
categoria, con riferimento nello specifico alla figura del quadro “junior”, mediante
un percorso di apprendistato; effettivamente, possono essere assunti con
contratto di apprendistato professionalizzante oppure di alta formazione e
ricerca i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Il limite dei 29 anni
e 364 giorni si applica esclusivamente al momento dell’assunzione, dunque non
rileva che al termine del contratto il lavoratore superi il limite dei 30 anni.
Non vanno dimenticati gli incentivi
previsti per i datori di lavoro che assumono apprendisti, sostanzialmente
confermati in toto dal D.Lgs. 81/2015, costituiti da agevolazioni contributive,
non computabilità degli apprendisti nel numero di lavoratori impiegati
all’interno dell’azienda, minore trattamento economico da erogare.
Va tenuto presente che già esiste apposito
accordo tra Confapi e Federmanager sui contratti di Alta Formazione e Ricerca
per Quadri superiori delle PMI, che pertanto potrebbe essere utilizzato come
ispirazione per la costituenda disciplina.
La riflessione sottesa all’art. 6,
dedicato all’orario di lavoro, deve necessariamente cominciare con riferimento
alla sottrazione della categoria dei quadri, esattamente come per i dirigenti,
dai limiti in tema di orario di lavoro, con la conseguente privazione del
pagamento dello straordinario svolto che non risulta però adeguatamente
bilanciata da una rilevante libertà di poter gestire in autonomia e secondo le
esigenze del lavoratore l’orario di lavoro. Dando seguito alle dichiarazioni
del dicembre 2015 rilasciate all’Università LUISS dal Ministro Poletti in
materia di orario di lavoro, ovvero la considerazione della misurazione
ora-lavoro come uno strumento vecchio e che in qualche maniera ponesse degli
ostacoli rispetto agli elementi di innovazione, sottolineando la necessità di
una partecipazione attiva e responsabile del lavoratore alla propria attività
di lavoro[21],
il problema potrebbe trovare adeguata soluzione nel disegno di legge 2233/2016,
recentemente approvato dal Senato[22], intitolato “Misure per la tutela del lavoro autonomo
non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei
tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, che in particolare introduce il
concetto di smart working o “lavoro agile”[23], in base al quale l’attività
lavorativa andrebbe svolta in parte all’interno dei locali aziendali e in parte
all’esterno, senza una postazione fissa di lavoro, con regolamentazione
affidata all’accordo tra le parti, nel rispetto dei limiti di durata massima
dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge o dalla
contrattazione collettiva.
La categoria dei quadri, per quanto
abbiamo appena visto, rappresenta la “palestra” ideale per sperimentare il
lavoro agile, consentendo, ai quadri che ne esprimono la volontà, di poter
lavorare presso la sede dell’azienda per un periodo limitato della giornata e
di gestire liberamente la prestazione nei luoghi e nei tempi preferiti,
rimanendo, nel rispetto al diritto alla disconnessione[24], comunque rintracciabili
per alcune fasce orarie, magari proprio tramite cellulare aziendale fornito
come fringe benefit.
Peraltro, nel settore alimentare, è già
intervenuta una regolamentazione sperimentale in merito, di seguito trascritta:
“Il lavoro
agile” consiste in una prestazione di lavoro subordinato che si svolge al
di fuori dei locali aziendali attraverso il supporto di strumenti telematici, senza
l’obbligo di utilizzare una postazione fissa durante il periodo di lavoro
svolto fuori dall’azienda, pur nel rispetto tassativo della idoneità del luogo
quanto agli aspetti relativi alla sicurezza e alla riservatezza dei dati
trattati.
Il dipendente assolverà
alle proprie mansioni con diligenza, attenendosi all’osservanza delle norme
legali e contrattuali (nazionali e aziendali), ed alle istruzioni ricevute
dall’impresa per l’esecuzione del lavoro, adottando ogni prescritta e/o
necessaria cautela al fine di assicurare l’assoluta segretezza delle
informazioni aziendali.
Resta inteso che il
lavoro agile sarà attuato su base volontaria. Le parti a livello aziendale
potranno definire eventuali criteri che determinino condizioni di priorità di
accesso al lavoro agile.
La valutazione circa la
sussistenza delle condizioni necessarie per la concessione del lavoro agile è
di esclusiva competenza del datore di lavoro. Il lavoro agile può essere
concesso anche a tempo determinato e/o parziale con modalità definite tenendo
in considerazione i dovuti parametri di efficienza.
L’esecuzione
dell’attività lavorativa al di fuori dei locali aziendali avrà una durata
stabilita tra le Parti.
L’azienda è responsabile
della fornitura e della manutenzione degli strumenti informatici e/o telematici
eventualmente utilizzati dal lavoratore per lo svolgimento della prestazione
lavorativa in regime di “lavoro agile” se non diversamente pattuito
nell’apposito accordo attuativo.
La prestazione
dell’attività lavorativa in “lavoro agile” non incide
sull’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, sulla
connotazione giuridica del rapporto subordinato e non comporta nessuna modifica
della sede di lavoro ai fini legali né ha alcun effetto sull’inquadramento, sul
livello retributivo e sulle possibilità di crescita professionale, ai sensi del
presente C.C.N.L.
Il dipendente in regime
di “lavoro agile” conserva integralmente i diritti sindacali
esistenti e potrà partecipare all’attività sindacale che si svolge
nell’impresa.
Nel caso di disposizioni
di legge o di accordi interconfederali, inerenti il “lavoro agile”,
le parti si incontreranno per verificare la compatibilità e coerenza del
presente accordo con le stesse eventualmente procedere con le necessarie
armonizzazioni.
Sono fatti salvi gli
accordi integrativi di secondo livello, già sottoscritti anteriormente alla
data di entrata in vigore del presente accordo di rinnovo.
Le parti si impegnano a
effettuare interventi congiunti per contribuire all’implementazione delle
normative afferenti la materia”.
La Barilla, una delle prime aziende ad
applicare il lavoro agile (già dal 2013), ha ad oggi oltre 1000 lavoratori coinvolti
nello smart-working ed ha progressivamente aumentato le giornate in cui è
prevista la possibilità di utilizzazione del lavoro agile fino alle attuali 8
di lavoro flessibile al mese.
Il lavoro agile, le cui modalità di
attuazione andrebbero di volta in volta concordate tra azienda e lavoratore nel
rispetto degli interessi di entrambi, risulta sicuramente incentivato e reso
possibile dalle nuove tecnologie, le cui opportunità verrebbero adeguatamente
sfruttate, fornendo ai quadri, come abbiamo visto sopra, i necessari fringe
benefits.
La regolamentazione del lavoro agile
permetterebbe inoltre a professionisti e ricercatori di gestire il proprio
tempo con maggiore autonomia, evitando di perdere interessanti occasioni di
formazione o divulgazione quali partecipazione a incontri di studio,
formazione, pubblicazioni ed altre iniziative.
Ancora, la possibilità di gestire in
maniera autonoma il proprio tempo andrebbe a sicuro vantaggio dei giovani, che
potrebbero in tal modo meglio affrontare le difficoltà e le sfide derivanti dal
formare una famiglia o dal dover gestire figli piccoli. Al contempo, permettere
ai meno giovani di non dover passare l’intera giornata lavorativa all’interno
dell’ufficio o della sede aziendale, potrebbe permettere a questi ultimi una
decisa diminuzione dello stress derivante dagli spostamenti e della presenza
fissa e continuativa nel tempo presso la sede o l’ufficio.
L’art. 7 risulterebbe dedicato ai
temi della mobilità e dei trasferimenti. Oltre a richiamare espressamente le
“comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per il trasferimento
del quadro in unità produttive di diverso comune si dovrebbe operare altresì un
espresso riferimento alle condizioni personali e familiari del quadro, che
spesso costituiscono fonte di problemi e di difficoltà; ancora, dovrebbe essere
data priorità in caso di trasferimento ai quadri più giovani o comunque a
coloro che non si opporrebbero all’eventualità del trasferimento. Dunque,
l’eventuale trasferimento andrebbe comunicato con un preavviso variabile ma
sicuramente non inferiore, salvo particolari ragioni d’urgenza, a 60 giorni.
Andrebbe altresì previsto per il quadro trasferito, qualora lo spostamento
comporti il trasferimento in altra città o comunque il cambio di residenza, un
rimborso delle spese per il trasferimento proprio e dell’eventuale famiglia,
con un tetto massimo non inferiore a 10.000 euro, oltre ad eventuali incentivi
ed all’assistenza al lavoratore nella ricerca di un’abitazione ed un contributo
per un eventuale contratto di locazione.
Per converso, dovrebbe essere incentivata
la mobilità dei quadri, mediante la previsione della possibilità di collocarsi
in aspettativa, sia retribuita che non retribuita, per periodi di tempo anche
considerevoli. Un tanto permetterebbe al quadro di intraprendere rilevanti
percorsi professionali che arricchirebbero il bagaglio esperienziale e
cognitivo senza pesare sull’azienda. Con specifico riferimento ai quadri
professionisti o ricercatori, sempre nel rispetto delle esigenze aziendali,
potrebbe essere prevista la possibilità di sospendere il rapporto di lavoro per
esercitare attività libero-professionali, con il limite della non concorrenza e
del rispetto di eventuali incompatibilità con l’attività aziendale. Un tanto
incentiverebbe soprattutto i più giovani liberi professionisti e ricercatori ad
“entrare” nelle aziende, in quanto sarebbe loro permesso di avere una sicurezza
economica tale da permettere di pianificare la propria vita, salvo lasciare
loro aperte le porte per svolgere in un secondo momento attività libero
professionale. Ovviamente il vantaggio dell’azienda, al termine della
sospensione del rapporto di lavoro, sarebbe quello di riaccogliere un
professionista o ricercatore più “completo” a costo zero.
All’art. 8 troverebbe collocazione
la questione della responsabilità e dell’assicurazione per i quadri. Sarebbe da
istituire una apposita polizza assicurativa per il quadro, che copra il
lavoratore per ogni ipotesi di responsabilità civile verso terzi conseguente a
colpa nello svolgimento delle proprie funzioni. Ancora, andrebbe istituita
ulteriore apposita polizza assicurativa, interamente a carico del datore di
lavoro per un certo massimale, integrabile ed innalzabile però mediante
versamento della differenza a carico del lavoratore, per la copertura delle
spese e per l’assistenza legale in caso di procedimenti civili relative a fatti
connessi con l’esercizio delle funzioni svolte.
L’art. 9 si riferirebbe al tema
delle invenzioni del quadro ed andrebbe a tutelare il caso di invenzioni o
innovazioni professionali attribuibili al quadro. Fatte salve le norme generali
che concernono l’intero personale dipendente in tema di brevetti e diritto
d’autore, in applicazione di quanto previsto dall’art. 4 della legge 190/1985 “i contratti collettivi possono definire le
modalità tecniche di valutazione e l’entità del corrispettivo economico della
utilizzazione (…) delle invenzioni fatte dai quadri, nei casi in cui le
predette innovazioni o invenzioni non costituiscano oggetto della prestazione
di lavoro dedotta in contratto”, andrebbe espressamente previsto un equo
premio (art. 64 D.Lgs. 30/2005 “Codice della Proprietà Industriale”) rafforzato.
L’equo premio è quella somma di denaro riconosciuta al lavoratore-inventore qualora
il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino
l’invenzione in regime di segretezza industriale. Ebbene per i quadri tale
premio dovrebbe essere indicato direttamente e consistere in una somma di
denaro rilevante.
In ragione di quanto sopra considerato
appare inoltre necessaria la possibilità che mediante specifica autorizzazione
aziendale il quadro ma soprattutto i professionisti ed i ricercatori possano
pubblicare articoli e contributi a proprio nome su riviste scientifiche,
partecipare alla stesura di libri e manuali e svolgere relazioni in ordine a
ricerche e lavori afferenti nello specifico l’attività e le esperienze maturate
nel corso della prestazione lavorativa svolta in azienda.
Ancora, dovrebbero essere istituiti degli appositi
permessi per fornire a quadri, professionisti e ricercatori la possibilità di
svolgere interventi a convegni ed incontri di studio; in tal modo il quadro
avrebbe la possibilità di confrontare ed ampliare la propria professionalità,
mentre in cambio l’azienda otterrebbe la pubblicità gratuita derivante dalla
diffusione nel nome.
Specificamente riferito ai ricercatori
sarebbe l’art. 10. Rispetto a tale categoria andrebbero previste delle
specifiche e personalizzate possibilità di rendere la prestazione lavorativa
che si aggiungano a quanto già indicato in ragione della particolarità della
categoria
In particolare, andrebbero instaurate
delle relazioni e dei contatti privilegiati con le Università, le Pubbliche
Amministrazioni e l’estero.
Con riguardo alle Università, oltre alla
già prevista possibilità di permettere agli studenti maggiormente meritevoli di
svolgere stage o tirocini formativi in azienda anche prima della laurea, in
maniera da individuare e valutare i profili dei migliori candidati per
ricoprire la posizione di quadro, andrebbero stabilite delle specifiche
condizioni per permettere ai dottorandi di ricerca o ai ricercatori
universitari di lavorare anche all’interno delle aziende, in maniera da
concentrare il momento formativo all’interno dell’Accademia mentre quello più
operativo in azienda. A beneficiare di tale situazione sarebbero tutte le parti
coinvolte: il ricercatore potrebbe confrontarsi contemporaneamente con due
realtà diverse, senza privilegiare l’aspetto teorico rispetto a quello pratico
o viceversa, l’azienda avrebbe a disposizione un ricercatore per il quale
andrebbe ad investire di meno nella formazione e di cui potrebbe valutare le
capacità mentre l’Università avrebbe un maggior numero di candidati ad
iscriversi ai dottorati in quanto sarebbero le stesse aziende a sovvenzionare apposite
borse di studio per il periodo di svolgimento del dottorato di ricerca o dello
specifico progetto di ricerca.
Con le Pubbliche Amministrazioni si
potrebbero raggiungere degli specifici accordi per garantire la mobilità del
professionista e del ricercatore o comunque la possibilità di collaborare sia
con l’azienda sia con le P.A., con obbligo di comunicazione ed astensione in
capo al lavoratore in caso di conflitto d’interessi e comunque sempre previa
valutazione positiva congiunta della P.A. e dell’azienda.
Nei rapporti con l’estero, andrebbero
stipulate apposite convenzioni di ricerca con appositi e dedicati benefici per accogliere
ricercatori provenienti sia dall’Unione Europea sia da paesi extracomunitari.
In tal senso andrebbe garantito ai ricercatori provenienti dall’estero
l’espletamento di tutte le pratiche relative alle procedure di ingresso e di
ricerca di una residenza, con riguardo soprattutto all’iter burocratico
necessario per i lavoratori extracomunitari. Per i ricercatori stranieri e per
le loro famiglie andrebbero inoltre offerti in un pacchetto “accoglienza” anche
corsi di lingua italiana al fine di permetter loro di stabilirsi ed integrarsi
al meglio sul territorio italiano. Ancora, andrebbe garantita l’assistenza
fiscale necessaria al ricercatore ed alla sua famiglia.
Enorme rilevanza sarebbe affidata all’art.
11, che andrebbe a riguardare la soluzione delle eventuali controversie insorte
nel corso del rapporto di lavoro.
In considerazione delle alterne vicende e
fortune relative all’istituto del tentativo di conciliazione, la cui
obbligatorietà è peraltro venuta meno col c.d. Collegato Lavoro del 2010, per
evitare un contenzioso giudiziale la soluzione maggiormente percorribile
risulta essere quella dell’arbitrato.
Nello specifico, l’art. 31 della legge
183/2010 sostituisce tra gli altri l’art. 412 del c.p.c., che nella nuova
versione prevede la possibilità di una risoluzione arbitrale delle controversie
insorte tra lavoratore e datore di lavoro.
Si tratterebbe quindi di istituire un
apposito collegio arbitrale, costituito da un numero minimo di tre arbitri,
incrementabile in caso di particolare difficoltà della materia del contendere.
Un arbitro andrebbe designato dal lavoratore, uno dal datore di lavoro ed il
terzo scelto di comune accordo o indicato a sorte all’interno di un apposito
elenco di professori di diritto del lavoro o avvocati specializzati nella
materia. Il numero degli arbitri dev’essere sempre e comunque indicato in un
numero dispari e la componente tecnica del collegio deve attestarsi in ogni
caso in una percentuale pari al 33% dei componenti dello stesso.
Si potrebbe prendere come riferimento
anche la disciplina introdotta dal D.Lgs. 28/2010 in materia di mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Inoltre, risulta possibile istituire
apposite camere arbitrali per i quadri, costituite da quelli che sono gli
organi di certificazione sulla base all’articolo 31, comma 12 della legge
183/2010. In effetti, il D.Lgs. n. 276 del 2003 colloca gli enti bilaterali nel
novero dei soggetti abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro. La
legge individua a tal fine le commissioni istituite presso gli enti bilaterali
(art. 76 D.Lgs. n. 276 del 2003).
Si definiscono enti bilaterali ex art. 2
lettera h) del Decreto Legislativo 10 settembre 2003 n. 276 gli “organismi costituiti a iniziativa di una o
più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del
lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità,
l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la
programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di
attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone
pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più
svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e
l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di
regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e
la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla
legge o dai contratti collettivi di riferimento”.
Potrebbe dunque essere istituito un ente
bilaterale a competenza nazionale nel cui ambito creare una apposita camera
arbitrale altamente specializzata e dedicata esclusivamente alla risoluzione
delle controversie legate ai quadri.
Il predetto ente bilaterale a competenza
nazionale avrebbe inoltre il compito di certificare le competenze conseguite
dal quadro come previste dalla bozza del precedente art. 4.
L’arbitrato può essere sia irrituale che
rituale. Nel nostro caso si tratterebbe di arbitrato irrituale, espressamente
disciplinato dal codice di rito agli artt. 412-ter e seguenti. Dal momento che
nel caso dell’arbitrato irrituale la possibilità per le parti di sottoporre ad
arbitri la lite è possibile purché tale facoltà sia prevista da un contratto o
accordo collettivo, la clausola compromissoria contenente la convenzione
d’arbitrato troverebbe spazio all’interno dell’articolo contrattuale in esame.
L’art. 12 verrebbe dedicato al tema
della conciliazione vita-lavoro, alla tutela del lavoro femminile ed a quella
dei lavoratori over-50.
In tema di conciliazione vita-lavoro, il
punto di partenza dev’essere individuato nel D.Lgs. 80/2015, dedicato appunto
alle “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”.
In primo luogo va dunque confermato l’impianto del D.Lgs., aggiungendo tuttavia
ulteriori possibilità di scelta e permessi oltre ad una ancora più spiccata
personalizzazione delle tutele. Ancora, potrebbe essere istituito apposito
fondo aziendale, che si affianchi a quello previsto dall’art. 25 del D.Lgs.
80/2015, dedicato alla destinazione di risorse aziendali alle misure di
conciliazione tra vita professionale e vita privata, per semplificare il più
possibile la vita ai lavoratori, in maniera che si possano concentrare
esclusivamente sul lavoro senza dover contemporaneamente portare in azienda
problemi privati. Da ultimo, andrebbero previsti, sulla base di modelli già
funzionanti in Europa e comunque con riguardo alle aziende di maggiori
dimensioni, asili aziendali ed aspetti ricreativi endo-aziendali, quali
palestre e strutture sportive dedicate, all’interno delle quali peraltro si
potrebbero maggiormente sviluppare e consolidare i rapporti umani tra
lavoratori.
Con riguardo alla tutela del lavoro
femminile, fatto salvo anche in questo caso l’intero impianto normativo del
D.Lgs. 80/2015, potrebbero essere previsti degli incentivi in ingresso per le
lavoratrici madri con figli minori non autosufficienti o comunque in difficoltà
in quanto al di sotto di determinate soglie reddituali. Peraltro, con riguardo
alla tutela del lavoro femminile, risulta fondamentale l’accordo individuale
tra lavoratrice e datore di lavoro su eventuali diverse modalità di fruizione
di permessi o congedi, da articolare con specifico riferimento alle esigenze di
ciascuna lavoratrice.
Rispetto alla tutela dei lavoratori
over-50, vanno previsti dei meccanismi di maggior tutela per la fascia d’età
che parte dai 50 anni. Un tanto in quanto superata la soglia dei 50 anni
diventa sempre più difficile rimanere al passo con la tecnologia e reinventarsi
in funzione delle esigenze di un mercato del lavoro che si è più volte
modificato dal momento dell’ingresso del lavoratore over-50. In effetti, se per
i giovani l’esperienza di un licenziamento o di un trasferimento ha un’incidenza
significativa, l’età permette di essere maggiormente reattivi ampliando le
proprie conoscenze oppure cominciando un percorso di vita anche a molti
chilometri da casa. La fascia 30-50 è invece la fascia maggiormente protetta,
non in quanto siano previste maggiori tutele ma in considerazione del fatto che
l’offerta di lavoro per la predetta fascia è decisamente maggiore rispetto a
quella per i giovani o per gli ultra cinquantenni, in quanto rappresenta quel
giusto mix di gioventù ed esperienza che risulta maggiormente ricercato da
parte delle aziende.
Pertanto, potrebbe essere studiata una
figura di quadro-tutor, che all’interno dell’azienda svolga non compiti
operativi ma invece attività di docenza, formazione, tutoraggio, valutazione e
selezione del personale. Altra possibilità sarebbe quella, nei casi di
disponibilità del quadro over-50, di destinarlo ad apposite iniziative di
formazione per aggiornare il bagaglio di conoscenze dello stesso al fine di
poterlo ricollocare in altri settori aziendali.
Altra possibilità, in considerazione delle
modifiche previste dal D.Lgs. 81/2015 all’art. 2103 del c.c., potrebbe essere
quella di demansionare il quadro over-50 a patto però di garantire il
mantenimento del livello retributivo precedentemente percepito. In effetti i
commi 4 e 5 del novellato art. 2103 c.c. così prevedono: “4. Ulteriori ipotesi di
assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore
possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale.
5.
Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla
conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in
godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari
modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”.
Nel seguente art. 13 andrebbe
previsto un patto di non concorrenza, che si rende quanto mai necessario in
considerazione di quante risorse l’azienda andrebbe ad investire in termini di
tempo e denaro per la formazione del lavoratore. L’art. 2125 del codice civile
prevede che il patto di non concorrenza sia nullo qualora non sia pattuito un
corrispettivo a favore del prestatore di lavoro ed ancora se il vincolo non
risulti contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo; da
ultimo, nel caso dei quadri, la durata del vincolo non dev’essere superiore a 3
anni. Nel rispetto di quanto previsto, il patto potrebbe prevedere un robusto
corrispettivo, che si potrebbe attestare circa al 25% della retribuzione
mensile, al fine di indicare la durata massima del patto, un limite di oggetto
che copra la specifica attività di cui si occupava l’azienda ma permetta al
quadro di mettere la propria professionalità al servizio di un diverso settore
produttivo ed un limite di luogo indicativamente circoscritto alla regione in
cui il quadro rendeva la propria prestazione. Salvo queste indicazioni di
massima, la percentuale del corrispettivo potrà essere aumentata anche
sensibilmente al fine di ampliare i limiti di oggetto tempo e luogo nel caso la
professionalità del quadro sia di particolare rilevanza per il meccanismo
produttivo o gestionale dell’azienda.
L’art. 14 sarebbe dedicato alla previsione
della possibilità di personalizzare le tutele e le disposizioni previste nei
precedenti articoli sulla base di specifiche esigenze del lavoratore,
soprattutto dei ricercatori, oppure dell’azienda. Ad ogni modo, tale
personalizzazione potrebbe intervenire esclusivamente in caso di contrattazione
assistita; dunque, il contenuto dei precedenti articoli potrebbe essere
modificato solo nel caso in cui il quadro sia affiancato ed assistito da un
rappresentante sindacale da lui liberamente scelto, quale garante della
protezione degli interessi del lavoratore.
L’ultimo articolo, il 15, avrebbe
quale contenuto una clausola di chiusura, in ragione della quale per quanto non
espressamente previsto o disciplinato dagli articoli precedenti opererebbe un
rinvio alla disciplina contenuta nel CCNL di categoria.
[1] Antonio
Vallebona, Breviario di diritto del
lavoro, Giappichelli, Torino, 2012, p. 247.
[2]
In tema si vedano : a cura di Gaetano Zilio Grandi ed Elena Gramano, La disciplina delle mansioni prima e dopo il
Jobs Act – Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, Milano, 2016
oppure l’open access M. Menegotto, La
disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act – Nuovi spazi per la flessibilità
funzionale, consultabile e scaricabile al seguente link: http://moodle.adaptland.it/pluginfile.php/28157/mod_resource/content/0/wp_2016_7_menegotto.pdf
[3] Cass.
civ. Sez. lavoro, 17-08-1998, n. 8060, in Mass. Giur. It., 1998.
[4] Cass. civ. Sez. lavoro, 12-01-1999,
n. 275, Mass. Giur. It., 1999 e
Orient. Giur. Lav., 1999, I.
[5] Cass.
civ. Sez. lavoro, 09-10-2006, n. 21652 (rv. 592411), Mass. Giur. It., 2006 e
CED Cassazione, 2006
[6] Cass.
civ. Sez. lavoro, Sent., 21/10/2015, n. 21431, deciso in Roma, il 17 settembre
2015, depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2015.
[7] Cass.
civ. Sez. lavoro, Sent., 04/10/2016, n. 19770, deciso in Roma, il 5 maggio
2016, depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2016.
[8] App. Potenza
Sez. lavoro, deciso in data 17 settembre 2015, pubblicato in data 5 novembre
2015.
[9] Cass.
civ. Sez. Lavoro, 12-04-2016, n. 7120.
[10]
M. Tonetti, Chiare le mansioni e chiara
la categoria di appartenenza: dal giudice non si va, Diritto &
Giustizia, fasc. 18, 2016, pag. 107.
[11] Cass.
civ. Sez. lavoro, 05-07-2005, n. 14193, Mass. Giur. It., 2005 – CED Cassazione,
2005.
[12] Luca
Sgarbi, La Cassazione nega il
riconoscimento giudiziale dei quadri nelle amministrazioni pubbliche, Argomenti
Dir. Lav., 2006, 2 (nota a sentenza).
[13] Cass.
civ. Sez. lavoro, 06/03/2008, n. 6063.
[14] Cass.
civ. Sez. lavoro, Sent., 09/03/2009, n. 5651
[15] Fabio
Petracci ed Alessandra Marin, La legge
delega 124/2015 – Le modifiche al rapporto di pubblico impiego, 2016, Key
Editore, Frosinone.
[16]
Serra Dioniso, La vicedirigenza dopo la
norma interpretativa (art. 8, L.N. 15/09), Lavoro nella Giur., 2011, 5, 437
(commento alla normativa)
[17] Corte cost., Sent., (ud.
05/07/2016) 03-10-2016, n. 214
[18] http://it.wyser-search.com/2013/10/15/middle-manager-o-manager-a-meta/.
[19] http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2016/11/new-piktochart_17081394_5cb40bce3e4a98d3a809169785fb347ec430666e-copia.png.
[20]
M. Tiraboschi, La ricerca ai tempi delle
economie di rete e di Industry 4.0 – Contratti di ricerca in impresa e nel
settore privato, Giuffrè, Milano, 2016.
[21] http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/poletti-e-lepolemiche-sull-orario-di-lavoro-mai-pensato-di-tornare-alcottimo/220648/219847
[22]
A questo link è reperibile il testo completo del Disegno di Legge 2233/2016:
http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/testi/46476_testi.htm
[23]
Per un approfondimento sull’istituto si rimanda a: Fabio Petracci e Alessandra
Marin, Lavoro autonomo lavoro subordinato
e lavoro agile, Key Editore, Frosinone, 2016.
[24]
Clara Tourres, Lavoro agile e diritto di
disconnessione: una proposta francese, in www.bollettinoadapt.it.